Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20820 del 10/10/2011
Cassazione civile sez. II, 10/10/2011, (ud. 26/09/2011, dep. 10/10/2011), n.20820
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –
Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –
Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –
Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –
Dott. BERTUZZI Mario – rel. Est. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
G.E., L.V., B.L. e B.G.,
residenti in Roma, rappresentati e difesi per procura in calce al
ricorso dall’Avvocato dè Medici Leopoldo, elettivamente domiciliati
presso il suo studio in Roma, via Archimede n. 97;
– ricorrenti –
contro
Condominio di via di (OMISSIS), in persona
dell’amministratore dott. M.F., rappresentato e difeso
per procura a margine del controricorso dall’Avvocato Lustri Eliana,
elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, via Panaro n.
11;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5145 della Corte di appello di Roma,
depositata il 2 dicembre 2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26
settembre 2011 dal consigliere relatore dott. Mario Bertuzzi;
udite le difese della parti, svolte dall’Avvocato Leopoldo dè
Medici, per i ricorrenti, e dall’Avvocato Lucia Giusti, per delega
dell’Avvocato Lustri, per il controricorrente;
udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore
Generale dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha chiesto che il ricorso
sia dichiarato inammissibile o, in subordine, rigettato.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 12 gennaio 2006, G.E., L. V., B.L. e B.G. propongono ricorso per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza n. 5145 della Corte di appello di Roma, depositata il 2 dicembre 2004, che aveva respinto il loro appello per la riforma della pronuncia di primo grado che, in accoglimento della domanda proposta dal Condominio di via di (OMISSIS), li aveva condannati alla eliminazione dei vani porta da essi realizzati sul muro perimetrale dell’edificio ed al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede, avendo ritenuto il giudice di secondo grado che le opere poste in essere dai convenuti fossero illegittime in quanto, incidendo sull’estetica dell’edificio, erano state eseguite senza autorizzazione dell’assemblea condominiale, specificatamente prescritta per le opere interessanti la stabilità o l’estetica dell’immobile dall’art. 7, comma 3, del regolamento condominiale.
Resiste con controricorso il Condominio di via di (OMISSIS).
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e violazione e falsa applicazione di norme di diritto, assumendo che la decisione impugnata, nel ritenere applicabile ai convenuti il regolamento condominiale, è incorsa in un errore di diritto ed in un travisamento dei fatti, dando per scontata l’appartenenza dei locali di proprietà dei convenuti allo stabile condominiale e quindi la loro sottoposizione al regolamento per esso stabilito. Tale situazione era però stata contestata dagli attuali ricorrenti, che avevano eccepito e provato sia nel primo grado di giudizio che in appello che i locali di loro proprietà, destinati a negozi e siti nel primo e nel secondo piano interrato, erano separati e indipendenti dal resto dell’immobile e perciò estranei all’edificio condominiale. Tale deduzione difensiva non è stata nemmeno esaminata dalla Corte di appello, che è pertanto incorsa in vizio di motivazione.
Sotto altro profilo, la sentenza impugnata è caduta in errore per non avere esaminato nè essersi pronunciata sulla ulteriore questione sollevata dai convenuti, laddove essi avevano eccepito che le opere in contestazione dovevano considerarsi legittime in quanto regolarmente autorizzate dall’assemblea condominiale con Delib. 29 gennaio 1998 su richiesta del precedente proprietario dei locali. Il motivo è inammissibile.
Tale conclusione si impone in ragione della novità di entrambe le questioni sollevate dai ricorso, che si assume sarebbero state colpevolmente ignorate dal giudice di merito. Di esse, invero, la sentenza impugnata non fa menzione, nè il ricorso precisa in modo specifico in quale atto dei giudizi di primo e di secondo grado i convenuti avrebbero sollevato le relative contestazioni. In particolare, la mancanza di precisazioni sul punto induce a ritenere i temi introdotti dal motivo nuovi, vale a dire proposti per la prima volta nel giudizio di legittimità, e quindi inammissibili, essendo noto, per principio consolidato della giurisprudenza di questa Corte, che con il ricorso per cassazione non possono porsi questioni che non siano state precedentemente prospettate nei giudizi di merito. A tali considerazioni merita aggiungere che le censure sollevate dal ricorso non appaiono sostenute dal requisito di autosufficienza, il quale impone al ricorrente per cassazione che deduca l’omessa considerazione o erronea valutazione da parte del giudice di merito di eccezioni o risultanze istruttorie, di riprodurre esattamente il contenuto degli atti e delle prove che si assumono non esaminate, al fine di consentire alla Corte di valutare la sussistenza e decisività delle stesse (Cass. n. 17915 del 2010; Cass. n. 18506 del 2006; Cass. n. 3004 del 2004). Costituisce diritto vivente di questa Corte il principio che il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. n. 15952 del 1997; Cass. n. 14767 del 2007; Cass. n. 12362 del 2006).
Nel caso di specie, in particolare, il ricorso non rispetta il suddetto principio di autosufficienza, in quanto omette completamente di riprodurre il testo della delibera condominiale del 29 gennaio 1998 che avrebbe autorizzato i lavori in capo al dante causa dei ricorrenti, mancanza che impedisce al Collegio di verificare, attesa anche la contestazione sul punto del Condomino, che in sede di controricorso ha dedotto che l’opera autorizzata al precedente proprietario era affatto diversa da quelle poi realizzate dai ricorrenti, la decisività del documento la cui valutazione sarebbe stata omessa.
Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Sotto un primo profilo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere ritenuto applicabile ai convenuti il regolamento condominiale nonostante la loro estraneità al condominio. Sotto altro aspetto lamentano che le opere da essi eseguite siano state qualificate dal giudice di appello come innovazione e non come semplici modificazioni, con la conseguenza che esse non potevano ritenersi assoggettate alla disciplina di cui all’art. 1120 cod. civ.. Anche questo motivo va dichiarato inammissibile.
Quanto alla prima censura, nel richiamare quanto osservato nell’esame del mezzo precedente, va invero ribadito che nè dalla sentenza nè dallo stesso ricorso risulta che i convenuti, nei precedenti gradi di giudizio, avessero mai eccepito la loro estraneità al Condominio.
Del tutto correttamente, pertanto, i giudici merito hanno fondato la loro decisione sul presupposto della appartenenza degli odierni ricorrenti al condominio, trattandosi di fatto non controverso, tenuto conto che esso era stato chiaramente indicato dal Condominio medesimo quale titolo legittimante la propria pretesa. La seconda doglianza introduce invece un tema non decisivo in quanto del tutto estraneo alla ratio della decisione impugnata, che ha ritenuto l’illegittimità delle opere realizzate dai convenuti non già perchè innovazioni soggette alla disciplina di cui all’art. 1120, ma in quanto eseguite in violazione della specifica disposizione del regolamento condominiale che imponeva ai condomini di sottoporre all’approvazione dell’assemblea le opere incidenti sulla stabilità o l’estetica dell’edificio.
Il ricorso va pertanto respinto, con condanna dei ricorrenti, per il principio di soccombenza, al pagamento delle spese di giudizio.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 1700,00, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali e contributi di legge.
Così deciso in Roma, il 26 settembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2011