Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20865 del 02/08/2019

Cassazione civile sez. II, 02/08/2019, (ud. 22/03/2019, dep. 02/08/2019), n.20865

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15659-2015 proposto da:

F.A., M.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

G.G. BELLI 36, presso lo studio dell’avvocato SILVIA CLEMENZI, e

rappresentati e difesi dall’avvocato UMBERTO SARACCO giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

B.B.G., B.R.M., B.A.,

rappresentati e difesi dall’avvocato GIULIANO PAVAN e dall’avvocato

MASSIMO RANIERI giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2777/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata l’11/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/03/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dai controricorrenti.

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. Con ricorso del 28 dicembre 205 F.A. e M.E. ricorrevano al Tribunale di Treviso ai sensi della L. n. 794 del 1942, artt. 28e 29 per la liquidazione dei compensi professionali dovuti dagli eredi dell’avv. B.R., assumendo che avevano difeso il defunto collega in due distinte procedure giudiziali, e precisamente il F. nella controversia volta al recupero di crediti professionali nei confronti degli eredi Bo., e la M. nel giudizio di impugnazione di una delibera assembleare proposto dal B. nei confronti del condominio (OMISSIS).

Si costituivano i convenuti che, pur non contestando l’esistenza

di una valida procura rilasciata dal loro dante causa ai ricorrenti, assumevano che in realtà tutta l’attività defensionale relativa alle due procedure era stata svolta unicamente dall’avv. B., con l’ausilio dell’avv. D.N., sua collaboratrice di studio all’epoca dei fatti.

Il Tribunale adito con ordinanza del 3 gennaio 2006 accoglieva la richiesta dei ricorrenti condannando i convenuti al pagamento della somma di Euro 13.862,47 oltre interessi legali, ritenendo che il conferimento della procura, la sottoscrizione degli atti di causa e la partecipazione alle udienze comprovavano l’esistenza e lo svolgimento del mandato difensivo, e quindi giustificavano la richiesta di pagamento. Avverso tale ordinanza proponevano appello gli eredi B., cui resistevano le originarie parti istanti.

La Corte d’Appello di Venezia, all’esito dell’istruttoria, con sentenza n. 2777 dell’11 dicembre 2014, accoglieva il gravame, condannando gli appellati al rimborso delle spese del doppio grado ed alla restituzione delle somme versate dagli appellanti in esecuzione dell’ordinanza gravata.

Dopo avere ritenuto ammissibile l’appello, in quanto gli eredi del conferente la procura avevano in primo grado contestato la stessa esistenza del mandato difensivo, riteneva che fossero fondate le doglianze degli appellanti.

Infatti, dopo avere richiamato la distinzione tra procura alle liti e contratto di patrocinio, rilevava che non vi erano limiti all’ammissibilità della prova, anche per testi, dell’inesistenza del secondo.

Dalle prove raccolte era emerso, con sufficiente grado di certezza, che gli appellati avevano ricevuto la procura solo per ragioni di cortesia da parte del B., che era parte dei giudizi per i quali era stata rilasciata, ma che tutta l’attività professionale era stata svolta dal solo B. (redazione degli atti difensivi, istruzioni per le udienze, definizione transattiva e comunque ogni attività di opera professionale) anche tramite la sua collaboratrice, avv. D.N..

Quest’ultima aveva confermato tali circostanze, come lo stesso avevano fatto anche altri testi ( P., C., Br. e R.), fornendo pieno riscontro a quanto riferito dalla teste D.N., della cui attendibilità non vi era ragione di dubitare.

Quanto ai testi addotti dagli appellati ( bo. e I.), i giudici di appello rilevavano che non avevano saputo riferire nulla di specifico quanto alla concreta predisposizione degli atti processuali, affermando semplicemente che erano firmati dai ricorrenti, essendo infine la deposizione della teste Cu., dipendente degli appellati, contraddetta da tutte le altre dichiarazioni dei testi.

A conferma del fatto che gli appellati non avevano effettivamente seguito le procedure oggetto di causa, la sentenza d’appello rilevava la presenza di numerosi errori ed imprecisioni nella stesura delle notule, che denotavano una non puntuale conoscenza dell’effettivo andamento delle cause. Quanto, infine alla partecipazione ad alcune udienze da parte degli istanti, si rilevava che rientrava nel rapporto di collaborazione all’epoca esistente e nella prassi delle reciproche sostituzioni in udienza, alla quale avevano fatto cenno i testi escussi.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso F.A. e M.E. sulla base di quattro motivi.

Gli intimati hanno resistito con controricorso.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto relative alla procura ad litem ex art. 83 c.p.c. e ss. ed al contratto di patrocinio ex art. 2230 c.c. e ss. e/o art. 1706 c.c.

Si deduce che per tutte le controversie per le quali sono stati richiesti i compensi i ricorrenti avevano sempre prodotto le procure alle liti validamente rilasciate dal dante causa dei convenuti, le quali assumono valore dirimente ai fini della prova anche del contratto di patrocinio.

Gli stessi precedenti di legittimità richiamati dal giudice di appello, in realtà confortano l’assunto secondo cui il formale conferimento della procura alla lite ed il concreto esercizio della rappresentanza processuale configurano il perfezionamento in forma scritta del sottostante rapporto di patrocinio, che non poteva essere quindi disconosciuto, come invece fatto dalla sentenza gravata.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha fatto puntuale applicazione del costante principio di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 26060/2013) va fatta distinzione tra rapporto endoprocessuale nascente dalla procura ad litem e rapporto di patrocinio.

Nel caso esaminato in tale precedente si è ritenuto possibile, secondo la giurisprudenza di questa Corte, individuare come cliente, e cioè obbligato al pagamento del compenso nei confronti dell’avvocato, un soggetto diverso da colui che ha rilasciato la procura, ma purchè sia provato il conferimento dell’incarico da parte del terzo, dovendosi, in difetto, presumere che il cliente è colui che ha rilasciato la procura (conf. Cass. n. 405/2000).

La decisione impugnata ha appunto fatto riferimento all’autonomia che, sia logicamente che giuridicamente, viene riconosciuta alla procura rispetto al contratto di patrocinio, occorrendo a tal fine ricordare come anche di recente sia stato ribadito che (Cass. n. 14276/2017) in tema di attività professionale svolta da avvocati, mentre la procura “ad litem” è un negozio unilaterale con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il mandato sostanziale costituisce un negozio bilaterale (cd. contratto di patrocinio) con il quale il legale viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato, di svolgere la sua opera professionale in favore della parte; conseguentemente, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura “ad litem”, essendo questa richiesta solo per lo svolgimento dell’attività processuale, nè rileva il versamento di un fondo spese o di un anticipo sul compenso, atteso che il mandato può essere anche gratuito e che, in ipotesi di mandato oneroso, il compenso ed il rimborso delle spese possono essere richiesti dal professionista durante lo svolgimento del rapporto o al termine dello stesso. Trattasi di affermazioni che si pongono in linea di continuità con i precedenti richiamati anche dal giudice di appello (Cass. n. 13963/2006 e Cass. n. 18450/2014) che però attenevano a fattispecie nelle quali non era posto in discussione, o comunque era dimostrato, il concreto svolgimento di attività difensionale da parte del professionista, ponendosi, nella prima circostanza, il quesito circa la possibilità di poter rinvenire il requisito formale previsto per la validità dei contratti della P.A. (nella specie di opera professionale) nel rilascio in forma scritta della procura, e nella seconda, l’interrogativo se l’invalidità formale della procura potesse essere supplita dalla validità del sottostante contratto di patrocinio.

Anche tali pronunce però ribadiscono l’autonomia concettuale e giuridica tra la procura ed il contratto di mandato difensivo, dovendosi però ribadire che il diritto al compenso scaturisce solo nel caso in cui quest’ultimo esista e sia stato effettivamente adempiuto.

E’ pur vero che, come nel caso deciso da Cass. n. 13963/2006, si è ritenuto che in tema di forma scritta “ad substantiam” dei contratti della P.A., il requisito è soddisfatto, nel contratto di patrocinio, con il rilascio al difensore della procura ai sensi dell’art. 83 c.p.c., atteso che l’esercizio della rappresentanza giudiziale tramite la redazione e la sottoscrizione dell’atto difensivo perfeziona, mediante l’incontro di volontà fra le parti, l’accordo contrattuale in forma scritta, rendendo così possibile l’identificazione del contenuto negoziale e i controlli dell’Autorità tutoria (conf. Cass. n. 2266/2012; Cass. n. 3721/2015), ma trattasi di orientamento che concerne fattispecie nelle quali è pacifico che un mandato difensivo fosse stato effettivamente conferito, discutendosi solo della sua validità sotto il profilo formale.

Nella vicenda qui in esame, è proprio l’esistenza del sottostante rapporto di patrocinio che è stata posta in discussione dai convenuti che hanno sin dall’inizio sostenuto che in realtà il rilascio della procura era avvenuto “per ragioni di cortesia”, e verosimilmente al fine di evitare che l’avv. B. comparisse come difensore di se stesso, in cause personali nelle quali era direttamente interessato.

I giudici di merito, con accertamento in fatto, come tale non suscettibile di sindacato in questa sede, anche perchè, come si avrà modo di ribadire anche in prosieguo, supportato da logica e coerente argomentazione, hanno ritenuto, sulla base dell’istruttoria svolta, che effettivamente tutte le attività difensive, come individuate a pag. 9, secondo capoverso, della sentenza impugnata, fossero state svolte dall’avv. B., al più avvalendosi della collaborazione dell’avv. D.N., escludendo quindi che i ricorrenti fossero stati officiati, pur a fronte del formale rilascio della procura, di un incarico professionale, dovendosi altresì ritenere che la partecipazione ad alcune udienze non potesse deporre in senso contrario, trattandosi di attività compiuta nell’ambito dei rapporti di collaborazione che all’epoca le parti intrattenevano, e secondo la prassi costante che prevedeva la reciprocità dei favori (considerazione questa che evidentemente esclude che potesse sorgere da tale sola partecipazione un diritto ad un compenso). Deve quindi escludersi la ricorrenza della dedotta violazione di legge, essendo stata ribadita in sentenza la regola dell’autonomia tra la procura ed il contratto di mandato, non potendosi attribuire al rilascio della prima l’idoneità a comprovare l’esistenza del secondo laddove risulti, sulla base degli accertamenti compiuti dal giudice di merito, ed allo stesso riservati, che le parti non intendevano anche concludere un contratto di patrocinio.

3. Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1417 e 2722 c.c. e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti costituito dall’eccezione in merito all’ammissione delle prove testimoniali.

Deducono i ricorrenti che non poteva essere ammessa la prova testimoniale da parte del giudice di appello, e ciò in quanto, all’esito del conferimento della procura, doveva ritenersi validamente concluso anche il contratto di patrocinio, sicchè la prova circa l’effettivo svolgimento del mandato e la volontà delle parti contraria al conferimento dell’incarico era in contrasto con il divieto di prova per testi su patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento di cui si alleghi la stipulazione anteriore o contestuale.

Inoltre, tale prova mirava a dimostrare l’esistenza di un accordo simulatorio che non poteva esser però provato dalle parti a mezzo testimoni.

Il motivo è del pari destituito di fondamento.

Lo stesso, infatti, si fonda essenzialmente sulla conclusione che è alla base del primo motivo di ricorso, e della quale si è già attestata l’infondatezza, secondo cui il rilascio della procura costituirebbe prova documentale anche del contratto di patrocinio.

In tal senso giova rilevare che dovendosi confermare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nei rapporti tra privati (cfr. Cass. n. 10454/2002) ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura “ad litem”, essendo questa necessaria solo per lo svolgimento dell’attività processuale, e che non è richiesta la forma scritta, vigendo per il mandato il principio di libertà di forma, il rilascio della procura al più genera una presunzione circa l’esistenza anche del contratto di patrocinio, presunzione che però risulta nella fattispecie essere stata vinta, alla luce degli esiti dell’istruttoria svolta, la quale ben poteva consistere anche in prove di carattere testimoniale.

Va escluso quindi che la prova sia stata ammessa dal giudice di secondo grado in violazione della previsione di cui all’art. 2722 c.c., come del pari deve escludersi che possa invocarsi il disposto di cui all’art. 1417 c.c., atteso che, una volta ribadito che, secondo la valutazione dei giudici di merito, non esisteva un collegato contratto di patrocinio redatto in forma scritta, la prova richiesta dagli appellanti, lungi dall’essere finalizzata a dimostrare la simulazione di un coevo contratto, mirava più semplicemente a documentare l’inesistenza del fatto costitutivo addotto a sostegno della pretesa dei ricorrenti, fatto costitutivo (mandato difensivo) che infondatamente si riteneva di poter ricavare dal solo rilascio della procura (che, per quanto sinora esposto, può al più fondare una presunzione che le attività svolte nell’interesse della parte che ha rilasciato la procura siano supportate anche da un contratto di mandato professionale, presunzione che nella fattispecie risulta essere stata superata da parte dei convenuti).

Il motivo si palesa poi del tutto inammissibile nella parte in cui invoca il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 adducendo l’omesso esame non già di un fatto storico, quanto l’erronea valutazione di un’eccezione di inammissibilità della prova testimoniale, eccezione che peraltro risulta essere stata anche espressamente, seppur negativamente, delibata dai giudici di appello.

4. Il terzo motivo lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e precisamente: – il periodo temporale in cui gli avv. F., M. e D.N. hanno prestato la propria attività a favore dell’avv. B.; – la particolare posizione dell’avv. B. quale parte rappresentata.

Anche tale motivo va disatteso.

La censura mira nella realtà a sollecitare surrettiziamente un riesame del merito da parte del giudice di legittimità, aspirando, in maniera non consentita ad una diversa ricostruzione delle vicende fattuali in contrasto con quanto ritenuto dai giudici di appello, con valutazione accurata ed immune da vizi logici.

La conclusione avversata dai ricorrenti, secondo cui non vi sarebbe stato alcun rapporto di patrocinio tra il B. ed i ricorrenti, è il frutto per l’appunto di una complessiva valutazione delle risultanze istruttorie e risulta essere stata raggiunta considerando, alla luce di quanto riferito dai vari testi escussi, quale fosse stata l’attività effettivamente svolta dalle originarie parti istanti nei processi in relazione ai quali viene richiesto il pagamento del compenso.

In disparte il difetto di specificità della censura, nella parte in cui, in violazione del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non riporta il tenore delle deposizioni di alcuni testi, ai quali ha fatto invece richiamo la sentenza appellata (si pensi al teste C.), la critica dei ricorrenti si rivolge alla complessiva, e non sindacabile, valutazione del giudice di appello, la quale ha tenuto conto anche delle circostanze di cui invece si assume esservi stata l’omessa disamina, fornendo anche spiegazione circa le ragioni per le quali la partecipazione ad alcune udienze da parte dei ricorrenti non potesse assurgere a prova del contratto di patrocinio, trovando invece razionale giustificazione nei rapporti di reciproca e usuale collaborazione tra professionisti, usi a scambiarsi siffatti favori, e quindi senza diritto ad alcun compenso.

5. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 246 c.p.c. con specifico riguardo alle norme sull’attendibilità dei testimoni e sull’incapacità a testimoniare.

Si deduce che la Corte d’Appello avrebbe inopinatamente dato maggior credito alle deposizioni rese dai testi addotti dalla controparte, negando invece valenza alla deposizione resa dalla teste Cu., sol perchè ancora dipendente dello studio dei ricorrenti.

Anche tale motivo va rigettato.

Al riguardo deve essere richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui (Cass. n. 7623/2016), la verifica in ordine all’attendibilità del teste – che afferisce alla veridicità della deposizione resa dallo stesso – forma oggetto di una valutazione discrezionale che il giudice compie alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità.

Infatti, si è precisato che (Cass. n. 13054/2014) sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice.

Nel caso di specie i giudici di appello, in conformità di quanto suggerito da alcuni precedenti di questa Corte (Cass. n. 1547/2015) secondo cui, nel caso sussista un contrasto fra le dichiarazioni rese dai testimoni escussi, il giudice di merito è tenuto a confrontare le deposizioni raccolte ed a valutare la credibilità dei testi in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza alle parti, l’intrinseca congruenza di dette dichiarazioni e la convergenza di queste con gli eventuali elementi di prova acquisiti, per poi esporre le ragioni che lo hanno portato a ritenere più attendibile una testimonianza rispetto all’altra o ad escludere la credibilità di entrambe, hanno puntualmente compiuto tale valutazione dando atto di come le deposizioni di alcuni dei testi indicati dagli attori ( bo. e I.) non avessero portata rivelatrice circa l’effettiva esistenza del contratto di patrocinio, e rilevando, quanto alla teste Cu., come la sua complessiva inattendibilità trovasse conforto sia nella sua qualità soggettiva, di attuale dipendente delle parti appellate, sia nella contraddittorietà tra quanto dichiarato e quanto emergeva in maniera univoca dalle deposizioni degli altri testi, di cui non era invece in discussione l’attendibilità.

Alla luce di tale compiuta motivazione risulta palese quale sia il reale intento delle parti ricorrenti che, a fronte della apparente prospettazione di una violazione di legge, svolgono una critica all’apprezzamento di fatto operato in sentenza, che però è preclusa in questa sede.

6. Al rigetto del ricorso consegue che le spese vanno regolate secondo il principio di soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

7. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso;

Condanna i ricorrenti al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 3.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2019

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