Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2083 del 29/01/2021

Cassazione civile sez. trib., 29/01/2021, (ud. 05/11/2020, dep. 29/01/2021), n.2083

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. XXXXXX – Presidente –

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. CENICCOLA Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8585/16 R.G. proposto da:

P.G., rappresentato e difeso, giusta delega in calce al

ricorso, dall’avv. Maione Nicola, con domicilio eletto presso il suo

studio, in Roma, alla via Garigliano, n. 11;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso

la quale è elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi,

n. 12

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio

n. 4907/21/15 depositata in data 18 settembre 2015;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 novembre

2020 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. P.G., notaio esercente nel distretto di Catanzaro, impugnava la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma, con la quale era stato rigettato il ricorso dallo stesso proposto avverso l’avviso di accertamento emesso dall’Amministrazione finanziaria, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, con il quale era stato rettificato il reddito relativo all’anno 2006 sul presupposto che il contribuente, valendosi della società interposta Pebros Service s.r.l., che agiva come intermediaria, aveva gonfiato i costi dei servizi dalla stessa acquistati ed a lui girati per l’esercizio dell’attività professionale allo scopo di ottenere un risparmio di imposta.

2. La Commissione tributaria regionale del Lazio, rigettando il gravame, osservava che la Pebros Service s.r.l. aveva reso una serie di servizi che non richiedevano una particolare competenza e che il professionista avrebbe potuto procacciarsi autonomamente (considerato che lo stesso operava a Roma e la Pebros in Calabria), con notevole risparmio di costi; tutto ciò aveva aumentato l’imponibile della società e diminuito quello del contribuente che era tuttavia sottoposto alla maggiore aliquota del 45 per cento.

Rilevava, pure, che la Pebros Service s.r.l. operava esclusivamente per il notaio Perrella e che tali elementi, unitamente all’antieconomicità dei servizi prestati, costituivano prova della interposizione fittizia, che trovava ulteriore riscontro negli stretti rapporti di parentela che legavano il socio unico e l’amministratore della società, rispettivamente moglie e padre, al notaio; riteneva, inoltre, del tutto irrilevante il fatto che la Pebros Service s.r.l. fosse stata costituita circa due anni prima dell’inizio dell’attività da parte del Perrella, essendo incontestato che la società si fosse occupata sempre e soltanto del contribuente, e del tutto ininfluente il presunto errore di calcolo in cui, a giudizio del contribuente, sarebbe incorso l’Ufficio ai fini della determinazione del totale dei costi operativi, considerato che il margine operativo della Pebros Service s.r.l., anche sulla base dei conteggi operati dal contribuente, era comunque considerevole.

3. Ricorre per la cassazione della suddetta decisione P.G., con quattro motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 380-bis.1. c.p.c..

L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce nullità della decisione impugnata per omessa pronuncia sulla eccepita nullità dell’avviso di accertamento per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, derivante dalla mancanza di sottoscrizione dell’atto da parte di funzionario legittimato.

Sostiene che nel corso del giudizio di primo grado aveva sollevato, in via pregiudiziale, tale eccezione, sottolineando che l’avviso di accertamento impugnato era stato sottoscritto non dal direttore dell’Agenzia delle entrate, cui spettava il relativo potere rappresentativo, bensì da funzionario non legittimato, ossia dal Capo Area, Dott. C.F., privo dei relativi poteri e di una specifica delega. Richiamando il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 che stabilisce che sono nulli gli accertamenti non sottoscritti dal capo dell’ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva validamente delegato dal reggente dell’Ufficio stesso, assume che, in difetto della sottoscrizione, che costituisce elemento costitutivo dell’atto, questo deve considerarsi giuridicamente inesistente e tale inesistenza è rilevabile d’ufficio.

1.1. Il motivo è infondato e non va accolto.

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 5, 14/01/2015,

n. 452; Cass., sez. 11/10/2017, n. 24155; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718).

Nella specie, la Commissione regionale, affrontando nel merito la pretesa fiscale, ha implicitamente disatteso l’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento per difetto di sottoscrizione, sollevata dal ricorrente.

1.2. Peraltro, anche qualora mancasse effettivamente la sottoscrizione, tale vizio non potrebbe determinare un’ipotesi di inesistenza dell’atto impugnato, in quanto i vizi che afferiscono alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento possono inficiare la sua validità, comportandone la nullità, ma non la inesistenza giuridica dello stesso.

Inoltre, nel processo tributario, la nullità dell’avviso di accertamento non è rilevabile d’ufficio e la relativa eccezione, se non formulata nel giudizio di primo grado, non è ammissibile qualora venga proposta nelle successive fasi del giudizio (Cass., sez. 5, 5/05/2010, n. 10802; Cass., sez. 5, 24/06/2016, n. 13126; Cass., sez. 5, 13/01/2017, n. 706).

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che alla sanzione della nullità comminata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, all’avviso di accertamento privo di sottoscrizione non è direttamente applicabile il regime normativo di diritto sostanziale e processuale dei vizi di nullità dell’atto amministrativo – che hanno trovato riconoscimento positivo nella L. n. 241 del 1990, art. 21-septies e sistemazione processuale nel D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 31, comma 4, (CPA) nell’autonoma azione di accertamento della nullità sottoposta a termine di decadenza, e nella attribuzione del potere di rilevazione ex officio da parte del Giudice amministrativo – atteso che l’ordinamento tributario costituisce un sottosistema del diritto amministrativo, con il quale è in rapporto di species ad genus, potendo pertanto trovare applicazione le norme generali sugli atti del procedimento amministrativo soltanto nei limiti in cui non siano derogate e non risultino incompatibili con le norme speciali di diritto tributario che disciplinano gli atti del procedimento impositivo, ostando alla generale estensione del regime normativo di diritto amministrativo la scelta operata dal legislatore, nella sua piena discrezionalità politica, di ricomprendere nella categoria unitaria della “nullità tributaria” indifferentemente tutti i vizi ritenuti tali da inficiare la validità dell’atto tributario, riconducendoli, indipendentemente dalla peculiare natura di ciascuno, nello schema della invalidità – annullabilità, dovendo essere gli stessi tempestivamente fatti valere dal contribuente mediante impugnazione da proporsi, con ricorso, entro il termine di decadenza di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, in difetto del quale il provvedimento tributario pure se affetto dal vizio di nullità – si consolida, divenendo definitivo e legittimando l’Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva dell’imposta (Cass., sez. 5, 9/11/2015, n. 22803).

Di conseguenza si pone in conflitto con il sistema normativo tributario l’affermazione secondo cui, in difetto di tempestiva impugnazione dell’atto impositivo affetto da nullità, tale vizio possa comunque essere fatto valere per la prima volta dal contribuente con l’impugnazione dell’atto consequenziale, oppure che, emergendo dagli atti processuali, possa comunque essere rilevato d’ufficio dal giudice tributario, in difetto di norma di legge che attribuisca espressamente tale potere (Cass., sez. 3, 18/09/2015, n. 18488).

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..

Premettendo che la disposizione normativa richiamata chiarisce che il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa, non potendo pronunciarsi d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte solo dalle parti, il contribuente sostiene che la C.T.R. ha deciso nel merito la controversia non considerando che costituiva fatto incontestato tra le parti che l’attività notarile venisse svolta in Calabria e non a Roma, come affermato nella sentenza impugnata.

3. Con il terzo motivo, deducendo violazione dell’art. 116 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorrente, nel ribadire che i giudici di appello sono incorsi nell’errore di affermare che l’attività notarile era sempre stata svolta a Roma, lamenta che le argomentazioni su cui poggia la motivazione della decisione impugnata sono incongruenti ed insufficienti in ordine alle prove offerte.

3.1. Il secondo motivo è infondato.

3.2. Il principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’art. 112 c.p.c., implica unicamente il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa – alla stregua delle risultanze istruttorie -autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass., sez. 3, 20/06/2008, n. 16809; Cass., sez. 3, 26/10/2009, n. 22595; Cass., sez. 1, 13/11/2018, n. 29200; Cass., sez. 3, 17/01/2018, n. 906; Cass., sez. L, 24/03/2011, n. 6757).

Nel caso in esame i giudici di secondo grado non hanno alterato gli elementi oggetti di identificazione della domanda (petitum e causa petendi), nè hanno emesso una statuizione che non trovi rispondenza nella domanda, per cui non è configurabile il vizio processuale formulato.

4. Con riguardo al terzo motivo, questo Collegio non può che ribadire, richiamando l’orientamento costante di questa Corte di legittimità, che, attraverso il combinato disposto dell’art. 116 c.p.c. e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non è consentito riproporre la censura dei vizi di logicità eliminati dall’attuale testo normativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che il principio del libero convincimento ex art. 116 c.p.c. opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito riservato in via esclusiva al giudice e come tale è insindacabile in sede di legittimità; pertanto, la denuncia di violazione dell’art. 116 c.p.c. solo apparentemente introduce un vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, traducendosi piuttosto nella denuncia di “un errore di fatto” che deve essere fatta valere attraverso il corretto paradigma normativo del vizio motivazionale, e, quindi, nei limiti consentiti dal riformato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. 6-5, 28/03/2012, n. 5024; Cass., sez. 6-5, 7/01/2014, n. 91; Cass., sez. 3, 12/10/2017, n. 23940).

4.1. Quanto detto comporta che la censura di violazione delle predette norme processuali non può giustificare la trasformazione del precedente vizio di motivazione “per insufficienza od incompletezza logica”, non più sindacabile in questa sede in conseguenza della nuova formulazione del vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, in un vizio di “errore di diritto” attinente all’attività processuale, non essendo autonomamente denunciabili, attraverso la censura della violazione dell’art. 116 c.p.c., asseriti errori di convincimento strettamente attinenti alla rilevanza dai giudici di merito attribuita ad alcune questioni o alle argomentazioni attraverso le quali si è estrinsecato il potere di valutazione delle prove offerte dalle parti ed acquisite al giudizio, restando precluso in sede di legittimità l’accertamento dei fatti o, comunque, la loro valutazione ai fini istruttori (Cass., sez. L, 21/10/2015, n. 21439).

Le considerazioni svolte impongono di dichiarare inammissibile il terzo motivo di ricorso con il quale, attraverso la dedotta violazione di norma processuale, si tende in realtà a contestare il vizio di insufficienza e contraddittorietà della motivazione della sentenza.

4.2. Peraltro, anche qualora si volesse qualificare la censura come denuncia di un vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nuovo testo, applicabile al caso di specie, il motivo non potrebbe sottrarsi alla declaratoria di inammissibilità per difetto del requisito ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, in mancanza di puntuali argomenti a supporto delle critiche rivolte alla decisione impugnata, essendosi il ricorrente limitato a riproporre le censure contenute nell’atto di appello, trascrivendone il relativo contenuto, ed a sottolineare che i giudici regionali hanno erroneamente asserito che l’attività notarile veniva svolta a Roma, anzichè a Catanzaro, omettendo tuttavia di indicare in modo specifico gli errori di valutazione in cui sarebbe incorso il giudice di merito in ordine alle ulteriori prove documentali offerte.

Va, al riguardo, evidenziato che, sebbene i giudici d’appello abbiano non correttamente affermato che il notaio operava a Roma e che risultava poco conveniente delegare ad una società operante in Calabria i servizi indispensabili per lo svolgimento dell’attività professionale (quali locazione dei locali, acquisto di arredi e di materiale di cancelleria, pulizia ed altro), non può sottacersi che il convincimento dei giudici di merito non poggia esclusivamente su tale circostanza, ma prende in considerazione ulteriori elementi – quali la antieconomicità dei servizi prestati dalla Pebros Servizi s.r.l., la intestazione delle quote della società a soggetti legati da stretti vincoli di parentela al contribuente, nonchè il fatto, pure incontestato, che la società Pebros Service s.r.l., avente come oggetto sociale l’attività di servizi in favore di studi notarili, si fosse occupata solo dello studio professionale di cui era titolare il ricorrente – elementi tutti che li hanno indotti a ritenere la sussistenza della contestata interposizione fittizia.

5. Con il quarto motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, il ricorrente si duole che il giudice di appello ha qualificato come elusiva la condotta dallo stesso tenuta riconducendo la fattispecie all’art. 37 citato, sebbene la condotta, concretatasi nel conferimento ad una società di determinati servizi, costituisca attività pienamente lecita.

Sostiene che la norma invocata è applicabile solo ai casi di evasione realizzata per il tramite di una interposizione fittizia di persona, intesa in senso civilistico, ovvero a quei casi in cui il titolare effettivo del reddito non lo dichiara, facendo apparire come titolare (fittizio) del medesimo una persona diversa, sulla base di un negozio soggettivamente simulato.

Secondo la prospettazione del ricorrente, nel caso in esame era, invece, pacifico che le operazioni che avevano condotto alla “traslazione” del reddito erano reali, per cui non era ravvisabile interposizione fittizia

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. La pretesa fiscale trova fondamento nella disposizione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, che prescrive la imputazione diretta al contribuente “dei redditi di cui appaiono titolari gli altri soggetti, quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”.

5.3. La norma, che ha evidenti finalità antielusive, mira in sostanza ad impedire che, attraverso operazioni commerciali compiute mediante negozi giuridici conformi all’ordinamento giuridico, si realizzi lo scopo di sottrarre alla corretta tassazione il reddito prodotto ed imputabile al medesimo soggetto giuridico; essa non presuppone, quindi, un comportamento fraudolento, essendo sufficiente un uso improprio ed ingiustificato di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione fiscale propria dell’operazione che costituisce il presupposto d’imposta.

5.4. Costituisce principio di diritto affermato da questa Corte che il fenomeno della simulazione relativa, nell’ambito del quale può ricomprendersi la interposizione personale fittizia, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo mediante operazioni effettive e reali, nelle quali difetta del tutto l’elemento caratteristico dei negozi simulati costituito dalla divergenza tra la dichiarazione esterna e la effettiva volontà dei contraenti (Cass., sez. 5, 15/11/2013, n. 25671; Cass., sez. 5, 10/06/2011, n. 12788; Cass., sez. 5, 10/01/2013, n. 449).

Da quanto esposto consegue che il carattere reale, e non simulato, delle operazioni intercorse tra il ricorrente e la società Pebros Service s.r.l., non è di per sè sufficiente ad escludere lo scopo elusivo delle operazioni commerciali poste in essere.

Nella fattispecie, i giudici di merito hanno evidenziato più elementi di fatto (quali, essenzialmente, la antieconomicità dei servizi prestati dalla Pebros Servizi s.r.l., la intestazione delle quote della società a soggetti legati da stretti vincoli di parentela al contribuente, nonchè il fatto, pure incontestato, che la società Pebros Service s.r.l., avente come oggetto sociale l’attività di servizi in favore di studi notarili, si fosse occupata solo dello studio notarile di cui era titolare il ricorrente) che, integrando presunzioni gravi, precise e concordanti, comprovano la finalità elusiva della condotta negoziale attuata finalizzata a realizzare, attraverso l’acquisto da parte della società interposta di una serie di servizi, poi girati allo studio notarile Perrella a prezzi non conformi a quelli di mercato, un notevole risparmio di imposta, in difetto di allegazione da parte del contribuente di ragioni economiche alternative o concorrenti che possano giustificare tali operazioni, non spiegabili secondo i criteri di logica economica, se non con l’intento del ricorrente di ottenere un abbattimento dell’imponibile.

6. Conclusivamente, il ricorso va rigettato.

Nulla deve disporsi in merito alle spese del giudizio di legittimità, in mancanza di attività difensiva dell’Agenzia delle entrate.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2021

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