Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20785 del 05/09/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 05/09/2017, (ud. 20/06/2017, dep.05/09/2017),  n. 20785

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5750/2017 R.G. proposto da:

C.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco Roppo,

con domicilio in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria civile

della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 185/17

depositata il 24 gennaio 2017.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 20 giugno

2017 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che C.A., sedicente cittadino del Mali, ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, avverso la sentenza del 24 gennaio 2017, con cui la Corte d’appello di Bologna ha accolto il gravame interposto dal Ministero dell’interno avverso l’ordinanza emessa l’8 febbraio 2016, con cui il Tribunale di Bologna aveva riconosciuto all’appellato la protezione sussidiaria.

che il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva;

che il Collegio ha deliberato, ai sensi del Decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, che la motivazione dell’ordinanza sia redatta in forma semplificata.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver escluso la credibilità dei fatti esposti a sostegno della domanda in virtù della difformità delle indicazioni da lui fornite in ordine ai suoi dati identificativi, senza esaminare attentamente la documentazione prodotta, dalla quale emergeva l’erroneità dell’identificazione originariamente compiuta e della data di nascita riportata nella comparsa di costituzione in appello, e senza tener conto della condizione psicologica in cui egli aveva affrontato il colloquio dinanzi alla Commissione territoriale competente e l’audizione in Tribunale;

che la censura è inammissibile, in quanto eccedente l’ambito del sindacato spettante a questa Corte sull’accertamento dei fatti compiuto dal giudice di merito, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la cui riformulazione ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, riducendo al minimo costituzionale il controllo sul vizio di motivazione, consente di dedurre con il ricorso per cassazione soltanto le anomalie motivazionali che si traducano in una violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinenti alla esistenza della motivazione in sè, e quindi soltanto quelle consistenti nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, in una “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” o in una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, restando invece esclusa la rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054; Cass., Sez. 3, 20/08/2015, n. 17037; Cass., Sez. 6, 6/07/2015, n. 13928);

che la predetta disposizione, attribuendo rilievo esclusivamente all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, esclude, in particolare, la possibilità di far valere, come motivo di ricorso per cassazione, il cattivo esercizio del potere di valutazione delle prove o l’omesso esame di elementi istruttori, qualora, come nella specie, il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass., Sez. 3, 10/06/2016, n. 11892; Cass., Sez. 6, 1/07/2015, n. 13448; 10/02/2015, n. 2498);

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5 e art. 14, sostenendo che, nell’escludere la credibilità dei fatti esposti, la sentenza impugnata non ha tenuto conto degli elementi indicati dall’art. 3 cit., in particolare degli sforzi da lui compiuti per circostanziare la domanda e del pericolo di vita o di trattamenti inumani cui egli sarebbe rimasto esposto nel suo Paese di origine, anche se dipendenti dal comportamento del padre, nonchè della gravità della situazione generale del Mali, caratterizzata da violenze diffuse e dalla conseguente incertezza nella tutela dei diritti fondamentali dei cittadini;

che, nonostante l’apprezzamento negativo espresso in ordine alla credibilità del ricorrente, la Corte di merito non si è sottratta al compito di valutare i fatti da lui esposti, avendo fatto espressamente riferimento alla situazione di violenza e disordine politico-sociale esistente in Mali, mediante il richiamo ad autorevoli fonti internazionali, ma avendo escluso la configurabilità di un nesso causale con i rischi paventati dal ricorrente in caso di rientro in Patria, in ragione delle cause da lui addotte a giustificazione del proprio allontanamento, consistenti in violenti contrasti con il padre, e della mancanza di notizie in ordine all’esistenza di ostacoli di natura socio-religiosa tali da impedire il ricorso alla tutela statale interna;

che tale conclusione appare conforme all’orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di protezione sussidiaria, il quale, pur non escludendo in linea di principio la possibilità che la minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona o la sottoposizione della stessa ad un trattamento inumano o degradante, richiesti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c), possano costituire opera di soggetti privati, postula, ai fini del riconoscimento della predetta misura, che la situazione politico-sociale in atto nel Paese di origine del richiedente sia tale da far presumere l’inutilità di un’eventuale richiesta di protezione alle autorità locali, per il rifiuto o l’incapacità delle stesse di fornire un’adeguata ed effettiva tutela o per l’esistenza di ostacoli di vario genere (sociale, culturale o religioso), tali da precludere o comunque da rendere oltremodo difficile l’iniziativa dell’interessato (cfr. Cass., Sez. 6, 20/07/2015, n. 15192; 18/11/2013, n. 25873);

che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e art. 19, nonchè l’omessa motivazione, rilevando che la sentenza impugnata ha omesso di verificare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ammissibile in presenza di seri motivi, suscettibili di ampia interpretazione, e quindi anche a fronte di situazioni di insufficiente rispetto dei diritti umani e di reiterati episodi di violenza, ovvero del concreto pericolo di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti in caso di rientro nel Paese di origine;

che il motivo è infondato, avuto riguardo all’accertamento compiuto dalla sentenza impugnata in ordine alla credibilità dei fatti riferiti dal ricorrente, la cui esclusione, traducendosi in un apprezzamento negativo anche in ordine all’esposizione del richiedente ai pericoli prospettati, costituisce motivo sufficiente a giustificare, oltre al rigetto della domanda di protezione sussidiaria, anche il diniego del permesso di soggiorno per motivi umanitari (cfr. Cass., Sez. 6, 29/12/2016, n. 27438);

che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato;

che, essendo stato il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente prenotazione a debito delle spese processuali, non ricorrono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (cfr. Cass., Sez. 6, 22/03/ 2017, n. 7368; 2/09/2014, n. 18523).

PQM

 

rigetta il ricorso.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2017

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