Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20739 del 14/10/2016

Cassazione civile sez. III, 14/10/2016, (ud. 15/07/2016, dep. 14/10/2016), n.20739

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20005/2013 proposto da:

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del

Consiglio p.t., domiciliata ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è rappresentata e

difesa per legge;

– ricorrente –

contro

S.M., G.E., F.U., B.M.,

SP.GI., M.F., P.A.M.,

MA.AN., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TEULADA 71,

presso lo studio dell’avvocato LUCIA GULINO, che li rappresenta e

difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2809/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/07/2016 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;

udito l’Avvocato dello Stato ETTORE FIGLIOLIA;

udito l’Avvocato LUCIA GULINO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

RENZIS Luisa, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI

Nel (OMISSIS) la Dott.ssa G.E., insieme ad altri professionisti ( P.A.M., F.U., M.F., B.M., Sp.Gi., S.M., Ma.An.), laureati in medicina e chirurgia, esponendo di aver conseguito un diploma di specializzazione sulla base dell’ordinamento vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri, chiedendone la condanna alla corresponsione di una adeguata retribuzione, o al risarcimento dei danni corrispondenti alla mancata percezione della giusta remunerazione per il tempo di frequenza delle scuole universitarie di specializzazione in medicina nel periodo precedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, per inadempimento agli obblighi derivanti allo Stato Italiano dalle direttive n. 75/362/CEE e 82/76/CEE, per ogni anno di frequenza dei corsi di specializzazione.

Il Tribunale di Roma rigettava la domanda in accoglimento della eccezione di prescrizione quinquennale del diritto sollevata dalla convenuta.

La Corte d’Appello di Roma accoglieva l’appello dei professionisti con la sentenza n. 2809/2013 del 16 maggio 2013, notificata il 25 maggio 2013, regolarmente prodotta in copia notificata.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri propone quattro motivi di ricorso per cassazione avvero la predetta sentenza.

Resistono con controricorso i professionisti G.E., P.A.M., F.U., M.F., B.M., Sp.Gi., S.M., Ma.An..

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2947 c.c., dell’art. 20, parr. 1 e 2 e dell’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Contesta la correttezza e la conformità alle norme citate della decisione impugnata laddove ha ritenuto, anche alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 9147 del 2009, che il termine di prescrizione applicabile al caso di specie sia decennale, risolvendo in tal senso la questione della durata della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da mancata o ritardata attuazione di direttiva comunitaria, sull’assunto che l’azione proposta sia volta all’adempimento di una obbligazione ex lege di natura indennitaria riconducibile come tale all’area della responsabilità contrattuale.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata si è uniformata all’ormai consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale “In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive a 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi), sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria. Tale responsabilità – dovendosi considerare il comportamento omissivo dello Stato come antigiuridico anche sul piano dell’ordinamento interno e dovendosi ricondurre ogni obbligazione nell’ambito della ripartizione di cui all’art. 1173 c.c. – va inquadrata nella figura della responsabilità “contrattuale”, in quanto nascente non dal fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., bensì dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, sicchè il diritto al risarcimento del relativo danno è soggetto all’ordinario termine decennale di prescrizione” (Cass. n. 10813 del 2011).

Con il secondo motivo di ricorso, la Presidenza impugna la sentenza di merito per violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c., laddove ha ritenuto che il termine di prescrizione decorra dalla entrata in vigore della L. n. 370 del 1999 e non dal 31.121982 (data di scadenza dell’obbligo di adempimento delle direttive in questione).

Il motivo è infondato.

Anche in relazione al punto del dies a quo della prescrizione, e quindi della decorrenza della stessa, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato da Cass. n. 10813 e dalle altre sentenze gemelle del 2011, e poi costantemente seguito da questa cotte, secondo il quale: “A seguito della tardiva ed incompleta trasposizione nell’ordinamento interno delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari – realizzata solo con il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 – è rimasta inalterata la situazione di inadempienza dello Stato italiano in riferimento ai soggetti che avevano maturato i necessari requisiti nel periodo che va dal 1 gennaio 1983 al termine dell’anno accademico (OMISSIS). La lacuna è stata parzialmente colmata con la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, che ha riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore dei beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo; ne consegue che tutti gli aventi diritto ad analoga prestazione, ma tuttavia esclusi dal citato art. 11, hanno avuto da quel momento la ragionevole certezza che lo Stato non avrebbe più emanato altri atti di adempimento alla normativa europea. Nei confronti di costoro, pertanto, la prescrizione decennale della pretesa risarcitoria comincia a decorrere dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore del menzionato art. 11”.

Con il terzo motivo di ricorso, la Presidenza del Consiglio dei Ministri denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., ed in particolare del principio dell’onere della prova, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene che la corte di merito sarebbe incorsa in tale violazione laddove ha affermato che è sostanzialmente sufficiente provare l’iscrizione e la frequentazione delle scuole di specializzazione fino al conseguimento del relativo diploma per ottenere, sul presupposto della inadempienza dello Stato per l’omesso recepimento delle direttive, il risarcimento del danno, per la perdita di una adeguata remunerazione nel periodo corrispondente. Sostiene la ricorrente che fossero invece gli specializzati a dover provare di non aver esercitato altra attività esterna remunerata per tutta o parte della durata del corso, e di averlo frequentato in via continuativa: a tale ultimo fine non sarebbe neppure sufficiente, a dire della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la produzione delle certificazioni relative al conseguimento del diploma di specializzazione ed attestanti la frequentazione del corso.

Anche questo motivo è infondato.

Si tratta anche in questo caso di questioni già numerose volte affrontate e risolte da questa Corte, in ordine alle quali la ricorrente non introduce alcuna argomentazione nuova, che possa indurre ad una diversa risoluzione della questione.

La sentenza n. 23296 del 2011, quanto all’onere della prova riguardo all’assenza di svolgimento di attività lavorativa esterna remunerata durante il periodo di formazione, ha enunciato il seguente principio di diritto: “Lo specializzando non deve provare altro che la frequenza di una scuola di specializzazione, gravando sul debitore l’onere di provare eventuali fatti impeditivi del sorgere del diritto, tenuto anche conto che l’impossibilità di frequentazione di una scuola di specializzazione in conformità della direttiva era una delle conseguenze dell’inadempimento del legislatore italiano”.

Le coeve sentenze nn. 21973, 21498, 23275 e 23276 del 2011, in tema di onere della prova, hanno avuto modo di osservare che “da un canto (in consonanza con il dictum di cui a Cass. 6427/08), l’impossibilità di frequentazione di una scuola di specializzazione in conformità della direttiva sia conseguenza dell’inadempimento del legislatore italiano – non senza considerare, ancora, che la pronuncia poc’anzi ricordata (proprio al fine di ricondurre a diritto e a ragionevole equilibrio funzionale situazioni meritevoli di una disciplina sostanziale diacronicamente analoga) ha già avuto modo di precisare come la circostanza pacifica che i medici avessero, nel periodo di ritardata attuazione della direttiva, frequentato le scuole di specializzazione come allora organizzate lascia presumere, quanto meno in linea teorica, che essi le avrebbero frequentate anche nel diverso regime conforme alle prescrizioni comunitarie; dall’altro (nella scia di quanto affermato da Cass. 488/09) che i medici non potevano in alcun modo ritenersi onerati della prova di non aver percepito, durante il periodo di formazione, altre remunerazioni professionali ovvero di non essere titolari di altre borse di studio, trattandosi di circostanze eventualmente rilevanti a titolo di aliunde perceptum, con onere della prova a carico del soggetto inadempiente.

Con il quarto ed ultimo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2043, 2056 e 2057 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, quanto alla liquidazione del danno allegando che abbia errato la corte di merito, laddove ha ritenuto di utilizzare come parametro di riferimento per la liquidazione del danno le disposizioni contenute nella L. n. 370 del 1999 e, a monte, laddove ha ritenuto il danno esistente in re ipsa, senza onerare il singolo professionista della prova del suo effettivo verificarsi.

Anche questo motivo è infondato.

Numerosissime sono ormai le sentenze che hanno affrontato il nodo del criterio (equitativo) da scegliere per la liquidazione del danno: ci si può limitare a ricordare Cass. civ, sez. 6-3, ord. m. 19837 del 19/09/2014: “la suddetta obbligazione, avendo natura indennitaria e pararisarcitoria, deve essere quantificata scegliendo un parametro equitativo fondato sul canone di parità di trattamento per situazioni analoghe: parametro che va desunto dalle indicazioni contenute nella L. 19 ottobre 1999, n. 370, con la quale lo Stato italiano ha posto in essere un parziale adempimento soggettivo nei confronti di tutte le categorie che, dopo il 31 dicembre 1982, si erano trovate nelle condizioni fattuali idonee all’acquisizione dei diritti previsti dalle direttive comunitarie”.

Quanto alla prova dell’effettivo verificarsi del danno, essa consegue al fatto stesso di aver frequentato il corso di specializzazione senza aver potuto fruire, nel periodo stesso, di una adeguata remunerazione in conseguenza della ritardata attuazione delle direttive comunitarie da parte dello Stato italiano.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

Nei casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo dicontributo unificato, non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (Cass. n. 1778 del 2016).

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la ricorrente ne è uscita soccombente. Essendo l’Amministrazione pubblica ricorrente esente dall’obbligo di versamento del contributo unificato, tuttavia, la Corte dà atto della insussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Liquida le spese in favore dei controricorrenti in complessivi Euro 7.000,00, di cui Euro 200,00, oltre accessori e contributo spese generali.

Dà atto della esenzione dell’Amministrazione dall’obbligo del versamento del contributo unificato e della insussistenza dei presupposti di legge per il suo raddoppio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 15 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2016

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