Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20784 del 14/10/2016

Cassazione civile sez. trib., 14/10/2016, (ud. 16/09/2016, dep. 14/10/2016), n.20784

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

M.S.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Liguria n. 37/10/09, depositata il 19 terzo 2009;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16

settembre 2016 dal Relatore Cons. Antonio Greco;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

M.S. impugnò la cartella di pagamento, emessa all’esito del controllo ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis, con la quale venivano recuperate imposte dovute per il 2000 in conseguenza del disconoscimento della deducibilità dal reddito di oneri per contributi previdenziali obbligatori, denominati contributi integrativi, versati su richiesta dell’EPAP – ente gestore della previdenza obbligatoria degli attuari, dei chimici, dei dottori agronomi e forestali e dei geologi -, per gli anni dal 1996 al 1999, in base al D.Lgs. 10 febbraio 1996, n. 103, art. 4, comma 3.

In primo grado il ricorso era accolto.

L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, con un motivo, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Liguria che, rigettandone l’appello, ha confermato la decisione.

Il giudice del gravame, premesso che l’importo era relativo alla soma dei contributi integrativi, dovuti alla Cassa, che il contribuente nel corso degli anni avrebbe dovuto applicare ai propri clienti, in sede di fatturazione, nella misura del 2%, e che tale addizionale nella specie non risultava esposta nelle fatture, ha osservato, alla stregua del regolamento dell’EPAP, approvato col decreto interministeriale del 3 agosto 1999 solo tre anni dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 103 del 1996, che mentre “a regime” il contributo integrativo, a differenza di quello cd. soggettivo minimo dovuto da tutti gli iscritti alla cassa, era indeducibile dal reddito, al contrario, per la prima fase “transitoria” – nella quale, con applicazione ritardata, la Cassa aveva richiesto nel 2000 il debito maturato e obbligatoriamente dovuto dal 1996 – la legge istitutiva dell’EPAP del 1996, in assenza del regolamento attuativo del 1999, “non consentiva, da sola, la liquidazione/richiesta del contributo da parte del professionista al cliente, tanto che, oggi, sarebbe verosimilmente preclusa ogni iniziativa di rivalsa del primo verso il secondo. Se così è, ne consegue che il pagamento obbligatorio richiesto dall’ente e relativo al periodo “transitorio” costituisce un costo rimasto effettivamente a carico del contribuente e, cane tale, può essere dedotto dal suo reddito complessivo.” Quindi, “..negare la deducibilità significherebbe far gravare solo sul ricorrente un onere a lui non spettante, con una sostanziale duplicazione impositiva”.

Il contribuente non ha svolto attività nella presente sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 103 del 1996, art. 8, comma 3, art. 10, comma 1, lett. e), e D.P.R. n. 917 del 1996, art. 163, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3″, l’amministrazione ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto deducibile dal reddito il contributo integrativo del 2% previsto dal D.Lgs. n. 103 del 1996, art. 8, comma 3, – contributo dichiarato dal professionista iscritto all’EPAP cene deducibile ai sensi dell’art. 10 tuir sul solo presupposto che detta deducibilità spetti per non avere il professionista riscosso il contributo integrativo dai propri clienti, incorrendo nella violazione delle norme in rubrica, a tenore delle quali il contribuente potrebbe dedurre dal suo reddito complessivo, se non sono deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo, solo i contributi previdenziali e assistenziali che la legge ponga a suo carico e non anche quelli che per legge gravino su altri soggetti (i propri clienti), non rilevando a tal fine il fatto che egli abbia provveduto in proprio al pagamento, senza riscuotere il contributo presso i propri clienti care previsto dalla norma istitutiva”.

Il ricorso è fondato.

Il D.Lgs. 10 febbraio 1996, n. 103, recante “Attuazione della delega conferita dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 25, in materia di tutela previdenziale obbligatoria dei soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione”, stabilisce al comma 3 dell’art. 8, nel testo vigente ratione temporis, che “il contributo integrativo a carico di coloro che si avvalgono delle attività professionali degli iscritti (il precedente comma 2 si esprime nei termini di “contributo integrativo a carico dell’utenza”) è fissato nella misura del 2% del fatturato lordo ed è riscosso direttamente dall’iscritto medesimo all’atto del pagamento previa evidenziazione del relativo importo sulla fattura”.

Questa Corte, con riguardo ad analogo – per natura e struttura – contributo integrativo, quello previsto dalla L. 29 gennaio 1986, n. 21, art. 11, da versare alla Cassa Nazionale di previdenza ed assistenza per gli iscritti all’albo dei dottori commercialisti, ha affermato che esso “non costituisce “costo” deducibile, trattandosi di onere che non grava sul contribuente professionista ne è posto dalla legge a carico del cliente dello stesso” (Cass. n. 13465 del 2014).

La deducibilità dal reddito complessivo di siffatti oneri, pure astrattamente compresi nell’ipotesi di cui alla lettera e) dell’art. 10 del tuir (“contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge”) è infatti esclusa dalla non ricorrenza della condizione posta dal precedente comma 1, vale a dire l’essere gli oneri stessi “sostenuti dal contribuente che pretenda di dedurli dal reddito.

Il precedente richiamato (Cass. n. 13465 del 2014, ma cfr. pure Cass. n. 14019 del 2007) condivisibilmente osserva, con riguardo al “contributo in oggetto” (quello previsto dalla L. 29 gennaio 1986, n. 21, art. 11, a mente del quale “…tutti gli iscritti agli albi dei dottori commercialisti devono applicare una maggiorazione percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume di affari ai fini iva e versarne alla Cassa l’ammontare, indipendentemente dall’effettivo pagamento che ne abbia eseguito il debitore”), che, a prescindere dalla circostanza, della sua obbligatorietà per legge, è “pacifico che il relativo costo è posto a carico del cliente del professionista (tant’è che il citato art. 11 usa l’espressione “debitore”) con la conseguenza che lo stesso, non essendo sopportato dal contribuente professionista, non costituisce “costo” deducibile. In tal senso, risulta orientata anche la giurisprudenza di questa Corte la quale, per il medesimo tipo di contributo previsto per legge in favore della Cassa Previdenza Ingegneri ed Architetti, ha già statuito che la deducibilità di tali contributi come costi trova il suo ostacolo insuperabile nella decisiva disposizione dello stesso art. 10 (L. n. 6 del 1981) nella parte in cui prevede che la maggiorazione in parola è ripetibile dal professionista nei confronti del suo cliente, sul quale soltanto, dunque, va a gravare il contributo stesso. Di conseguenza la pretesa del ricorrente di dedurre dal suo reddito il contributo integrativo, non trova giustificazione nè sotto il profilo logico, nè con riguardo ai principi dell’ordinamento giuridico tributario, trattandosi di onere che non è rimasto a carico del contribuente (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 10), non avendo concorso alla formazione del suo reddito”.

Il ricorso deve essere pertanto accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

L’epoca di formazione dell’orientamento giurisprudenziale di riferimento consente di dichiarare compensate fra le parti le spese dell’intero processo.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della contribuente.

Dichiara compensate fra le parti le spese dell’intero processo.

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2016

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