Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20853 del 10/10/2011

Cassazione civile sez. II, 10/10/2011, (ud. 24/06/2011, dep. 10/10/2011), n.20853

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.C. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e difeso da

se medesimo ex art. 86 cod. proc. civ., domiciliato in Roma, Piazza

Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte suprema di

cassazione;

– ricorrente –

contro

F.M. e F.S., elettivamente domiciliati in

Roma, via degli Scipioni n. 267, presso lo studio dell’Avvocato

Savini Zangrandi Luca, dal quale sono rappresentati e difesi,

unitamente all’Avvocato Fabrizio Conti, per procura speciale in calce

al controricorso;

– controricorrenti –

per la sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 817 del 2009,

depositata il 19 giugno 2009.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24

giugno 2011 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti;

sentiti gli Avvocati Carlo Corti e Luca Savini Zangrandi;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

SGROI Carmelo il quale ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con atto di citazione ritualmente notificato il 16 marzo 1994 il sig. F.F. conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Arezzo, l’Avvocato C.C. chiedendo che fosse accertata la proprietà comune del lastricato in pietra posto all’inizio della corte condominiale, sul quale il convenuto aveva installato un palo per sorreggere un impianto citofonico e posto una pietra per sostenere un bidone della spazzatura. Il sig. F. chiedeva conseguentemente la condanna del convenuto alla rimozione di tali opere.

Si costituiva il convenuto eccependo di essere titolare esclusivo dell’area in questione e chiedendo, in via riconvenzionale, che fosse il sig. F. ad essere condannato alla rimozione di taluni oggetti (vasi di fiori) dal lastricato che assumeva essere proprio.

Il Tribunale di Arezzo, con sentenza n. 336 del 2004, rigettava sia la domanda dell’attore, accertando che l’area contesa era di proprietà comune – avendo essa natura di cortile e non risultando dai documenti prodotti dal C. che questi ne avesse la proprietà esclusiva -, sia la domanda riconvenzionale, ritenendo che gli oggetti apposti dall’altro comproprietario non impedissero l’uso della cosa comune.

Il C. proponeva appello dinnanzi alla e di Firenze per due motivi: per non aver il giudice di primo grado ritenuto vinta la presunzione di comproprietà, pur avendo egli prodotto in giudizio due rogiti comprovanti la sua titolarità esclusiva, e per aver il Tribunale erroneamente qualificato l’area in questione come “cortile” e non come strada d’accesso.

L’appellante insisteva quindi nel chiedere la rimozione delle cose apposte sul lastricato da parte del sig. F.. Quest’ultimo si costituiva contestando tutti gli assunti e le richieste avversarie.

In corso di causa l’appellato F.F. decedeva e gli succedevano nel processo gli eredi F.M. e F. S..

Successivamente al deposito della sentenza di primo grado, avendo il F. chiesto e ottenuto, ex art. 287 cod. proc. civ., la correzione della sentenza nella parte in cui indicava erroneamente gli estremi catastali dell’area contestata, il C. impugnava la sentenza come corretta.

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza n. 817 del 2009, decideva congiuntamente le due impugnazioni, in quanto proposte avverso la medesima decisione.

Sull’impugnazione proposta dal C. avverso la sentenza del Tribunale di Arezzo n. 336 del 2004, la Corte d’appello si pronunciava nel senso del rigetto, ritenendo che dall’originario atto con cui il C. aveva acquistato l’abitazione posta al piano superiore del fabbricato di cui era comproprietario il F. emergeva chiaramente sia la natura comune della corte, sia la servitù di passaggio su di essa insistente in favore dell’acquirente.

L’impugnazione della sentenza come corretta su istanza dei F. veniva ritenuta dal giudice di seconde cure inammissibile, sul rilievo che l’impugnato provvedimento di correzione, pur se qualificato formalmente come sentenza, era nella sostanza un atto avente natura amministrativa e come tale non soggetto agli ordinar rimedi processuali.

Per la cassazione della sentenza relativa alla prima delle impugnazioni da lui proposte, il C. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. Resistono con controricorso i sig.ri F.M. e F.S..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione in forma semplificata.

Con il primo e il secondo motivo di ricorso il ricorrente denunzia la violazione, rispettivamente, dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 948 cod. civ., sostenendo che nè in primo nè in secondo grado il F., prima, e i suoi eredi, poi, avessero fornito prova alcuna dei fatti che costituivano fondamento delle loro pretese; in particolare, avendo l’attore agito in rivendica, non era stata fornita la prova – diabolica – dell’ effettiva proprietà in capo al proprio dante causa, risalendo a ritroso fino al primo acquisto del bene a titolo originario.

Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia la “falsa e/o erronea applicazione dell’art. 1117 c.c.”, assumendo di aver ampiamente provato il superamento della presunzione di comproprietà.

Con il quarto motivo, il C. censura la pronuncia d’appello per violazione dell’art. 91 cod. proc. civ., sostenendo di essere stato ingiustamente condannato al pagamento delle spese concernenti il secondo giudizio d’appello da lui promosso, pur essendo stato questo riunito al precedente e deciso con un’unica sentenza.

Il ricorso è inammissibile.

Invero, posto che il provvedimento impugnato è stato emesso in data 25 maggio 2009, trova piena applicazione il disposto di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ. – recante una specifica disciplina circa la formulazione dei motivi di ricorso per cassazione – ancorchè successivamente abrogato ad opera della L. n. 69 del 2009, applicabile però ai giudizi proposti avverso decisioni pubblicate a far data dal 4 luglio 2009.

Nella giurisprudenza di questa Corte si è chiarito che “il quesito di diritto imposto dall’art. 366-bis cod. proc. civ., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C. di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regola, juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata” (Cass., n. 11535 del 2008).

In particolare, “il quesito di diritto non può essere desunto dal contenuto del motivo, poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 consiste proprio nell’imposizione, al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (Cass., ord. n. 20409 del 2008).

Nella specie, il ricorrente denuncia con i quattro motivi prima indicati violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (pur se tale disposizione non è esplicitamente menzionata).

Ne consegue che tutti i motivi, secondo la prescrizione del citrato art. 366-bis, applicabile ratione temporis, avrebbero dovuto essere corredati dalla formulazione di uno specifico quesito di diritto, nella specie del tutto mancante.

Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorario, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, il 24 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2011

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