Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20804 del 21/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 21/07/2021, (ud. 14/05/2021, dep. 21/07/2021), n.20804

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15914/15 R.G. proposto da:

R.S., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al

ricorso, dall’avv. Fabio Salvati, con domicilio eletto presso lo

studio di quest’ultimo, in Roma, via Duilio, n. 12;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i

cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, alla via dei

Portoghesi, n. 12;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria della Lombardia n.

6955/05/14 depositata in data 18 dicembre 2014

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 maggio

2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle entrate propose appello avverso la sentenza n. 248/03/13 della Commissione tributaria provinciale di Pavia che aveva accolto il ricorso di R.S. avverso l’avviso di accertamento con il quale era stato rideterminato, con metodo sintetico, il reddito imponibile, per l’anno 2007, tenuto conto delle spese sostenute e degli incrementi patrimoniali.

In particolare, dalla verifica effettuata era emerso che la contribuente, pur avendo presentato la dichiarazione dei redditi per l’anno in contestazione indicando un reddito pari ad Euro 680,00, aveva la disponibilità di tre residenze secondarie, di una autovettura di cavalli fiscali 18, di incrementi patrimoniali per Euro 35.151,00 derivanti dall’acquisto, nell’anno 2007, di altra autovettura; sulla base di tali indici di capacità contributiva il reddito era stato rideterminato in Euro 41.423,00.

All’esito dell’accertamento con adesione, sulla base della documentazione presentata, l’Ufficio aveva verificato che: a) due delle residenze indicate come secondarie non erano nella disponibilità della contribuente; b) le autovetture dovevano essere imputate alla contribuente per il periodo di sei mesi ciascuna; c) dall’incremento contestato, relativo all’acquisto dell’autovettura, doveva essere detratto l’importo di Euro 11.000,00, pari al valore dell’usato concesso in permuta al momento dell’acquisto della nuova vettura; sulla scorta di tali elementi il reddito era stato rettificato in Euro 30.604,07.

2. La Commissione tributaria regionale della Lombardia, dinanzi alla quale la contribuente spiegò appello incidentale condizionato, accolse l’impugnazione principale, rideterminando il reddito in Euro 22.478,71.

Osservò che la sentenza di primo grado non era convincente, dato che la Commissione provinciale aveva respinto le questioni preliminari ed accolto il ricorso nel merito, sostenendo che la contribuente avrebbe “confutato quasi tutti gli elementi apparentemente indice di capacità contributiva”; l’annullamento dell’atto impositivo non poteva essere giustificato sulla base di alcuni elementi, peraltro già oggetto di valutazione dall’Ufficio in sede di accertamento con adesione e la cui corretta valutazione poteva solo comportare una riduzione del reddito sinteticamente accertato; rilevò che in sede di accertamento con adesione l’Ufficio aveva ammesso di avere commesso degli errori ed aveva rettificato il maggior reddito precedentemente accertato nel minor importo di Euro 30.604,07, importo inferiore a quello originariamente accertato.

Ritenne, inoltre, non condivisibile l’affermazione dei giudici di primo grado secondo cui la ricorrente non aveva svolto attività lavorativa nell’anno 2007, poiché risultava improbabile che la contribuente, pur non avendo redditi, potesse fare fronte alla rilevante capacità di spesa; indimostrati erano rimasti gli assunti che la stessa disponesse di risorse del padre e che potesse contare sul supporto materiale del coniuge. Disattese, infine, le eccezioni sollevate dalla contribuente nell’appello incidentale condizionato, motivando che si trattava di “motivi già esposti in primo grado”.

3. Avverso la suddetta decisione d’appello R.S. ha proposto

ricorso per cassazione, con nove motivi.

L’Agenzia delle entrate, sebbene ritualmente intimata, non ha svolto

attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la contribuente deduce “nullità della sentenza impugnata per vizio di motivazione in violazione dell’art. 132 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere i giudici di appello rideterminato l’imponibile in Euro 22.478,71 omettendo l’esposizione delle ragioni in base alle quali sono giunti alla quantificazione di detto importo”.

Lamenta che i giudici di appello, in luogo di esplicitare il percorso argomentativo idoneo ad illustrare le ragioni del decidere, hanno fatto un mero rinvio alla rideterminazione che l’Ufficio aveva effettuato in sede di accertamento con adesione, senza indicare le ragioni per cui avevano ritenuto di rideterminare il reddito nell’importo di Euro 22.478,71.

2. Con il secondo motivo si deduce “nullità della sentenza impugnata per vizio di motivazione apparente in violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere i giudici di appello respinto il motivo n. 1) svolto nell’appello incidentale condizionato indicando una motivazione apparente ed omettendo le ragioni in base alle quali sono giunti a siffatta determinazione”.

Evidenzia la ricorrente che in primo grado aveva censurato l’atto impositivo per violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, e del D.M. 10 settembre 1992, art. 4, in relazione agli artt. 23,24 e 53 Cost., ed alla L. n. 212 del 2000, art. 10, per avere l’Ufficio accertato il maggior reddito in difetto del prescritto contraddittorio preventivo; poiché la C.T.P. aveva respinto la censura sul rilievo che “il contraddittorio si è attuato in sede di adesione”, sebbene vittoriosa nel merito, aveva formulato con l’appello incidentale condizionato specifico motivo di gravame, che i giudici di secondo grado avevano rigettato “perché relativo a motivi già esposti in primo grado”, rendendo una motivazione del tutto apparente.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce “nullità della sentenza impugnata per vizio di motivazione apparente in violazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere i giudici di appello respinto il motivo n. 3) svolto nell’appello incidentale condizionato, omettendo di indicare le ragioni in base alle quali erano giunti a siffatta determinazione”.

Precisa la ricorrente che aveva censurato in primo grado l’atto impositivo per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, per omessa allegazione all’atto impugnato della documentazione nello stesso richiamata e posta a base del recupero a tassazione; la C.T.P, disattendendo la censura, aveva affermato che “la documentazione richiamata era specificamente indicata” e, a fronte della reiterata eccezione spiegata con l’appello incidentale condizionato, la C.T.R. si era limitata ad affermare che il motivo non poteva essere accolto “perché già esposto in primo grado”.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia “illegittimità della sentenza impugnata per violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38, comma 4 e ss., del D.M. 10 settembre 1992, art. 4, artt. 23,24 e 53 Cost., e della L. n. 212 del 2000, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui i primi giudici avevano respinto il motivo di impugnazione volto a censurare la legittimità dell’atto impositivo in quanto emesso in difetto del prescritto contraddittorio preventivo”.

Con la memoria illustrativa depositata in primo grado aveva eccepito la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7, introdotto dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, poiché l’Ufficio aveva omesso di notificarle il questionario sulla base del quale si sarebbe dovuto svolgere il previsto contraddittorio preventivo; i giudici di primo grado avevano respinto il motivo, affermando che “il contraddittorio si è attuato in sede di adesione”; aveva reiterato la doglianza con l’appello incidentale condizionato, ma la C.T.R. aveva nuovamente rigettato la censura, sul rilievo che si trattava di motivo già esposto in primo grado.

5. Con il quinto motivo si deduce “illegittimità della sentenza impugnata per violazione del combinato disposto della L. n. 212 del 2000, art. 7, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello confermato la correttezza dell’operato dell’Ufficio benché l’ente impositore abbia omesso di allegare all’avviso di accertamento la documentazione richiamata e posta a base del recupero a tassazione”.

Precisa la ricorrente che i giudici di primo grado, nel respingere il motivo, hanno ritenuto che “la documentazione richiamata era specificamente indicata”, mentre i giudici di appello, a seguito della riproposizione della doglianza in sede di appello incidentale condizionato, hanno affermato che “si tratta di motivi già esposti in primo grado”, sebbene l’Ufficio, al fine di ricostruire la capacità contributiva, avesse fatto riferimento ai “dati acquisiti dalla risposta al questionario n. (OMISSIS) del coniuge A.G.”, ossia ad un atto di un terzo.

6. Con il sesto motivo la contribuente censura la sentenza per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, del D.M. 10 settembre 1992, degli artt. 23 e 53 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello, in riforma della sentenza di primo grado, statuito la correttezza dell’operato dell’Ufficio nonostante l’ente impositore abbia ritenuto il box della ricorrente cespite rilevante ai fini dell’applicazione del “redditometro”.

L’Ufficio aveva inserito tra gli immobili indicatori di capacità contributiva ai fini del redditometro un box auto, cespite non compreso nell’elenco dei beni-indice espressamente indicati nel D.M. 10 settembre 1992, operando un cumulo della superficie dell’unità abitativa sita in (OMISSIS) con il relativo box; i giudici di primo grado avevano accertato che il box non rientrava tra gli immobili previsti dal decreto ministeriale ai fini dello strumento redditometrico, ma la C.T.R. aveva ritenuto corretto l’operato dell’Ufficio.

7. Con il settimo motivo si deduce “illegittimità della sentenza impugnata per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, e del D.M. 10 settembre 1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello, in riforma della sentenza di primo grado, statuito la correttezza dell’operato dell’Ufficio, benché l’ente impositore avesse utilizzato superfici errate nell’applicazione del moltiplicatore agli immobili di proprietà della ricorrente”.

Secondo la ricorrente, la decisione impugnata viola le disposizioni normative richiamate in rubrica, dal momento che l’Ufficio aveva utilizzato superfici errate nell’applicazione del moltiplicatore previsto nella tabella allegata al D.M. 10 settembre 1992, mentre la tabella prevede espressamente che la superficie delle abitazioni deve essere calcolata “ai sensi della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 13”.

8. Con l’ottavo motivo la ricorrente deduce “illegittimità della sentenza impugnata per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4 e 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello, in riforma della sentenza di primo grado, statuito la correttezza dell’operato dell’Ufficio, benché l’ente impositore abbia erroneamente considerato nella disponibilità della contribuente l’abitazione sita in (OMISSIS), (OMISSIS)”.

In sede di ricorso introduttivo aveva precisato che la suddetta abitazione era stata concessa in uso gratuito allo zio che vi aveva stabilito la propria residenza e sosteneva i relativi costi di mantenimento; ne conseguiva che tale immobile non manifestava alcuna capacità contributiva, e non poteva costituire presupposto rilevante ai fini dell’applicazione del “redditometro”.

9. Con il nono motivo la ricorrente censura la sentenza “per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 5 e 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello, in riforma della sentenza di primo grado, statuito la correttezza dell’operato dell’Ufficio benché l’ente impositore abbia imputato alla contribuente l’incremento patrimoniale verificatosi nell’anno 2007 costituito dall’acquisto dell’autovettura targata DK648BB nonostante il sostenimento del relativo costo non sia riferibile a quest’ultima”.

Fa presente, al riguardo, di avere documentato che la spesa per l’acquisto dell’autovettura, pari ad Euro 39.500,00, non era stata sostenuta con risorse finanziarie proprie; il giorno stesso dell’acquisto dell’autovettura il padre, R.S., aveva versato al concessionario venditore due assegni circolari da Euro 13.000,00, per un totale di Euro 26.000,00, e l’acquisto dell’auto era avvenuto mediante permuta della precedente auto di sua proprietà, valutata dal concessionario Euro 11.000,00, per cui la sentenza della C.T.R. che aveva ratificato l’operato dell’Ufficio non aveva fatto corretta applicazione delle norme invocate.

10. Il secondo motivo, che va esaminato con priorità perché denuncia un error in procedendo, è infondato.

E’ indubbio che la motivazione della decisione impugnata, che si limita a fare riferimento alle questioni di merito, ed in particolare a verificare la fondatezza della pretesa impositiva ed a determinare il quantum della materia imponibile, se non può dirsi omessa, sicuramente non fornisce risposta alcuna al motivo di appello nella parte in cui la contribuente ha dedotto l’illegittimità dell’avviso di accertamento per mancanza di contraddittorio preventivo, per cui è evidente che la decisione impugnata incorre nel vizio di motivazione apparente.

Tuttavia, anche rispetto al caso di motivazione apparente, in violazione dell’art. 132 c.p.c., deve ritenersi applicabile il principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, per cui il corrispondente ricorso per cassazione non può essere accolto qualora la questione giuridica ad esso sottesa sia comunque da disattendere (Cass., sez. 6-3, 8/10/2014, n. 21257; Cass., sez. 1, 27/12/2013, n. 28663; Cass., sez. 2, 1/02/2010, n. 2313; Cass., sez. U, 2/02/2017, n. 2731), non sussistendo ragione per cui un tale principio, sancito per l’omessa pronuncia e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, da questo punto di vista del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice dell’appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente.

Ciò posto, ponendosi all’esame di questa Corte una questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti in fatto, essa non può essere risolta nel senso sollecitato dalla contribuente.

La doglianza è manifestamente infondata, trattandosi di accertamento sintetico ante riforma del 2010, relativo ad IRPEF, per il quale, alla stregua dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823) e dalla successiva giurisprudenza (Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283), non è previsto dalla legislazione nazionale applicabile ratione temporis un obbligo di contraddittorio anticipato a pena di nullità dell’atto impositivo emanato senza la sua osservanza.

La mancanza di motivazione su tale questione di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, essendo comunque il giudice di merito pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame, potendo in tal caso, “la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonché dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, esercitare il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta (…) sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti di fatto”.

11. Parimenti infondato è il quarto mezzo di ricorso.

In primo luogo, è del tutto inconferente il richiamo al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7, come modificato dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, trattandosi di disposizione normativa applicabile solo a decorrere dal periodo di imposta 2009, per cui gli accertamenti relativi alle annualità precedenti sono legittimi anche senza la previa instaurazione del contraddittorio preventivo (Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283).

Al riguardo, va precisato che i principi statuiti dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 26635 del 2009, invocata a supporto della tesi difensiva, non sono pertinenti, atteso che la pronuncia si riferisce alla procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione di parametri o di studi di settore e non all’accertamento sintetico di cui si discute nel presente giudizio.

In secondo luogo, in tema di accertamento sintetico, l’omesso invio del questionario di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, al fine di acquisire dati, notizie e chiarimenti, non invalida l’atto impositivo, trattandosi di una facoltà discrezionale dell’Amministrazione finanziaria, avente lo scopo di assicurare un dialogo tra fisco e contribuente per evitare l’instaurazione di un contenzioso giudiziario (Cass., sez. 5, 3/10/2018, n. 27851).

12. Il terzo ed il quinto motivo, vertenti sulla medesima doglianza, possono essere trattati congiuntamente e sono da rigettare.

Sebbene la censura prospettata non sia stata espressamente presa in esame dalla C.T.R., per cui è effettivamente ravvisabile una ipotesi di motivazione apparente, il difetto di motivazione, per le ragioni già esposte con riguardo al primo motivo di ricorso, non può determinare la cassazione della sentenza impugnata, ma impone piuttosto a questa Corte di decidere sulla questione di diritto, non risultando indispensabili accertamenti in fatto ed essendo i giudici regionali pervenuti ad una conclusione conforme a diritto.

In base alla previsione generale di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, l’atto dell’amministrazione finanziaria deve essere motivato alla stregua dei provvedimenti amministrativi, L. n. 241 del 1990, ex art. 3, indicando “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell’amministrazione”. La norma prescrive inoltre che se nella motivazione dell’atto impositivo si fa riferimento ad un altro atto, “questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.

Il requisito della allegazione dell’atto richiamato deve però reputarsi soddisfatto quando quest’ultimo, ancorché non materialmente allegato, sia pur tuttavia riportato nello stesso avviso di accertamento; se non nella sua integralità, quantomeno nelle parti da reputarsi essenziali in rapporto alla esatta individuazione della pretesa tributaria specificamente relativa al destinatario. In tale evenienza, la motivazione dell’atto impositivo opera per relationem, risultando comunque tale da soddisfare l’obiettivo sostanziale di porre il contribuente in condizione di percepire – con immediatezza e chiarezza – quei presupposti di fatto e quelle ragioni giuridiche che devono sempre sottostare all’imposizione (Cass., sez. 5, 23/02/2018, n. 4396; Cass., sez. 5, 31/10/2018, n. 27851).

Ebbene, la doglianza così come prospettata dalla ricorrente non soddisfa i requisiti di specificità ed autosufficienza del motivo, in quanto non risulta riprodotto nel ricorso nemmeno il contenuto dell’avviso di accertamento, che non è atto processuale, ma atto amministrativo, al fine di consentire a questa Corte di valutare la censura sollevata senza fare ricorso ad altri atti (Cass., sez. 5, 13/11/2018, n. 29093).

13. Il primo motivo è fondato, con assorbimento dei restanti motivi.

Il giudice d’appello, con motivazione succinta, ha accolto l’appello dell’Ufficio e rideterminato il reddito imponibile nel minor importo di Euro 22.478,71, corrispondente a quello determinato dall’Ufficio finanziario in sede di accertamento con adesione, senza illustrare le circostanze di fatto, desunte dalle risultanze istruttorie, e le ragioni di diritto poste a base di tale diversa quantificazione del reddito.

Il percorso argomentativo seguito dalla C.T.R. non consente, infatti, di verificare i criteri e le ragioni sulla base dei quali essa sia stata indotta a ridurre il reddito presuntivamente accertato, atteso che le conclusioni cui essa perviene non sono supportate dalla dimostrazione di elementi di determinazione del reddito fondati su specifiche prove, né tengono conto delle contestazioni mosse dalla contribuente e ribadite anche in questa sede volte a denunciare errori nell’applicazione dello strumento accertativo e dei moltiplicatori previsti dal decreto ministeriale del 10 settembre 1992.

La decisione impugnata incorre, pertanto, nel vizio denunciato che sussiste qualora la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass., sez. 3, 25/02/2014, n. 4448), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass., sez. U, 3/11/2016, n. 22232 e la giurisprudenza ivi richiamata; Cass., sez. 5, 26/09/2018, n. 22949).

Come precisato da questa Corte, “ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass., sez. 6-5, 7/04/2017, n. 9105; Cass., sez. 5, 12/10/2018, n. 25456).

La pronuncia in questa sede impugnata è sicuramente affetta dalla grave anomalia illustrata negli arresti giurisprudenziali sopra richiamati.

14. In conclusione, vanno rigettati il secondo, il terzo ed il quarto motivo; va dichiarato inammissibile il quinto e va accolto il primo motivo, assorbiti i restanti, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvio alla competente Commissione tributaria regionale, in diversa composizione, per il riesame oltre che per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

rigetta il secondo, il terzo ed il quarto; dichiara inammissibile il quinto motivo; accoglie il primo motivo e dichiara assorbiti i restanti motivi; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021

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