Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20712 del 31/07/2019

Cassazione civile sez. II, 31/07/2019, (ud. 26/03/2019, dep. 31/07/2019), n.20712

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6412-2015 proposto da:

B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. P. DA

PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA CONTALDI, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO FOGLIOTTI;

– ricorrente –

nonchè

B.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2279/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 22/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/03/2019 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.G. e L.M. convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Acqui Terme, B.F., rispettivamente sorella e figlia delle parti attrici, per lo scioglimento della comunione dei beni lasciati da B.C. e l’assegnazione di alcuni beni immobili a B.G.. Si costituiva la convenuta che chiedeva la divisione con assegnazioni dei lotti in natura, previa dichiarazione della simulazione di un atto di vendita del 23 giugno 1998 che in realtà era una donazione tra madre e figlia.

2. Nel corso del giudizio interveniva la morte dell’attrice L.M. e la causa proseguiva tra i due fratelli B., quindi, in data 11 febbraio 2006, veniva pronunciata sentenza non definitiva con la quale era respinta la domanda riconvenzionale di nullità o di simulazione del contratto di vendita.

3. Nel prosieguo del processo di primo grado la causa veniva riunita ad altra causa tra le medesime parti, avente ad oggetto l’impugnazione del testamento di L.M.. All’esito dell’istruttoria il giudice assegnava a B.G. gli immobili siti nel Comune di (OMISSIS), stabiliva a titolo di conguaglio in favore di B.F. la corresponsione della somma di Euro 14.136,33. Inoltre, condannava B.G. a pagare a B.F. la somma di Euro 2675,82 per canone di affitto di terreni, mentre condannava B.F. a pagare a B.G. Euro 3622,05 per integrazione della quota di legittima. Infine, condannava B.F. al pagamento di 1/3 delle spese che compensava nel resto.

4. B.F. proponeva appello avverso la sentenza non definitiva che aveva rigettato la domanda di nullità e di simulazione del contratto di vendita intercorso tra B.G. e L.M. e avverso la sentenza resa in relazione all’impugnativa testamentaria sul medesimo.

5. La Corte d’Appello respingeva integralmente il gravame, in quanto dalle risultanze processuali era emersa la reale volontà delle parti di stipulare un contratto di vendita della quota di un mezzo della nuda proprietà, trasferendola dalla madre L.M. al figlio B.G., l’inesistenza di motivi illeciti comuni alle parti, essendo, peraltro, emerso che solo il figlio G. si era occupato delle esigenze di mantenimento e spirituali della madre.

La Corte d’Appello evidenziava che, per la tipologia costruttiva del bene, come evidenziata anche da aerofotogrammi, esso non era divisibile e, vista la quota maggiore in capo al fratello G. pari a 3/4, riteneva giustificata la mancata formazione di due lotti, uno relativo al terreno, uno relativo all’immobile. La Corte d’Appello evidenziava anche che non era dovuta l’indennità di occupazione dei terreni prima del 1999, data di decesso del padre dei due contendenti, in quanto non era provato che l’appellante fosse stata ostacolata nelle sue facoltà di godere e di utilizzare i terreni. Dunque, l’indennità di occupazione dei terreni andava riconosciuta solo dal 1999. Inoltre, riteneva corretti gli importi riconosciuti salvo un errore rispetto al quale non vi era stata censura della somma complessiva spettante a B.F..

6. B.F. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di quattro motivi di ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 809, 1362, 1364, 1369, 1371, 1872 e 2729 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 809,433,1362,1363,1364,1369,1371,2727 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente ritiene di esporre congiuntamente i primi due motivi di ricorso perchè connessi e relativi: il primo, alla dedotta simulazione dell’atto di compravendita, il secondo, alle esigenze assistenziali del cosiddetto vitalizio (con riferimento alla controprestazione pattuita nell’atto di trasferimento).

Secondo la ricorrente mancava nella specie un nesso di sinallagmaticità tra il trasferimento della proprietà degli immobili e l’obbligo di assistenza in favore della venditrice, peraltro, non vi era alcuna alea che, invece, deve caratterizzare il contratto di mantenimento. Infatti, la L.M. era invalida al 100% e, dunque, interamente a carico del servizio nazionale.

Il giudice del gravame non avrebbe valutato l’implicita sproporzione tra la prestazione che il beneficiato si era obbligato a offrire e la vendita e, dunque, vi era uno spirito di liberalità che determinava l’esistenza dell’animus donandi.

Inoltre, con il secondo motivo la ricorrente evidenzia l’insussistenza delle esigenze assistenziali e, in ogni caso, la mancata prova delle stesse. Nella specie, si era verificata la cessione di un fabbricato di alcuni terreni agricoli da madre a figlio con la previsione a titolo di corrispettivo dell’obbligo di assistenza materiale e morale da parte dell’acquirente e, dunque, era evidente che il contratto simulava una donazione con conseguente obbligo di collazione e riduzione testamentaria nella successione di L.M. e conseguente riconoscimento di diverse quote di diritto circa gli immobili caduti in successione.

2.1 I primi due motivi, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente sono inammissibili.

La ricorrente muove entrambe le censure sul presupposto che, nella specie, il contratto stipulato da L.M. e il figlio B.G. fosse un contratto atipico di mantenimento, caratterizzato dall’aleatorietà. Tale presupposto, tuttavia, non trova riscontro con quanto emerge dalla sentenza impugnata. La Corte d’Appello, infatti, ha qualificato il contratto in esame come compravendita, evidenziando la congruità del prezzo stabilito ed effettivamente pagato da B.G.. Il giudice del merito ha negato la natura simulatoria del contratto di vendita, affermando che la reale volontà delle parti era quella di stipulare un contratto di vendita della quota di un mezzo della nuda proprietà, trasferendola dalla madre L.M. al figlio B.G..

Il riferimento alla attività di supporto materiale e morale posta in essere da B.G. nei confronti della madre L.M. era, inoltre, finalizzato ad evidenziare l’inesistenza di un motivo illecito comune ad entrambe le parti.

Sotto questo profilo, pertanto, il motivo è inammissibile perchè il rimettente non censura l’interpretazione del contratto operata dalla Corte d’Appello, prospettando una diversa qualificazione giuridica della fattispecie rispetto a quella di compravendita effettuata dalla Corte d’Appello. I motivi, dunque, non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata e devono di conseguenza dichiararsi inammissibili.

In proposito deve richiamarsi il consolidato principio di diritto espresso da questa Corte secondo il quale: “La parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra”. Sez. 3, Sent. n. 28319 del 2017).

Inoltre deve rilevarsi come, con i motivi di ricorso in esame, il ricorrente sotto l’ombrello del vizio di violazione di legge richiede, invece, una diversa ricostruzione dei fatti, non consentita in sede di legittimità. Infatti il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione, come nel caso di specie, di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è sottratta al sindacato di legittimità.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 720,727,728 e 729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente contesta la decisione circa l’indivisibilità degli immobili rispetto ai terreni, mentre si doveva procedere alla costituzione di due lotti e attribuzione in favore della ricorrente dei terreni agricoli.

3.1 Il motivo è infondato.

Il giudizio circa la non comoda divisibilità o indivisibilità del bene è un giudizio di fatto rispetto al quale non è ammesso il sindacato di legittimità.

In ogni caso la Corte d’Appello ha ampiamente motivato sul punto, evidenziando che l’eventuale divisione dell’immobile avrebbe comportato spese tali che, in percentuale, sarebbero risultate maggiori del valore del bene interamente considerato. Sicchè, stante l’indivisibilità del bene, l’assegnazione andava fatta al maggior quotista (vedi pag. 13 e 14 della sentenza impugnata).

Risulta evidente, pertanto, che non si è realizzata alcuna violazione delle norme invocate dal ricorrente e la sentenza risulta conforme al seguente principio di diritto cui il collegio intende dare continuità: ” In tema di divisione giudiziale di compendio immobiliare ereditario, l’art. 718 c.c., in virtù del quale ciascun coerede ha il diritto di conseguire in natura la parte dei beni a lui spettanti con le modalità stabilite nei successivi artt. 726 e 727 c.c., trova deroga, ai sensi dell’art. 720 c.c., non solo nel caso di mera “non divisibilità” dei beni, ma anche in ogni ipotesi in cui gli stessi non siano “comodamente” divisibili e, cioè, allorchè, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l’aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive, e non richiedenti opere complesse o di notevole costo, ovvero porzioni che, sotto l’aspetto economico-funzionale, risulterebbero sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell’intero” Sez. 2, Sent. n. 25888 del 2016.

Inoltre, deve rilevarsi, che il motivo, contravvenendo all’onere di specificità, si limita ad affermare che gli immobili erano comodamente divisibili con piccola spesa e non riporta neppure la parte della consulenza di parte sulla quale si fonderebbe tale affermazione.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 723 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1.

La ricorrente lamenta l’erroneità della sentenza allorchè ha affermato che il riferimento all’art. 723 c.c. non poteva essere recepito perchè tardivo, quando invece era ricompreso nella domanda di indennità per occupazione esclusiva. In ogni caso ritiene che B.G. non ha mai contestato di aver posseduto i terreni sin dal 1975 in via esclusiva e la Corte d’Appello avrebbe dovuto aggiornare l’indennità fino alla stesura della sentenza di secondo grado, posto che la stessa sarà dovuta fino al passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento della comunione.

3.1 Il quarto motivo è infondato.

In primo luogo, deve evidenziarsi che la Corte d’Appello d’Appello (pag. 14 e 15 della sentenza impugnata) ha affermato che la domanda di indennità di occupazione dal 1975 non poteva essere accolta perchè non vi era stata alcuna esclusione della ricorrente dal godimento del bene e che la stessa avrebbe dovuto chiedere il rendiconto.

Quanto al fatto che la domanda di rendiconto doveva ritenersi ricompresa in quella di indennità per occupazione abusiva, la tesi è del tutto infondata essendo domande con presupposti del tutto diversi, la prima fondata sull’illegittima esclusione del comproprietario dall’uso del bene comune mentre la seconda sul presupposto della gestione di affari altrui condotta da uno dei partecipanti.

Sulla tardività della domanda di rendiconto deve inoltre richiamarsi il seguente principio di diritto: “Il rendiconto, ancorchè per il disposto dell’art. 723 c.c. costituisca operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, poichè preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone, tuttavia, in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale, ben potendosi richiedere tale divisione ex art. 111 c.c. a prescindere dal rendiconto, a tanto potendosi e dovendosi provvedere nel corso del giudizio. Il giudice non può, peraltro, disporre il rendiconto senza istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo, con la conseguenza che la detta istanza non può non essere soggetta al regime di cui all’art. 345 c.p.c.” (Sez. 2, Sent. n. 25120 del 2018).

Quanto al mancato aggiornamento dell’indennità di occupazione al momento della stesura della sentenza di secondo grado, il motivo è privo di specificità perchè non chiarisce se nell’atto di appello fosse stata avanzata una specifica richiesta in tal senso (vedi pag. 14 e 15 del ricorso), nè la Corte d’Appello era tenuta a provvedervi d’ufficio non potendosi in astratto escludersi che tale occupazione fosse cessata con la sentenza di primo grado.

4. Il ricorso è rigettato, dunque, senza provvedere alle spese, essendo l’altra parte rimasta intimata.

5. Poiche il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso;

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione seconda civile, il 26 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2019

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