Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20748 del 01/08/2019

Cassazione civile sez. trib., 01/08/2019, (ud. 31/05/2019, dep. 01/08/2019), n.20748

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11837/2013 R.G. proposto da:

B.V. e M.D., entrambi in proprio e quali soci

della presunta B.V. e M.D. SOCIETA’ DI FATTO,

ambedue rappresentati e difesi, come da procura speciale in atti,

dall’Avv. Marinella Blengini, con domicilio eletto presso lo studio

dell’Avv. Alessio Petretti in Roma, via degli Scipioni, n. 268/A;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con

domicilio presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, n. 56/31/12, depositata il 29 ottobre 2012.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 31 maggio

2019 dal Consigliere Dott. MICHELE CATALDI.

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle Entrate – a seguito di un indagine fiscale che ha dato origine anche ad un procedimento penale – ha notificato a B.V. (geometra) ed a M.D. (ex socio di un’agenzia di mediazione immobiliare) avvisi di accertamento, relativi agli anni d’imposta 2003 e 2004, con i quali ha ritenuto la sussistenza, tra i due contribuenti, di una società di fatto, che, attraverso una serie di negozi tra loro collegati, aveva realizzato un’operazione immobiliare, consistita nel reperimento del terreno edificabile e nella costruzione e vendita di immobili ad uso abitativo, nella misura di ventitrè unità, distribuite su tre lotti.

Non essendo stata presentata alcuna dichiarazione dei redditi della società di fatto, l’Ufficio ha emesso pertanto avvisi di accertamento ai fini IRPEF, IVA ed IRAP – nei confronti della predetta e, successivamente, a carico dei singoli soci di fatto, in ragione della quota di partecipazione paritaria attribuita a ciascuno di loro e del conseguente reddito personale da partecipazione.

2. Avverso gli avvisi in questione e le relative cartelle di pagamento i contribuenti hanno proposto ricorso presso la Commissione tributaria provinciale di Cuneo, negando che tra loro si fosse mai costituita, seppur di fatto, una società e sostenendo di essere intervenuti nell’operazione immobiliare in questione come meri mandatari, avendo ricevuto dagli acquirenti in comunione del terreno edificabile in questione, alienato da terzi, un mandato irrevocabile con rappresentanza, avente ad oggetto il compimento degli atti strumentali (come ad esempio procedere alla conclusione dei contratti d’appalto, curare l’acquisto dei materiali, supervisionare il comportamento delle attività inerenti) alla costruzione sullo stesso fondo, di un edificio condominiale.

La CTP adita ha respinto il ricorso.

3. Avverso la sentenza di primo grado, i contribuenti hanno proposto appello presso la Commissione tributaria regionale del Piemonte che, con la sentenza n. 56/31/12, depositata il 29 ottobre 2012, lo ha rigettato.

4.1 contribuenti, sia in proprio che quali soci della contestata società di fatto, propongono ricorso, affidato a cinque motivi, per la cassazione della predetta sentenza d’appello.

5. L’Ufficio si è costituito con controricorso.

6. I ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Appare opportuno, premettere all’esame dei singoli motivi di ricorso la sintesi della complessa ricostruzione dei fatti di causa proposta nel ricorso.

Espongono i ricorrenti che essi intendevano “rendersi promotori dello sviluppo di un insediamento residenziale di nuova costruzione su di una vasta superficie edificabile”.

A tal fine, pertanto, ottenevano dai proprietari dell’area una “opzione gratuita di contratto preliminare di vendita per sè o per persona da nominare”, avente ad oggetto detto immobile.

Successivamente, gli stessi contribuenti esercitavano il diritto di opzione e concludevano il relativo ” contratto preliminare di vendita per sè o per persona da nominare”, contenente clausola che consentiva l’electio amici sino alla stipula del contratto definitivo con rogito notarile.

Quindi, i due contribuenti, promissari acquirenti dell’area, stipulavano a loro volta una serie di contratti preliminari di compravendita immobiliare con una pluralità di terzi, ai quali promettevano di vendere gli alloggi da realizzare (cfr. il ricorso, punto 6 del capo V della premessa in fatto), ovvero quote di terreni a destinazione edificatoria con entrostante porzione di fabbricato da erigersi in regime di costruzione condominiale (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).

Successivamente, i proprietari dell’area edificabile, già promessa in vendita ai ricorrenti, ne trasferivano invece la proprietà, suddivisa in quote millesimali, ai predetti terzi promissari acquirenti degli alloggi, che acquistando le relative quote ne divenivano comproprietari.

Pertanto, non venivano eseguiti, mediante la stipula dei relativi contratti definitivi, nè il contratto preliminare di compravendita del terreno edificabile dai proprietari ai ricorrenti; nè i contratti preliminari di alienazione dai ricorrenti ai terzi.

Invece, i terzi interessati agli alloggi da realizzare acquistavano, direttamente dai proprietari, il fondo edificabile in comunione pro indiviso tra loro, prevedevano che i fabbricati da costruire sarebbero stati “regolati in regime di condominio” (pag. 6 del ricorso) e, contestualmente, conferivano agli attuali ricorrenti il mandato, irrevocabile e con rappresentanza, affinchè essi mandatari “concludessero tutti i necessari contratti per l’esecuzione delle costruzioni, la formazione del regolamento condominiale e quant’altro descritto nell’atto con tutti i poteri e le facoltà ivi descritte” (cfr. la sesta pagina del ricorso).

Per e esigenze del mandato i ricorrenti utilizzavano un conto corrente bancario loro cointestato; mentre, per effetto della rappresentanza conferita agli stessi mandatari, le fatture delle ditte che avevano eseguito i lavori di costruzione venivano emesse nei confronti dei mandanti.

Conclusi i lavori di costruzione, le singole unità immobiliari realizzate venivano assegnate ai singoli comproprietari del fondo sul quale erano state realizzate, così come già previsto nel contratto di compravendita del terreno.

Pertanto, nella ricostruzione dei ricorrenti, il loro ruolo, nell’operazione immobiliare in questione, si era esaurito in quello di mandatari, con rappresentanza, dei terzi che avevano acquistato, in comunione pro indiviso, quote della proprietà del terreno edificabile ed avevano conferito loro il mandato, con procura, a compiere gli atti e le attività necessarie a realizzare gli erigendi edifici residenziali condominiali.

Non essendo pertanto mai divenuti proprietari dell’area edificabile, nè avendo partecipato (se non in nome e per conto dei mandanti rappresentati) all’attività di costruzione dei predetti immobili, i ricorrenti escludono quindi di aver esercitato, tanto più nelle forme sociali, l’attività imprenditoriale che l’Ufficio ha invece imputato loro sulla base di una lettura complessiva e coordinata dell’intera vicenda e degli interessi sostanziali effettivamente sottesi ai singoli negozi che la compongono.

2.Tanto premesso, deve darsi atto che le parti ricorrenti hanno depositato, in allegato alla memoria di cui all’art. 380 – bis 1 c.p.c., la sentenza penale n. 1213/14, del 16/22 settembre 2014, con attestazione del passaggio in giudicato il 5 dicembre 2014, del Tribunale di Cuneo, che, visto l’art. 530 cpv. c.p.p., ha assolto B.V., perchè il fatto non sussiste, dai reato di cui all’art. 81 cpv c.p. ed al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 (“perchè, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nella qualità di titolare della società di fatto B.V. e M.D. al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, essendovi obbligato, non presentava le dichiarazioni dei redditi Modello Unico Società di Persone per gli anni d’imposta 2005 e 2006, evadendo l’IVA (…)”.

Il deposito del documento in questione non risulta (neppure all’esito di apposita ricerca nel S.I.C.) notificato alla controricorrente ai sensi dell’art. 372 c.p.c. e, pertanto, non è utilizzabile in questa sede.

Giova, peraltro, precisare che la sentenza penale prodotta non comporterebbe comunque preclusioni in questo giudizio, atteso che essa: riguarda il solo contribuente B.; ha per oggetto fatti avvenuti in anni diversi e successivi a quelli d’imposta qui sub iudice; è stata resa in un processo al quale non risulta aver partecipato, o essere stato messo in grado di partecipare, l’ente impositore (Cass., 22/05/2014, n. 11352); reca una formula assolutoria, ai sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p., che comunque non presuppone l’effettivo accertamento dell’insussistenza del fatto o dell’impossibilità di attribuirlo all’imputato, e pertanto non produrrebbe comunque gli effetti preclusivi previsti dagli artt. 652 e 654 c.p.p.(cfr. Cass., 19/05/2003, n. 7765; Cass., 30/08/2004, n. 17401; Cass., 20/04/2006, n. 9235; Cass., 13/09/2006, n. 19559); nè, tanto meno, avrebbe autorità di giudicato, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., nel processo tributario, nel quale vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4 e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (Cass., 24/11/2017, n. 28174).

3. Venendo quindi all’esame dei motivi del ricorso, con il primo i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2082 (“imprenditore”), 2195 (“imprenditori soggetti a registrazione”) e 2247 (“contratto di società”) c.c..

I motivo è inammissibile.

Infatti, esso si compone innanzitutto di una reiterazione della ricostruzione dei fatti di causa, già effettuata nella premessa del ricorso.

Fanno quindi seguito le censure, formulate con critiche riferite contemporaneamente a passi sia della decisione di primo grado, che in questa sede tuttavia non rilevano, che a quella d’appello, qui effettivamente impugnata. Con riferimento a quest’ultima, i ricorrenti lamentano che il giudice a quo avrebbe ritenuto la sussistenza del vincolo sociale tra loro basandosi esclusivamente sulla circostanza che essi si sono qualificati congiuntamente, nei confronti dei clienti, come risulta “dai contratti preliminari di acquisto ed anche dai verbali di contraddittorio con alcuni degli acquirenti degli immobili”, quale “parte promittente venditrice tesa a fare acquistare alle parti promissorie acquirenti quote di terreni a destinazione edificatoria con entrostante porzione di fabbricato da erigersi in regime di costituzione condominiale”.

Tuttavia, sostengono i ricorrenti, non sarebbe stata raggiunta la prova dei requisiti costitutivi della società di fatto, poichè l’apparenza dell’esistenza di quest’ultima non sarebbe sufficiente al suo riconoscimento ai fini tributari, che non ha l’esigenza di tutelare l’affidamento incolpevole dei terzi, ma quella di accertare la sussistenza del presupposto dell’imposizione. Nè comunque sarebbe stata fornita la prova del conferimento, da parte dei contribuenti, di beni destinati all’esercizio in comune dell’attività economica in questione; della ripartizione degli utili e delle perdite e del vincolo di collaborazione tra i soci di fatto.

La censura è inammissibile perchè, prospettata come violazione o falsa applicazione di norme di diritto, attinge invece il merito della controversia, ed in particolare la valutazione delle risultanze istruttorie del merito e della loro idoneità a soddisfare l’onere probatorio gravante sull’Ufficio, ciò che non è consentito in questa sede di legittimità.

Infatti, il giudice a quo, nella motivazione a sostegno dell’accertamento dell’attività imprenditoriale ascritta al sodalizio di fatto tra i ricorrenti, ha enucleato e congiuntamente valutato una serie di elementi (le specifiche attività concrete svolte dai contribuenti nell’operazione in questione; la ricezione da parte di loro di somme di denaro in contanti ed in assegni; la sussistenza di un conto bancario loro cointestato), che non si esauriscono affatto nel riferimento all’esternazione del ruolo dei contribuenti nei rapporti con i terzi e sono peraltro compatibili anche con il conferimento di servizi e con il perseguimento dello scopo di lucro e con la condivisione dell’alea rispetto ai suo conseguimento.

Le critiche dei ricorrenti alle valutazioni in fatto della CTR, oltre a non essere ammissibili perchè attingono il merito della lite, non sono peraltro nemmeno autosufficienti, atteso che, in ordine ai dati istruttori in questione (e precisamente con riferimento, ai verbali di contraddittorio menzionati nella sentenza come una delle fonti della ricostruzione operata dall’Ufficio e criticata dai ricorrenti, ed alle movimentazioni del conto corrente cointestato) il ricorso non soddisfa V onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali esso si fonda, riguardo ai dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass., Sez. Un., 03/11/2011, n. 22726; Cass., 18/11/2015, n. 23575; Cass., 15/01/2019, n. 777).

4, Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., che disciplinano le presunzioni semplici, per avere il giudice a quo violato il divieto di praesumpto de praesumpto, poichè, procedendo dal fatto storico della stipulazione dei contratti preliminari di compravendita immobiliare tra i contribuenti ed i terzi promissari acquirenti, avrebbe innanzitutto supposto, in base ad elementi indiziari, che con tali atti negoziali i primi avessero trasferito ai secondi a proprietà dei terreni, assumendo l’obbligo di provvedere all’edificazione dei fabbricati in questione. Quindi, muovendo da tale circostanza presunta, avrebbe desunto la circostanza che i contribuenti avessero costituito una società di fatto, finalizzata al reperimento del terreno, alla costruzione ed alla vendita di immobili di uso abitativo. Infine, in via di ulteriore presunzione, lo stesso giudice a quo avrebbe desunto la simulazione del mandato con rappresentanza conferito ai contribuenti dagli acquirenti in comunione del fondo edificabile e dei contratti di appalto conclusi dai contribuenti stessi quali mandatari di questi ultimi.

Innanzitutto, anche in questo motivo i ricorrenti, al fine di ricostruire la catena di presunzioni che intendono censurare, sovrappongono passi della motivazione della sentenza di primo grado a passi della decisione d’appello impugnata, unico provvedimento legittimamente oggetto delle loro censure in questo grado.

E’ pertanto con riferimento alla motivazione della sentenza della CTR che va verificata la fondatezza, o meno, del motivo proposto.

4.1. Il motivo è infondato.

Invero, in base alla formulazione del motivo, quella che i ricorrenti (alla trentunesima pagina del ricorso) configurano come prima presunzione derivata dal fatto storico della stipulazione dei contratti preliminari di compravendita immobiliare tra i contribuenti ed i terzi promissari acquirenti, ovverosia la circostanza che con tali atti negoziali i primi avessero trasferito ai secondi la proprietà dei terreni, assumendo l’obbligo di provvedere all’edificazione dei fabbricati in questione, non integra una presunzione semplice che tragga da un fatto noto la conoscenza di un fatto ignoto, ma costituisce attività di interpretazione di contratti, ai fine della loro qualificazione e dell’individuazione dei loro effetti. Ed in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss.. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (Cass., 15/11/2017, n. 27136; Cass., 16/01/2019, n. 873). Nel caso di specie, il motivo non contiene le necessarie e specifiche indicazioni descritte dai precedenti di legittimità appena citati.

Inoltre, il medesimo motivo, anche quale censura alla corretta applicazione, da parte del giudice a quo, dell’art. 2729 c.c., sotto il profilo della ricorrenza dei tre caratteri (gravità, precisione, concordanza) individuatori della presunzione (cfr. Cass. 16/11/2018, n. 29635), è comunque infondato.

Infatti, esso si sostanzia nella denuncia del contrasto della decisione impugnata con un principio, il cosiddetto “divieto di presunzioni di secondo grado o a catena”, la cui sussistenza nell’ordinamento è stata esclusa da questa Corte, secondo cui: ” a) il principio praesumptum de praesumpto non admittitur (o “divieto di doppie presunzioni” o “divieto di presunzioni di secondo grado o a catena”), spesso tralaticiamente menzionato in varie sentenze, è inesistente, perchè non è riconducibile nè agli evocati artt. 2729 e 2697 c.c. nè a qualsiasi altra norma dell’ordinamento: come è stato più volte e da tempo sottolineato da autorevole dottrina, il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purchè “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’art. 2729 c.c., può legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea -in quanto, a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento de fatto ignoto (Cass. n. 18915, n. 17166, n. 17165, n. 17164, n. 1289, n. 983 del 2015);” (Cass., 16/06/2017, n. 15003, in motivazione, al p. 3).

5. Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., che disciplina l’efficacia inter partes del contratto.

Il dato normativo evocato non appare invero in sè immediatamente significativo del contenuto della censura.

Nell’esposizione del motivo, poi, i ricorrenti riproducono innanzitutto le critiche – all’interpretazione dei contratti preliminari conclusi dai ricorrenti ed alla rilevanza delle qualità che essi si sono attribuiti in tali atti – già oggetto dei primi due motivi di ricorso, ante già decisi.

Nell’ulteriore illustrazione del motivo, i ricorrenti sembrano poi voler individuare l’errore di diritto del giudice a quo da un lato nell’aver attribuito efficacia immediatamente traslativa a tali contratti preliminari e, comunque, nel non aver considerato che essi sarebbero stati risolti per mutuo consenso, implicito nella conclusione dei contratti di compravendita dell’area edificabile conclusi tra i proprietari dei fondi in questione ed i terzi che ne hanno acquisto quote di proprietà indivisa. Il motivo è inammissibile per diverse ragioni.

Infatti, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss.. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (Cass., 15/11/2017, n. 27136).

Nel caso di specie, il mero richiamo, nel motivo, all’art. 1372 c.c. non integra i predetti requisiti di specificità della censura indirizzata avverso l’interpretazione dei contratti attribuita dai ricorrenti alla CTR. Inoltre, il motivo neppure coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, poichè, a differenza di quest’ultima, prende in considerazione in maniera atomistica i singoli negozi – nel caso di specie i contratti preliminari conclusi dai ricorrenti, sostanziali oggetti della censura- dell’operazione negoziale immobiliare complessiva e li valuta separatamente dal contesto di atti e di interessi nel quale l’Ufficio e la CTR, riconoscendone un collegamento finalistico, li hanno collocati. Inoltre, nel procedere alla valutazione isolata dei singoli negozi, i ricorrenti attribuiscono al giudice a quo una conclusione quella secondo cui i contratti preliminari in questione abbiano avuto di per sè soli efficacia traslativa della proprietà dell’area edificabile ai terzi – che non è espressa nella motivazione della sentenza impugnata, nè è necessariamente implicita nell’affermazione, da parte del giudice a quo, che i contribuenti si qualificarono in quegli atti quali parti promittenti venditrici.

6.Con il quarto motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1414 e 1417 c.c., che disciplinano gli effetti della simulazione tra le parti e la prova della simulazione, anche in relazione al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41, comma 2, che, nell’ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione fiscale, consente all’Ufficio di determinare il reddito complessivo del contribuente con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui all’art. 38, comma 3, ovvero anche se non gravi, precise e concordanti.

Lamentano i ricorrenti che il giudice a quo avrebbe affermato la natura simulata dei contratti successivi a quelli preliminari da loro conclusi con i terzi – ed in particolare dei contratti di compravendita dell’area edificabile, di conferimento del mandato con rappresentanza ai contribuenti e di appalto per la costruzione degli edifici- nonostante “la prova della simulazione non poteva dirsi in alcun modo raggiunta”, in particolar modo con riferimento all’intento simulatorio di tutti i partecipanti.

La censura è inammissibile perchè, prospettata come violazione o falsa applicazione di norme di diritto, attinge invece il merito della controversia, ed in particolare la valutazione delle risultanze istruttorie del merito e della loro idoneità a soddisfare l’onere probatorio gravante sull’Ufficio, ciò che non è consentito in questa sede di legittimità.

Infatti, in tema di contratto, l’accertamento della simulazione costituisce oggetto dell’indagine di fatto riservata al giudice di merito e come tale non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione (Cass. 07/10/2004, n. 20020. Nello stesso senso Cass., 29/01/2000, n. 1034).

Altresì inammissibile è l’ulteriore censura, contenuta nel medesimo motivo, relativa all’asserita legittimazione che il giudice a quo avrebbe riconosciuto all’utilizzo, nell’apprezzamento istruttorio finalizzato ad accertare l’effettiva natura dei negozi in questione, di presunzioni non gravi, precise e concordanti, che il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41,comma 2, consente di utilizzare per la determinazione del reddito imponibile del contribuente che abbia omesso la dichiarazione fiscale, ma non anche per accertare la sussistenza del presupposto dell’imposta dal quale scaturisce l’obbligo della dichiarazione omessa.

Infatti, la critica non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, che espressamente, nell’ultimo periodo della motivazione, richiama il predetto art. 41 e la legittimità dell’uso delle presunzioni anche non gravi, precise e concordanti, esclusivamente al fine della quantificazione, con l’accertamento induttivo, del reddito imponibile, e non ne fa alcun cenno nella parte antecedente, relativa all’accertamento del presupposto d’imposta.

Inoltre, il riferimento alla violazione delle norme sulle presunzioni è, nel motivo in decisione, replicato con il rinvio esplicito al terzo motivo, ante dichiarato già inammissibile. In disparte tale rinvio, la censura è altresì generica e non autosufficiente, atteso che non individua ulteriori ragionamenti presuntivi che sarebbero viziati.

7. Con il quinto motivo, i ricorrenti denunciano l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti.

Premessa l’applicabilità dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54,convertito dalla L. 07 agosto 2012, n. 134, deve darsi atto che il motivo è formulato tramite un rinvio alle argomentazioni dell’appello dei contribuenti riassunte nella parte introduttiva del ricorso, senza indicare specificamente quali siano i fatti storici che la sentenza della CTR, decidendo su tale impugnazione, abbia omesso di esaminare; senza evidenziare i dati necessari all’individuazione della collocazione, nei gradi dei giudizi di merito, degli atti e dei documenti dai quali gli stessi fatti sarebbero emersi; e senza illustrare puntualmente la natura decisiva di ciascuno di essi, non essendo a tal fine sufficiente la loro generale e generica qualificazione apodittica come “dettagli di grande importanza”. Nè sovviene a tali carenze il sintetico richiamo, effettuato esplicitamente “a mero titolo illustrativo” a chiusura del motivo, ad alcune circostanze.

In materia, questa Corte, già prima della novella dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ha avuto modo di chiarire che “E’ inammissibile, alla stregua della seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., il motivo di ricorso per cassazione con cui, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la parte si limiti a censurare l’apoditticità e carenza di motivazione della sentenza impugnata, in riferimento alla valutazione d’inadeguatezza delle prove documentali da parte del giudice del merito, in quanto la norma processuale impone la precisazione delle ragioni che rendono la motivazione inidonea a giustificare la decisione mediante lo specifico riferimento ai fatti rilevanti, alla documentazione prodotta, alla sua provenienza e all’incidenza rispetto alla decisione.” (Cass. 26/02/2009, n. 4589, ex plurimis).

Ed è stato altresì precisato, nello stesso senso, che ” In tema di ricorso per cassazione, per effetto della modifica dell’art. 366 – bis c.p.c., introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere dedotto mediante esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali l’insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione, fornendo elementi in ordine al carattere decisivo di tali fatti, che non devono attenere a mere questioni o punti, dovendosi configurare in senso storico o normativo e potendo rilevare solo come fatto principale ex art. 2697 c.c. (costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche fatto secondario (dedotto in funzione di prova determinante di una circostanza principale).” (Cass., 13/12/2017, n. 29883).

Successivamente alla novella del 2012, con riferimento all’elaborazione del motivo di ricorso per vizio della motivazione, è stato ribadito ed ulteriormente puntualizzato che “L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.” (Cass., S. Un., 07/04/2014, n. 8053).

Pertanto, è inammissibile il motivo in esame, non essendo conforme ai prescritti requisiti di forma-contenuto, così come precisati anche dai citati precedenti di legittimità.

8. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti in solido al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, il 31 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2019

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