Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20760 del 30/09/2020

Cassazione civile sez. III, 30/09/2020, (ud. 04/03/2020, dep. 30/09/2020), n.20760

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 27817/19 proposto da:

-) D.S., elettivamente domiciliato a Vinovo via Calvo n. 2,

presso l’avvocato Ibrahim Khalil, che lo rappresenta e difende in

virtù di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

-) Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino 26.6.2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4

marzo 2020 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.S., cittadino maliano, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, ex D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7 e ss.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ex D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis);

a fondamento dell’istanza dedusse di avere lasciato il Mali perchè ritenuto dal capovillaggio responsabile della morte di un giovane, deceduto dopo essere stato azzannato da un cane di sua proprietà, e di temere che, nel caso di rientro in patria, potesse essere ucciso;

la Commissione Territoriale rigettò l’istanza;

avverso tale provvedimento D.S. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, ricorso al Tribunale, che lo rigettò;

la sentenza di primo grado, appellata dal soccombente limitatamente al rigetto della domanda di protezione sussidiaria e di quella umanitaria, è stata confermata dalla Corte d’appello di Torino con sentenza 26.6.2019;

a fondamento della propria decisione la Corte d’appello ritenne che:

-) il racconto compiuto dal ricorrente non era credibile: sia per la sua intrinseca in verosimiglianza; sia per avere egli cambiato versione dei fatti, riferendo dapprima, dinanzi alla commissione, di non poter rientrare in patria per il timore di dover prestare il servizio militare, e dichiarando invece al tribunale le diverse circostanze sopra ricordate (omicidio colposo di una persona azzannata dal cane dell’odierno ricorrente);

-) in caso di rientro in patria, il richiedente non era esposto al rischio della pena di morte, abolita nel Mali sin dal 2007;

-) il richiedente asilo aveva mentito sulla propria data di nascita, posticipandola di cinque anni;

-) nella regione maliana di provenienza del ricorrente (Sikasso) non sussisteva alcuna situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato;

-) la protezione umanitaria non potesse essere concessa non solo per la insussistenza delle particolari condizioni di vulnerabilità in capo al ricorrente, ma, prima ancora, perchè al riguardo “nessuna considerazione è stata svolta in sede di appello in merito a una situazione di vulnerabilità in cui verserebbe l’appellante”;

tale sentenza è stata impugnata per cassazione da D.S. con ricorso fondato su un motivo;

il Ministero dell’Interno non si è difeso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente censura unicamente il rigetto della domanda di protezione sussidiaria per l’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Il ricorrente lamenta che erroneamente la Corte d’appello avrebbe ritenuto insussistente nel Mali una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato, e di conseguenza altrettanto erroneamente avrebbe rigettato la domanda di concessione della protezione sussidiaria.

1.1. Il motivo è infondato.

Va premesso come il dovere di cooperazione istruttoria, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorga ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in un rapporto di stretta connessione logica (anche se non in una relazione di stretta e indefettibile subordinazione) rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile.

E’ del tutto consolidato, altresì, il principio per cui la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente asilo non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del detto potere-dovere di cooperazione, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (per tutte, Cass. sez.6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice, pertanto, deve, in limine, prendere le mosse del suo accertamento e della conseguente decisione da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova – perchè non reperibile o non esigibile – della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è sicuramente funzionale, in astratto, all’attivazione officiosa del dovere di cooperazione volta all’accertamento della situazione del Paese di origine del richiedente asilo; ma non appare conforme a diritto la semplicistica affermazione secondo cui le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di credibilità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedano, in nessun caso, alcun approfondimento istruttorio officioso (in tal senso, invece, Cass. Sez.6, 27/06/2018, n. 16925; Sez.6, 10/4/2015 n. 7333; Sez.6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 stabilisce che, anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

Il contenuto dei parametri sub c) ed e) sopra indicati già evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del Paese quando il complessivo quadro assertivo e probatorio fornito non sia esauriente, ma la relativa subordinazione, tout court, al giudizio di veridicità della narrazione alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca: Sez.6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez.6, 10/5/2011, n. 10202) non appare legittimamente Predicabile.

Questa Corte, a tel riguardo, ha recentemente affermato (Cass. 2954/2020, cit.) – in difformità dal principio secondo il quale le dichiarazioni del richiedente asilo giudicate inattendibili non consentirebbero, comunque, un approfondimento istruttorio officioso – che il principio secondo cui l’inattendibilità del richiedente protezione esonera il giudice dal dovere di cooperazione istruttoria “vada opportunamente precisato e circoscritto, nel senso che esso vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b)” – e ciò qualora, va qui ulteriormente specificato, la mancanza di tali presupposti emerga ex actis.

Di converso, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria “una volta assolto da parte del richiedente asilo il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c)” (Cass. 2954/2020; Cass. 3016/2019). A tale principio il collegio-presta convinta adesione, con le precisazioni che seguono.

Il presupposto legislativo della sopra ricordata fattispecie ex art. 14, lett. c) è quello della minaccia grave e individuale alla persona derivante da violenza indiscriminata scaturente da una situazione di conflitto armato interno o internazionale.

5.8.2. Secondo l’insegnamento della stessa Corte di giustizia (C.G. 30 gennaio 2014, in causa C-285/12, Diakitè, punto 10.3), la minaccia grave può, sia pur eccezionalmente, rilevare non in relazione alla situazione personale quando il livello di violazione dei diritti umani raggiunge un livello così elevato che il rischio risulta in re ipsa.

Ne deriva, sul piano strettamente logico, prima ancor che cronologico, che l’accertamento di tale situazione deve precedere, e non seguire, qualsiasi valutazione sulla credibilità del ricorrente.

Ne deriva ancora che qualsiasi valutazione di non credibilità della narrazione non può in alcun modo essere posta a base, ipso facto, del diniego di cooperazione istruttoria cui il giudice è obbligato ex lege. Quel giudice non sarà mai in grado, ex ante, di conoscere e valutare correttamente la reale ed attuale situazione del Paese di provenienza del richiedente asilo, sicchè risulta frutto di un evidente paralogismo l’equazione mancanza di credibilità/insussistenza dell’obbligo di cooperazione.

Ne consegue, inoltre, che, in tale fase del giudizio (evidentemente prodromica alla decisione di merito), la valutazione di credibilità dovrà limitarsi alle affermazioni circa il Paese di provenienza rese dal ricorrente (così che, ove queste risultassero false, si disattiverebbe immediatamente l’obbligo di cooperazione).

La non attivazione dell’obbligo di cooperazione sarà del pari predicabile nei casi in cui il giudice, ricorrendo al notorio, possa categoricamente escludere. -l’esistenza dei presupposti di cui all’art. 14, lett. c) (un richiedente asilo di origine australiana non potrà evidentemente esigere l’attivazione di tale obbligo, essendo fatto notorio che, in quel Paese, non esiste alcuna situazione di conflitto armato).

Ne consegue, infine, che tale obbligo non sussisterà tutte le volte che la difesa del richiedente asilo non abbia esposto fatti storici idonei a renderne possibile la valutazione, ovvero abbia espressamente e motivatamente rinunciato ad una delle possibili forme di protezione (come, ad esempio, nel caso che risulti probabile, e di facile accertamento, il riconoscimento della protezione umanitaria, ed appaia invece pressochè impossibile quello di rifugiato, che costituirebbe comunque oggetto obbligato di indagine da parte del tribunale).

Al di fuori di tali ipotesi, deve ritenersi che, per espresso dettato normativo, così come interpretato dalla stessa Corte di giustizia, sul giudice incomba sempre l’obbligo di cooperazione istruttoria, non potendo, se non ex post, all’esito dei disposti accertamenti, decidere nel merito la domanda.

Tale obbligo si sostanzia nell’acquisizione di COI pertinenti e aggiornate al momento della decisione (ovvero ad epoca ad essa prossima), da richiedersi agli enti a ciò preposti (tale non potendosi ritenere, come già affermato da questa Corte, il sito ministeriale “Viaggiare sicuri”, il cui scopo e la cui funzione non coincidono, se non in parte, con quelli perseguiti in sede di giudizio di protezione internazionale). E ciò è a dirsi alla luce dell’obbligo, sancito dall’art. 10, comma 3, lett. b), Direttiva Procedure, “di mettere a disposizione del personale incaricato di esaminare le domande informazioni precise e aggiornate provenienti dall’EASO, dall’UNHCR e da Organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani circa la situazione generale nel paese d’origine dei richiedenti e, all’occorrenza, dei paesi in cui hanno transitato”. Spetterà, dunque (all’amministrazione, prima, e poi) al giudice fare riferimento anche di propria iniziativa a informazioni relative ai Paesi d’origine che risultino complete, affidabili e aggiornate.

Una differente impostazione della valutazione di credibilità rischia di trasfigurarla da strumento di valutazione della prova in giudizio sulla lealtà processuale o, addirittura, in condizione di ammissibilità o presupposto del riconoscimento del diritto. Secondo tale, non condivisibile e non legittimo orientamento, la valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, impedirebbe al giudice di procedere ad un approfondimento istruttorio officioso persino nel caso di cui all’art. 14, lett. c), quand’anche non sia controversa l’area di provenienza del richiedente – così finendo per estendere la rilevanza e l’influenza della valutazione negativa di credibilità ben oltre il piano della prova dei soli fatti resi indimostrati dalla mancanza di prova. Una interpretazione, questa, del tutto priva di fondamento di diritto positivo e di ordine sistematico.

1.2. Ciò posto in diritto, rileva tuttavia il Collegio in punto di fatto che nel caso di specie i suddetti principi sono stati rispettati dal giudice di merito.

La Corte d’appello, infatti, il dovere di cooperazione istruttoria nei termini sopra indicati l’ha certamente assolto, negando che in Mali esista una situazione di conflitto armato, ed invocando a fondamento della propria decisione un rapporto della missione ONU in Mali (missione (OMISSIS)) risalente a dicembre del 2018, ovvero soltanto di sei mesi precedente la data di pubblicazione della sentenza.

Il ricorrente non ha in alcun modo contrastato l’attendibilità e la pertinenza delle fonti citate dalla Corte d’appello, limitandosi a contrapporre ad esse altri contributi: ma tutti più datati rispetto all fonti richiamate dalla Corte d’appello.

In definitiva, il ricorrente ha inteso censurare il giudizio (di fatto) sulla insussistenza in Mali d’una guerra, contrapponendo alle fonti citate dalla Corte d’appello fonti meno aggiornate. Di qui l’inammissibilità della censura.

1.2. Sebbene il ricorso debba essere complessivamente rigettato, la motivazione del provvedimento impugnato deve essere comunque emendata laddove, nell’esaminare e rigettare la domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ha affermato che “la richiesta di protezione umanitaria deve pur sempre fondarsi su un rischio di esposizione a forme di discriminazione (per ragioni di razza, religione, appartenenza, opinioni politiche o tendenze sessuali), oppure a trattamenti inumani o degradanti”.

Tale affermazione non è corretta in punto di diritto.

La concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, infatti, non richiede affatto, quale presupposto, che il richiedente possa essere esposto nel proprio paese al rischio di discriminazione o persecuzioni.

Se, infatti, davvero esistesse questo rischio, la persona interessata avrebbe diritto allo status di rifugiato o alla concessione della protezione sussidiaria, con la conseguenza che l’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari diverrebbe inutile, e il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 verrebbe abrogato per via interpretativa: operazione ovviamente non consentita all’interprete.

Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è invece un istituto di natura residuale ed atipica, i cui presupposti non possono essere stabiliti con valutazione sintetica a priori, ma solo all’esito di un giudizio analitico a posteriori, dopo aver preso in esame tutte le circostanze del caso. Il rigetto della domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari, pertanto, non può conseguire auatomaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione (ex permultis, Sez. 1 -, Ordinanza n. 21123 del 07/08/2019, Rv. 655294 – 01).

Il rilevato errore è tuttavia irrilevante nella presente sede, non essendo stato esso censurato dal ricorrente.

2. Non è luogo a provvedere sulle spese, poichè la parte intimata non ha svolto attività difensiva.

2.1. Il rigetto del ricorso comporta l’obbligo del pagamento, da parte sua, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

Non rileva la circostanza che il ricorrente abbia chiesto l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, poichè in atti non è stata prodotta alcuna delibera di ammissione al suddetto beneficio.

P.Q.M.

La Corte di cassazione:

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) dà atto che sussistono, allo stato, i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, della Terza Sezione civile della Corte di Cassazione, il 28 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2020

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