Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20797 del 21/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 21/07/2021, (ud. 27/04/2021, dep. 21/07/2021), n.20797

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3564/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

Ittica Valdagri s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Istria n. 2,

presso lo studio dell’Avv. Antonietta Tarantino, rappresentata e

difesa dall’Avv. Francesco Mele, in forza di procura speciale in

calce al controricorso.

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Basilicata, n. 459/3/2014, depositata il 2 settembre 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 aprile

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale della Basilicata rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate nei confronti della società ittica Valdagri s.p.a., avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Matera (n. 283/1/2011), che aveva accolto il ricorso presentato dalla società contribuente, dopo un diniego di disapplicazione della disciplina (L. n. 724 del 1994), contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle entrate per l’anno 2006, ritenendola una società di comodo, per non aver superato il test di operatività di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, con accertamento di un reddito minimo di Euro 844.070,00. In particolare, il giudice d’appello evidenziava che la contribuente era, in realtà, una società holding, con partecipazioni in altre società, e segnatamente nella Marinagri, come emergeva dai bilanci e dalle “note esplicative”. Trovava, dunque, applicazione quanto disposto nella circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5 del 2007, al punto 4, riferito proprio alle holding, ove si evidenziava che l’operatività di una holding era subordinata anche alla circostanza che le società partecipate distribuissero dividendi in misura superiore all’importo presunto di ricavi attribuito alla holding in base ai coefficienti di cui all’art. 30, comma 1. L’indagine sulla holding doveva, quindi, essere trasferita sulla operatività in capo le società partecipate, sicché, ove’ l’istanza di disapplicazione fosse accolta con riferimento alle società partecipate, si poteva “normalmente” motivare l’accoglimento anche dell’istanza presentata dalla holding. Nella specie, le società partecipate avevano superato tutte il test di operatività e le rispettive istanze di disapplicazione erano state tutte accolte. Inoltre, quanto alla crisi del settore, risultava documentato dai bilanci e dalla documentazione ad essi di supporto.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resiste con controricorso la società contribuente, depositando anche memoria scritta, con richiesta di distrazione delle spese in favore dell’Avvocato antistatario.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione della L. n. 724 del 1994, art. 30, e successive modifiche ed integrazioni, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Legittimità dell’avviso di accertamento della situazione di società di comodo, cui si riferiscono le norme antielusive applicate nei confronti di controparte che riveste la natura di holding c.d. mista”. Per la ricorrente le motivazioni del giudice d’appello erano “vaghe” ed “approssimative”, in particolare sulla prova della crisi di settore e dell’importo delle immobilizzazioni, denotando una superficiale attenzione agli atti processuali. Inoltre, la circostanza che le altre società del gruppo fossero risultate operative, essendo state tutte accolte le loro singole istanze di disapplicazione della normativa di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, non era rilevante nella fattispecie in esame, che aveva ad oggetto una holding “mista” e non una holding “pura”. Infatti, se da un lato la società contribuente aveva il controllo diretto in una subholding “Marinagri s.p.a.”, nella misura del 66,51%, e quest’ultima, a sua volta, controllava direttamente le società “Marinagri Resort s.p.a.”, “Marinagri Real Estate s.p.a.” e “Marinagri Village s.p.a”, tutte in fase di start-up, dall’altro, però, la medesima società svolgeva anche una ulteriore specifica attività come risultava dallo stato patrimoniale, in cui figuravano immobili e tipici assets industriali (impianti, macchinari), con il consueto corollario di attività circolanti (crediti, rimanenze ed altro). Ne’ è stata provata la crisi di settore invocata dalla contribuente, che avrebbe impedito il normale svolgimento dell’attività societaria. Peraltro, le giustificazioni addotte dalla società avrebbero potuto giustificare una riduzione dell’attività, ma in nessun caso il totale arresto della stessa che, esulando dall’oggetto sociale, è stata poi diversamente orientata verso la mera gestione del patrimonio aziendale, attraverso la concessione in locazione degli impianti industriali alla società controllata Marinagri s.p.A.. Tale ultimo operazione desta dubbi, sia per lo stato di inattività della controllata e la conseguente inspiegabile assunzione in locazione degli impianti industriali della controllante, sia per il canone pattuito “scarsamente equo e sufficiente neanche a superare il test di operatività”. Ne’ la contribuente ha dimostrato di essersi attivata per praticare canoni di locazione superiori per conseguire un reddito effettivo superiore a quello minimo previsto per le società non operative.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2. Anzitutto, si rileva che pur articolando formalmente un vizio di violazione di legge, in realtà il motivo di impugnazione attiene ad una diversa valutazione degli elementi istruttori, già valutati dal giudice di merito, non consentita in questa sede. In particolare, il motivo di ricorso per cassazione si sofferma soprattutto sulla natura di holding mista della contribuente, oltre che sulla qualificazione di start up delle società da essa controllate, mentre non indica precisi elementi di fatto in grado di scardinare la ricostruzione del giudice di appello. I profili di fatto enunciati sono del tutto generici e limitati ad una critica superficiale della decisione di merito “in ordine alla invocata crisi di settore”. Tra l’altro, poiché la sentenza di appello è stata depositata il 2 settembre 2014, la censura sulla motivazione, mai articolata, si sarebbe dovuta imperniare sull’omesso esame di fatti decisivi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Non può, invece, accogliersi l’eccezione preliminare di inammissibilità sollevata dalla controricorrente, che asserisce l’applicabilità dell’art. 348-ter c.c., per l’esistenza di una doppia decisione “conforme” di merito, in quanto l’atto di appello è stato notificato il 3 aprile 2012, non potendosi applicare la nuova disciplina di cui al D.L. n. 83 del 2012, entrato in vigore per gli appelli notificati o depositati a partire dall’11 settembre 2012.

1.3. Risulta pacifico tra le parti che la società contribuente ha operato sia quale holding del gruppo societario di cui era controllante, sia in via autonoma come ente commerciale operativo sin dal 1971, nel settore dell’acquacoltura intensiva ed estensiva, con la trasformazione del suo territorio (circa 100 ha) in vasche e bacini artificiali, alimentati da un impianto di idrovore per la captazione e lo svezzamento delle acque marine.

1.4. Quanto all’attività di holding, la contribuente controlla direttamente, con partecipazione del 66,51%, la società Marinagri S.p.A., che a sua volta controlla le tre società operative, ancora in fase di star-tup, per iniziative turistico-immobiliare, individuate nella Marinagri Village s.p.a, Marinagri Resort s.p.A. e Marinagri Real estate s.p.A..

1.5. Sul punto, deve evidenziarsi che al paragrafo 4.4. della circolare dell’Agenzia delle entrate n. 5 E del 2 febbraio 2007 si affronta proprio il tema della società holding nell’ambito delle società di comodo. Si prevede, dunque, che l’operatività di una holding, ai fini della disciplina delle società di comodo, “e’ subordinata anche alla circostanza che le società partecipate distribuiscano dividendi in misura superiore all’importo presunto di ricavi attribuito alla holding in base ai coefficienti”, sicché è giusto “valutare se e quando la mancata erogazione di dividendi costituisca una ragionevole ipotesi per ottenere la disapplicazione della normativa a favore della società”. Pertanto, “ciò induce a trasferire, in linea di massima, l’indagine sulla operatività in capo alle società partecipate, cosicché l’istanza di disapplicazione, ove accolta con riferimento alle società partecipate, potrà normalmente motivare l’accoglimento anche dell’istanza presentata dalla holding”. Inoltre, nella circolare si specificano le peculiari situazioni oggettive, interessanti le società non operative, partecipate dalla holding, che possono giustificare il riscontro positivo dell’istanza di disapplicazione. In particolare, tra le varie ipotesi indicate, si menziona quella in cui le società partecipate “si trovano in fase di avvio dell’attività” oppure quella in cui le società partecipate “operano in settori in crisi”. Si chiarisce, infine, che le oggettive situazioni elencate “a titolo non esaustivo” possono essere fatte valere, ai fini della disapplicazione della normativa sulle società di comodo, anche dalle società holding, “qualora l’omessa distribuzione dei dividendi da parte della partecipata sia stata determinante ai fini del mancato superamento del test di operatività”.

1.6. E’ pacifico, in quanto affermato in modo chiaro dalla sentenza del giudice d’appello, in alcun modo contrastata dal ricorso della Agenzia delle entrate, che le società controllate hanno presentato istanza di disapplicazione della normativa in materia di società di comodo, tutte accolte dalla Agenzia delle entrate (“da quanto emerso in corso di causa risulta che le società partecipate hanno superato tutte il test di operatività ed anche con l’accoglimento delle varie istanze di disapplicazione presentate dalle singole società”).

Pertanto, con riferimento all’attività di vera e propria holding svolta dalla società contribuente, sussistono i requisiti per ritenere superato il test di operatività, in conseguenza dell’accoglimento da parte dell’Agenzia delle entrate delle istanze di disapplicazione presentate dalle singole società controllate.

Peraltro, il Direttore dell’Agenzia delle entrate ha emesso il provvedimento n. 23681 del 2008, ai sensi della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, comma 4-ter, come modificato dalla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 128, indicando le ipotesi in cui è possibile disapplicare la disciplina società di comodo, senza dover assolvere all’onere di presentare istanza di interpello (disapplicazione automatica). Tra tali ipotesi l’art. 1, lett. e), indica anche le “società che detengono partecipazioni in: 1) società considerate non di comodo ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30; 2) società escluse dall’applicazione della disciplina di cui al citato art. 30, anche in conseguenza di accoglimento dell’istanza di disapplicazione”. Pertanto, in linea di massima, l’indagine sulla operatività si trasferisce dalla holding alle società partecipate, in una sorta di “trasparenza”, per cui la situazione della società partecipata condiziona anche la partecipante. La stessa Agenzia delle entrate ritiene che tale provvedimento ha efficacia dichiarativa e procedimentale, applicandosi anche le fattispecie anteriori all’anno 2008.

1.7. Per quanto concerne invece la residua attività della società contribuente, avente ad oggetto sociale il settore dell’acquacoltura intensiva ed estensiva, mirante all’allevamento di specie ittiche, deve valutarsi se la società abbia o meno fornito la dimostrazione della esistenza di situazioni oggettive di impossibilità di raggiungimento della soglia indicata dal test di operatività.

Invero, il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate n. 23681 del 2008, prevede che, in caso di holding, “la disapplicazione opera limitatamente alle predette partecipazioni”. Pertanto, si è in presenza di una “disapplicazione parziale”, in base alla quale il contribuente è esonerato dall’applicazione della disciplina delle società di comodo, limitatamente alle fattispecie indicate nel provvedimento del direttore. Ciò comporta che, al verificarsi di una delle fattispecie indicate, è consentito al contribuente di non tenere conto dei relativi asset, in sede di determinazione del test di operatività e di calcolo del reddito minimo presunto. Pertanto, il contribuente provvederà a “neutralizzare” l’effetto delle fattispecie esonerate dalla disciplina delle società di comodo attraverso la disapplicazione automatica, non applicando i coefficienti di redditività sul valore degli asset interessati dalla disapplicazione, né considerando gli eventuali ricavi iscritti a conto economico e direttamente correlabili agli asset stessi (in tal senso anche Circolare della Agenzia delle entrate 14 febbraio 2008, n. 9/E). In relazione ad eventuali altri asset, come nella specie, il contribuente è assoggettato comunque alla disciplina di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, ivi inclusa la possibilità di presentare apposita istanza di disapplicazione qualora ricorrano situazioni oggettive che abbiano reso impossibile il conseguimento dei ricavi e del reddito minimo previsto dalla normativa.

1.8. La L. n. 724 del 1994, art. 30, vigente nel periodo dal 12 agosto 2006 al 31 dicembre 2006, a seguito del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, prevede al comma 4-bis, che “in presenza di oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, comma 8”.

Il D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 16, convertito in L. n. 248 del 2006, ha disposto che le presenti modifiche “si applicano a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Dal 1 gennaio 2007, poi, nel comma 4-bis, si fa riferimento, quale giustificazione del contribuente al mancato raggiungimento delle soglie indicate nel test di operatività, a “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi…”.

Alla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-ter, in vigore dal 1 gennaio 2008 e sino al 31 dicembre 2015, si prevede anche che “con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate possono essere individuate determinate situazioni oggettive, in presenza delle quali è consentito disapplicare le disposizioni del presente articolo, senza dover assolvere all’onere di presentare l’istanza di interpello di cui al comma 4-bis”.

Dal 1 gennaio 2016, il D.Lgs. n. 156 del 2015, art. 7, prevede al comma 4-quater, che “il contribuente che ritiene sussistenti le condizioni di cui al comma 4-bis, ma non ha presentato l’istanza di interpello prevista dal medesimo comma ovvero, avendola presentata, non ha ricevuto risposta positiva deve darne separata indicazione nella dichiarazione dei redditi”.

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, all’epoca vigente dispone, poi, che “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti di imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione. Con decreto del ministro delle finanze da emanare ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 3, sono disciplinate le modalità per l’applicazione del presente comma”.

1.9. L’applicazione della disciplina delle società di comodo è subordinata, quindi, all’esito negativo di un test di operatività, finalizzato ad accertare la non operatività della presunta società di comodo. La determinazione della non operatività si ha quando l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi ordinari, imputati al conto economico, è inferiore a quello dei ricavi figurativi. Si tratta, dunque, di una mera operazione matematica incentrata sull’applicazione di un coefficiente stabilito per legge sul valore di taluni cespiti appartenente alla società. La determinazione dell’imponibile è effettuata sulla base di precisi criteri di legge, che escludono qualsiasi discrezionalità deduttiva, imponendosi sia in sede di accertamento, sia di determinazione giudiziale, salva la prova contraria da parte del contribuente (Cass., sez. 6-5, 5 luglio 2016, n. 13699; Cass., sez. 5, 18 aprile 2018, n. 9461). Dal possesso di alcuni beni, che costituisce allora il fatto noto, si risale, con un’operazione matematica, al reddito, che rappresenta il fatto ignoto, ascrivibile al contribuente.

Infatti, la L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1, all’epoca vigente, stabilisce che “agli effetti del presente articolo le società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano non operativi se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano applicando le seguenti percentuali…”.

In precedenza, invece, prima delle modifiche di cui al D.L. n. 223 del 2006, convertito in L. n. 296 del 2006, l’Ufficio finanziario che intendeva contestare ad una società il mancato raggiungimento del reddito minimo fissato dalla legge, doveva procedere in contraddittorio, con la richiesta, a pena di nullità, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione della richiesta (L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4). Il contribuente, quindi, poteva dare dimostrazione della sussistenza delle oggettive situazioni di carattere “straordinario” che avevano reso impossibile il conseguimento del limite dei ricavi.

1.10. Viene lasciata, ovviamente, al contribuente la possibilità di fornire la prova contraria. Va verificato, quindi, in sede giudiziale il raggiungimento della prova a carico del contribuente della sussistenza delle ipotesi disapplicative delle presunzioni legali (Cass., 5, 29 ottobre 2020, n. 23990).

Si è affermato, sul punto, che, in materia di società di comodo, l'”impossibilità”, per situazioni oggettive di carattere straordinario (ma la locuzione “di carattere straordinario” non è più presente nella norma dal 1-1-2007, a seguito della L. finanziaria 2007, art. 1, comma 109, lett. h), di conseguire il reddito presunto secondo il meccanismo di determinazione di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, la cui prova è a carico del contribuente, non va intesa in termini assoluti bensì “economici”, aventi riguardo alle effettive condizioni del mercato (Cass., sez.5, 20 giugno 2018, n. 16204; Cass., sez. 5, 3 novembre 2020, n. 24314). Si è precisato che, in tema di società di comodo, il meccanismo di determinazione presuntiva del reddito di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, superabile mediante prova contraria, non si pone in contrasto con il principio di proporzionalità, rispetto al quale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza 13 marzo 2007, causa C-524/04) ha affermato che una normativa nazionale che si fondi sull’esame di elementi oggettivi e verificabili per stabilire se un’operazione consista in una costruzione di puro artificio ai soli fini fiscali, e quindi elusiva, va considerata come non eccedente quanto necessario per prevenire pratiche abusive, ove il contribuente sia messo in grado, senza oneri eccessivi, di dimostrare le eventuali ragioni commerciali che giustificano detta operazione (Cass., sez. 5, 20 giugno 2018, n. 16204).

1.11. L’esistenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito, deve essere, dunque, provata dal contribuente, purché tali situazioni oggettive siano specifiche e, soprattutto, indipendenti dalla sua volontà (Cass., sez. 5, 21 ottobre 2015, n. 21358). In un caso, è stata annullata la decisione di merito, contraria alla contribuente, che aveva omesso ogni considerazione sulla crisi del settore automobilistico quale elemento determinante della scelta aziendale di riconversione della produzione nel settore dei pannelli solari (Cass., sez. 6-5, 12 febbraio 2019, n. 4019).

Tra le oggettive situazioni possono rientrare i casi in cui non sono state concesse le necessarie autorizzazioni amministrative (Cass., sez. 5, 30 dicembre 2019, n. 34642 in motivazione), pur essendo state tempestivamente richieste, oppure nel caso in cui venga svolta esclusivamente un’attività di ricerca propedeutica all’esercizio di un’altra attività produttiva, sempre che la stessa attività di ricerca non consenta, di per sé la produzione di beni e servizi e la conseguente realizzazione di proventi (in tal senso vedi Circolare dell’Agenzia delle entrate del 2 febbraio 2007, n. 5/E).

1.12. Le oggettive situazioni che rendono impossibile il conseguimento della soglia dei ricavi e degli altri elementi positivi di reddito non sussistono in caso di carenze “pianificatorie” aziendali o di scelte ed iniziative imprenditoriali libere, come in ipotesi di cessione dei beni aziendali in comodato d’uso gratuito (Cass., sez. 5, 7 dicembre 2020, n. 27976). E’ necessario, per esempio, in caso di inoperatività dipesa dalla mancata costruzione dell’immobile da utilizzare per lo svolgimento dell’attività, la prova che il ritardo sia stato determinato da ragioni estranee al contribuente e non riconducibili alla sua volontà (Cass., sez. 5, 30 dicembre 2019, n. 34642).

Anche il mero incremento del patrimonio, come l’acquisizione di un capannone, è di per sé irrilevante, in quanto il test di operatività e la presunzione di inoperatività agiscono su un diverso piano del reddito, nei termini della comparazione tra i ricavi effettivi del conto economico e i ricavi figurativi proiettati dagli assets. Pertanto, un’operazione “isolatamente” patrimoniale non esprime redditività societaria e, quindi, non confuta la natura fittizia dell’ente, potendo anzi darne la più limpida dimostrazione (Cass., sez. 5, 10 marzo 2017, n. 6195).

1.13. Nella specie, il giudice d’appello ha ritenuto che la società contribuente abbia fornito una concreta giustificazione del mancato raggiungimento della soglia individuata dal test di operatività, costituita dalla crisi del settore in cui operava la Ittica Valdagri.

Invero, nel controricorso, ove si riporta il contenuto dei documenti già prodotti nel corso del giudizio di primo grado (pag. 3 del controricorso “come ampiamente evidenziato nelle note integrative ai bilanci 1995-1996-1997-998-1999-2001 tutte allegate al ricorso”), si chiarisce che la crisi di settore era già iniziata alla fine degli anni 90 ed era proseguita negli anni 2000, a causa della concorrenza dei paesi mediterranei, la cui produzione a basso costo veniva ottenuta con tecniche di allevamento offshore (gabbie galleggianti installate in mare aperto) e senza l’impatto del fattore territoriale, dando luogo ad una rilevante contrazione dell’attività caratteristica delle società ittiche. Inoltre, a dimostrazione della operatività della società contribuente si evidenziava che il numero dei lavoratori agricoli era comunque cresciuto nel corso degli anni, passando da 3 nel 2004, a 9 nel 2007.

Il giudice d’appello, attraverso l’esame dei bilanci e delle note integrative ha ritenuto, con autonomo accertamento di fatto, fondato su elementi istruttori presenti in atti, che “in merito, poi, alla contestazione della mancanza di motivazione legata alla crisi di settore, come documentato nei documenti prodotti e come indicato da parte opposta, essi sono rinvenibili dai bilanci e dalla documentazione ad essi di supporto”.

Le valutazioni del giudice d’appello, dunque, sono fondate sull’esame analitico dei singoli bilanci prodotti e delle relative note integrative, da cui si è desunta l’effettiva sussistenza della crisi del settore, quale causa giustificatrice della condotta imprenditoriale della società contribuente che, dunque, per ragioni oggettive, di carattere straordinario, indipendenti dalla propria volontà, non ha superato il test di operatività.

Non può trovare applicazione, quindi, la decisione di questa Corte (Cass., sez. 6-5, 13 novembre 2017, n. 26728) che ha accolto il ricorso della Agenzia delle entrate, in quanto il giudice di appello aveva fatto genericamente riferimento alla crisi di settore ed al alcune imprecisate difficoltà gestionali, solo “indicate” dalla società contribuente, senza accertare, con riscontri oggettivi e dati concreti, le “cause oggettive e straordinarie” stabilite dalla L. n. 724 del 1994, art. 30. Nel caso in esame, invece, il giudice di appello ha giustificato la sua decisione con riferimento ai bilanci prodotti dalla società, corredati di note integrativi, e ad altra documentazione di supporto, attestante la crisi aziendale del settore.

L’Agenzia delle entrate, quindi, con il motivo di ricorso fondato sulla violazione di norme di legge, in realtà, chiede la rivalutazione degli elementi istruttori, già compiuta in modo congruo da parte del giudice d’appello, non ripetibile in sede di legittimità. La ricorrente avrebbe dovuto, invece, confutare in modo specifico, con adeguate e specifiche allegazioni fattuali, le affermazioni del giudice di merito.

1.14. Tra l’altro, il motivo di ricorso è anche generico nella parte in cui afferma l’esistenza di un contratto di locazione tra la società controllante (contribuente) e la società controllata, circostanza questa pacifica, senza però neppure l’indicazione del canone di locazione effettivamente corrisposto in favore della controllante. Nel motivo di ricorso, infatti, la ricorrente si limita a tratteggiare tale canone come “scarsamente equo e sufficiente neanche a superare il test di operatività”. Senza supportare tale sua argomentazione con dati di fatto oggettivi e in concreto valutabili.

1.15. Infine, si rileva che l’Agenzia delle entrate, per l’anno 2007, ha escluso l’applicabilità della normativa antielusiva delle società di comodo, procedendo, in via di autotutela, allo sgravio delle maggiori imposte accertate con avviso bonario del 23 agosto 2010.

2. Con il secondo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione degli artt. 2423,2426 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto non è stata dimostrata dalla società contribuente la circostanza che i valori patrimoniali indicati nella dichiarazione dei redditi non fossero corretti. Secondo la contribuente, infatti, vi era stato un errore nella compilazione della dichiarazione dei redditi, ma tale errore non è stato in alcun modo supportato con prove documentali nel corso del giudizio. Il documento ufficiale che rappresenta, in modo veritiero e corretto, la situazione patrimoniale finanziaria della società e del risultato economico dell’esercizio non può essere che il bilancio di esercizio. Il bilancio, infatti, viene sottoposto all’approvazione dell’assemblea dei soci, per cui non è possibile sostenere che i dati in esso riportati non corrispondono alla realtà. Ne’ si indica alcuna voce di bilancio che risulterebbe diversamente riportata nella dichiarazione dei redditi. Peraltro, ove le immobilizzazioni materiali avessero richiesto una rettifica del loro valore, avrebbe trovato applicazione l’art. 2426 c.c., comma 3, che dispone che nelle valutazioni devono essere osservati determinati criteri, con la necessità per gli amminist9tori, ove ne ricorrano i presupposti, di apportare le necessarie rettifiche di valore al bilancio. Non e’, allora, credibile che i valori contenuti nel bilancio siano errati perché non corrispondenti alla citazione reale, che invece sarebbe quella fotografata dai dati riportati nella dichiarazione dei redditi. Tali deduzioni vengono esposte dalla Agenzia delle entrate con riferimento al mancato superamento da parte della società contribuente del test di operatività.

2.1. Il secondo motivo è assorbito.

Invero, con il rigetto del primo motivo, resta accertato che la società non ha superato il test di operatività, ma, nel contempo, risulta che, da un lato, parte dell’attività era relativa alla holding, le cui partecipate (tutte start-up) avevano presentato singole istanze di disapplicazione con esito favorevole, e dall’altro, la società contribuente, in relazione al “ramo operativo”, dedicato all’attività ittica, ha fornito la dimostrazione della esistenza situazioni oggettive di impossibilità di raggiungere la soglia del test di operatività, per la sussistenza della crisi di settore; sicché non vi è più spazio per affrontare la questione in ordine ai valori dei beni indicati nella dichiarazione dei redditi, che sarebbero difformi da quelli presenti nel bilancio di esercizio.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione della L. n. 724 del 1994, art. 30, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 168 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Invero, essendo il processo tributario di “impugnazione-merito” il giudice di merito non può limitarsi ad annullare la pretesa tributaria, ma deve procedere al riesame dell’atto. Al contrario, il giudice d’appello, dopo aver ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento, avrebbe potuto, riconoscendo la natura di holding mista alla società contribuente, ridurre la base imponibile del “reddito minimo”, espungendo dal calcolo le “partecipazioni” (Euro 20.341.876,00 con l’importo reddito minimo corrispondente a Euro 305.128,14), come previsto dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 14 febbraio 2008, n. 23.181, articolo unico, comma 1, lett. e). Tale provvedimento, avente natura dichiarativa e procedimentale, può applicarsi anche ad un anno di imposta precedente alla sua emanazione, sicché il reddito minimo imputabile alla società, a seguito delle precisazioni suddette, ammonta complessivamente ad Euro 538.941,00 (immobili per Euro 30.106,00, altre immobilizzazioni per Euro 508.835,00), anziché ad Euro 844.070,00 accertati (reddito dichiarato Euro 24.800,00).

3.1. Tale motivo è assorbito, in quanto la società contribuente ha fornito la prova della sussistenza di situazioni oggettive di impossibilità di raggiungimento della soglia di cui al test di operatività; sicché, la contribuente non rientra nel novero delle società di comodo, non potendosi conseguentemente applicare il “reddito minimo”.

4. Le spese del giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico dell’Agenzia delle entrate e si liquidano come da dispositivo.

5. Non opera a carico dell’Agenzia ricorrente il raddoppio del contributo unificato (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550; Cass., n. 889/2017).

P.Q.M.

rigetta il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti il secondo ed il terzo motivo. Condanna l’Agenzia delle entrate a rimborsare in favore dell’Avv. Francesco Mele, difensore antistatario della società, le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 7.000,00, oltre Euro 200 per esborsi, Iva e cpa, oltre spese generali nella misura forfettaria del 15%.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021

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