Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20865 del 21/07/2021

Cassazione civile sez. I, 21/07/2021, (ud. 13/04/2021, dep. 21/07/2021), n.20865

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 3576/2017 proposto da:

B.G.C., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso

la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e

difesa dall’Avvocato Mario Pietro Mazzucco, giusta procura in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

A.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Monte Zebio

n. 30, presso lo studio dell’Avvocato Giammaria Camici, che lo

rappresenta e difende, unitamente all’Avvocato Alberto Figone,

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Genova;

– intimato –

avverso la sentenza n. 124/2016 della Corte d’appello di Genova,

pubblicata il 30/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/4/2021 dal Cons. Dott. Alberto Pazzi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il Tribunale di Genova, con sentenza n. 3250/2105, nel pronunciare la separazione dei coniugi B.G.C. e A.M., rigettava la richiesta di addebito avanzata dalla B. e condannava l’ A. a corrispondere al coniuge separato la somma mensile di Euro 3.000, rivalutabile annualmente, a titolo di contributo per il suo mantenimento.

2. La Corte d’appello di Genova, a seguito dell’impugnazione proposta da entrambe le parti, ribadiva che, in presenza di una convivenza meramente formale fin dall’inizio del matrimonio, nessun addebito poteva essere effettuato nei confronti dell’ A., non essendo possibile ravvisare alcun nesso causale fra infedeltà e crisi coniugale. Preso atto che l’importo già fissato quale contributo di mantenimento corrispondeva a quanto messo a disposizione mensilmente dal marito per sopperire all’esigenze dell’intero nucleo familiare, composto da tre persone, riduceva proporzionalmente la misura della sovvenzione a Euro 1.000, tenendo conto non solo del tenore di vita, ma anche del contributo dato da ciascuno dei coniugi alla vita familiare.

3. Per la cassazione di tale sentenza, pubblicata in data 30 novembre 2016, ha proposto ricorso B.G.C. prospettando due motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso A.M..

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. Il primo motivo di ricorso denuncia, in relazione al diniego dell’addebito della separazione all’ A., la violazione e falsa applicazione degli artt. 143 e 151 c.c., l’omesso esame di più fatti decisivi, provati in causa ed oggetto di contraddittorio, e la violazione dei principi stabiliti dagli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2730 c.c., comma 2, in materia di esame e valutazione del materiale probatorio acquisito, con riguardo alle dichiarazioni confessorie della controparte.

La Corte di merito ha ritenuto che l’infedeltà dovesse essere considerata come l’effetto e non la causa della crisi coniugale in ragione di una ravvisata tolleranza da parte della moglie dei comportamenti inadempienti del marito.

Queste considerazioni, frutto dell’erronea valutazione degli elementi acquisiti agli atti, hanno provocato – a dire della ricorrente – un improprio ribaltamento dei principi che regolano l’addebito, essendosi valorizzata, con argomenti illogici, la disponibilità mostrata dalla moglie a ricostruire l’unione coniugale (da non confondersi con un’accettazione o addirittura una condivisione dello stile di vita tenuto dal marito) a suo discapito piuttosto che la vita sentimentale parallela dell’ A..

5. Il motivo è inammissibile, per una pluralità di concorrenti ragioni.

5.1 La doglianza prospetta nel contempo una violazione e falsa applicazione di legge sostanziale, rispetto alla disciplina dell’addebito della separazione, una violazione di legge processuale, in relazione ai criteri di valutazione delle prove, e un omesso esame di più fatti decisivi e in questa molteplice prospettiva censura l’erronea valutazione di un contegno della ricorrente (di disponibilità ma non di accettazione) sotto tutti i profili rappresentati, riconducibili ai canoni di critica previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5.

Un simile coacervo di critiche, argomentate in maniera unitaria, non soddisfa l’onere previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), di articolare il ricorso per cassazione in specifici motivi riconducibili in maniera immediata e inequivocabile a una delle ragioni di impugnazione stabilite dall’art. 360 c.p.c., comma 1 (cfr. Cass. 24247/2016, Cass. 18829/2016).

Il giudizio di cassazione, infatti, è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito; ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, in modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito (Cass. 19959/2014).

Risulta perciò inammissibile il motivo di impugnazione che, come quello in esame, prospetti una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme asseritamente violate e riconducibili ad una pluralità dei canoni di critica previsti dall’art. 360 c.p.c..

Una simile censura, da un lato, costituisce una negazione della regola della chiarezza e, dall’altro, richiede un intervento della Corte volto ad enucleare dalla mescolanza dei profili le parti concernenti le separate censure (Cass. 18021/2016).

5.2 Quand’anche si volesse in qualche modo ravvisare una partita e individuabile denuncia della violazione di norme sostanziali e processuali le conclusioni non sarebbero dissimili.

Occorrerebbe infatti rilevare che l’odierna ricorrente non denuncia una violazione di legge (investendo l’attività di ricerca e interpretazione della norma regolatrice compiuta dal giudice di merito) o una falsa applicazione di legge (sotto il profilo dell’applicazione della norma al caso concreto) ma, ben diversamente, un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa.

Doglianza, questa, che però rimane estranea all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, che è sottratta al sindacato di legittimità (v. Cass. 24155/2017) se non sotto l’aspetto del vizio di motivazione (v. Cass. 22707/2017, Cass. 195/2016).

5.3 Inoltre la prospettata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., sotto le spoglie dell’eccepita violazione di legge processuale, tenta di introdurre un sindacato di fatto sull’esito della valutazione della congerie istruttoria; ciò malgrado la violazione dell’art. 115 c.p.c., possa essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato “della valutazione delle prove” (Cass., Sez. U., 15486/2017, Cass. 5009/2017, Cass. 24548/2016 e Cass. 11892/2016).

5.4 Neppure il vizio di motivazione è stato adeguatamente rappresentato.

L’odierna ricorrente ha inteso dolersi del fatto che siano “stati valutati erroneamente.. svariati elementi acquisiti in atti” e, dunque, non di un omesso esame di tali elementi, ma di un esame non conforme alle sue aspettative.

In questo modo il mezzo si pone al di fuori dei limiti propri del canone di critica utilizzato, che riguarda il tralasciato esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio e non si estende all’esame inappagante per la parte di tale fatto, che rientra nei compiti istituzionali del giudice di merito.

6. Il secondo motivo di ricorso lamenta – rispetto alla parte della sentenza che non ha riconosciuto l’aumento dell’assegno di mantenimento richiesto con l’appello principale e ha ridotto l’importo stabilito in primo grado – la violazione dell’art. 156 c.c., l’esistenza di plurimi errori nella valutazione di fatti comprovati in causa e la violazione dei principi di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c., in punto di esame e valutazione del materiale probatorio acquisito nel processo.

Il giudice di merito – in tesi di parte ricorrente – non ha adeguatamente considerato il reddito effettivo del marito, piuttosto che quello dichiarato, ed il tenore di vita tenuto dalla coppia in costanza di matrimonio, finanziato in via esclusiva dall’ A..

Nel contempo la Corte distrettuale ha confuso il calcolo del reddito che la moglie aveva avuto a disposizione durante il matrimonio con il tenore di vita della famiglia, corrispondente a cifre ben superiori e unico dato a cui occorreva fare riferimento nella liquidazione dell’assegno.

In realtà – conclude la ricorrente – non assumeva alcun rilievo il fatto che la moglie avesse in parte contribuito o meno alle spese della famiglia, dovendosi invece avere riguardo al dato, dirimente, dell’oggettivo elevato livello economico di spesa periodica, per la cui valutazione è stata omessa la considerazione di alcune prove, mentre altre sono state travisate nella loro pregnanza.

7. Il motivo e’, nel suo complesso, inammissibile.

7.1 Esso innanzitutto ripresenta i medesimi profili di inammissibilità del mezzo in precedenza vagliato, quanto a genericità della critiche sollevate, che sono state contemporaneamente formulate sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, prospettazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e volontà di introdurre un sindacato di fatto sull’esito della valutazione della congerie istruttoria piuttosto che denunciare in maniera appropriata un vizio di motivazione.

A questo proposito è sufficiente fare rinvio a quanto più sopra argomentato.

7.2 Vanno aggiunte due ulteriori chiose.

La ricorrente lamenta la mancata considerazione delle prove offerte, facendo riferimento in particolare alle relazioni di un’agenzia investigativa e al contenuto l’agenda del coniuge.

La Corte di merito, tuttavia, ha rilevato come nessuna censura fosse stata proposta rispetto alle ragioni addotte dal primo giudice per ritenere inammissibile la produzione di una prima relazione investigativa, così come ha ritenuto inammissibile la produzione di una seconda relazione, in mancanza dei presupposti richiesti dall’art. 345 c.p.c..

Inoltre, rispetto alle risultanze dell’agenda contabile dell’ A., il collegio di merito ha osservato che si trattava di un’elaborazione di dati estrapolati dalla B., senza alcuna certezza in ordine alla correttezza di una simile elaborazione.

Di queste spiegazioni la censura in esame non si cura affatto, limitandosi acriticamente a contestare la mancata valutazione di tali elementi probatori.

Ne discende, inevitabilmente, l’inammissibilità della doglianza, posto che l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui la statuizione è errata, risultando così imprescindibile la effettiva considerazione delle ragioni che la sorreggono (v. Cass. 6496/2017, Cass. 17330/2015, Cass. 359/2005).

7.3 Infine, rispetto alla denunciata confusione fra reddito disponibile e tenore di vita, in realtà la Corte d’appello ha considerato l'”oggettivo livello economico di spesa periodica” che a dire della ricorrente andava apprezzato, tenendo conto tanto delle disponibilità della moglie (di consistenza ritenuta non congruamente dimostrata e comunque destinate dal 2002, per scelta comune, non alle spese familiari ma all’acquisto di un immobile), quanto delle somme messe a disposizione dal marito, individuate però nella loro entità non secondo le indicazioni della sig.ra B. (giudicate apodittiche e non supportate da alcuna argomentazione), ma nell’importo di Euro 3.000, che era destinato mensilmente a “sopperire alle esigenze dell’intero nucleo familiare composto di tre persone”.

A questo proposito il profilo di doglianza non evidenzia, in realtà, alcuna criticità in punto di diritto in capo alla decisione impugnata, ma è espressione di un mero dissenso rispetto a un apprezzamento di fatto che, essendo frutto di una determinazione discrezionale del giudice di merito, non è sindacabile da questa Corte di legittimità.

8. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021

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