Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20707 del 10/08/2018


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Civile Ord. Sez. L Num. 20707 Anno 2018
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: BELLE’ ROBERTO

ORDINANZA

sul ricorso 26469-2013 proposto da:
BOTTO MAURIZIO C.F. 191,TTMZR6OR16F205L, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA DI RIPETTA 141, presso lo
studio dell’avvocato ANTONELLO CORRADO, che lo
rappresenta e difende unitamente agli avvocati
MASSIMO BONI, ATTILIO FERRARI, giusta delega e
procura speciale notarile in atti;
– ricorrente –

2018
869

contro

ST JUDE MEDICAL ITALIA S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIALE DI VILLA MASSIMO 57, (Studio
Professionale Associato a Baker & McKenzie) presso lo

Data pubblicazione: 10/08/2018

studio dell’avvocato
rappresenta

e

GUIDO

difende

BROCCHIERI,

unitamente

che

la

all’avvocato

GIANFRANCO DI GARBO, giusta procura speciale in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 1512/2012 della CORTE

1735/2009.

D’APPELLO di MILANO, depositata il 16/11/2012 R.G.N.

R. G. n. 26469/2013

RILEVATO CHE

la Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1512/2012, pronunciando sul
gravame di entrambe le parti avverso le pronunce (non definitiva e definitiva)
del Tribunale della stessa sede, ha confermato la condanna della St Jude Medical
Italia s.p.a. al pagamento in favore dell’ex agente Maurizio Botto, preposto alla
conclusione di contratti di vendita di prodotti medicali per il trattamento delle

mensilità), nonché al pagamento delle provvigioni rimaste insolute, riconoscendo
altresì a favore del medesimo, in parziale accoglimento dell’impugnativa,
l’indennità suppletiva di clientela di cui al pertinente A.E.C. e respingendo ogni
altra pretesa;
avverso tale sentenza Maurizio Botto ha proposto ricorso per cassazione sulla
base di otto motivi, poi illustrati da memoria, cui ha resistito la St Jude con
controricorso, anch’esso illustrato da memoria;

CONSIDERATO CHE

con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4,
c.p.c., l’omessa pronuncia su parte della domanda, avendo la Corte territoriale
erroneamente, a suo dire, ritenuto nuova la pretesa che il calcolo dell’indennità
di mancato preavviso fosse eseguita tenendo conto anche delle provvigioni la cui
spettanza era stata accertata con la sentenza definitiva di primo grado, rilevanti
perché il dovuto comprendeva anche provvigioni dell’anno solare precedente al
recesso, da considerare secondo l’A.E.C., nel calcolo dell’indennità in questione;
il motivo è fondato;
in effetti, l’indennità di mancato preavviso è stata riconosciuta e liquidata con la
sentenza non definitiva (parziale) e pertanto, così procedendo, non si è potuto
valutare se le maggiori provvigioni accertate con la sentenza definitiva
riguardassero, come sostiene il ricorrente, anche l’ultimo anno solare e fossero
quindi rilevanti per il calcolo dell’indennità di mancato preavviso;
il ricorrente, come risulta dal tenore delle conclusioni assunte in primo grado e
riportate nel ricorso per cassazione, insistette ab origine per la condanna delle
controparte, per il titolo qui in esame, della somma quantificata

«in euro

427.446,73, ovvero, in via subordinata, in euro 320.585,05 (….) ovvero nella
diversa misura, maggiore o minore, che sarà ritenuta giusta ed equa
dall’intestato Tribunale»;

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patologie cardiovascolari, dell’indennità di mancato preavviso (in misura di sei

R. G. n. 26469/2013

costituisce ius receptum, qui condiviso in quanto espressione della necessaria
coerenza tra modalità di formulazione della domanda e pronuncia del giudice, il
principio per cui «quando l’attore, con l’atto introduttivo del giudizio, rivendichi,
per lo stesso titolo, l’attribuzione di una somma determinata, ovvero
dell’importo, non quantificato, eventualmente maggiore, che sarà accertato
all’esito del giudizio, non incorre in ultra petizione il giudice che condanni il
convenuto al pagamento di una somma maggiore di quella risultante dalla

quest’ultimo spettante in base alle emergenze acquisite nel corso del processo»
(Cass. 7 marzo 2006, n. 4828; Cass. 15 maggio 2002, n. 7068);
ovviamente, ciò che non costituisce extrapetizione è oggetto di obbligo del
potere-dovere del giudice di pronunciare, in lineare attuazione dell’art. 112
c.p.c., secondo cui il giudice «deve» pronunciare su tutta la domanda;
pertanto la richiesta di un corretto calcolo dell’indennità di mancato preavviso
sulla base del reale ammontare delle provvigioni a tal fine rilevanti non poteva
dirsi, come erroneamente ha ritenuto la Corte distrettuale, nuova, in quanto essa
era ricompresa nella formulazione delle originarie conclusioni;
del resto la specifica questione non poteva essere sviluppata se non con l’atto di
appello, visto che la pretermissione da tale calcolo o verifica rispetto a quella
parte di provvigioni è stata determinata dalla particolare vicenda processuale, la
quale, come detto, ha visto precedere la condanna (specifica) per l’indennità di
mancato preavviso, attuata con la sentenza (parziale) n. 7/2009 del Tribunale,
all’accertamento della misura delle retribuzioni inevase, attuato con la successiva
pronuncia definitiva del medesimo Tribunale;
con l’accoglimento del motivo, va quindi rimesso al giudice del rinvio l’esame di
merito rispetto a tale pretesa;
con il secondo motivo si afferma, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la
violazione degli artt. 416 e 115 c.p.c. per non essersi considerato che i fatti
costitutivi del diritto all’indennità di fine rapporto di cui all’art. 1751 c.c. non
erano contestati;
con il terzo motivo si sostiene la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3,
c.p.c., degli artt. 112, 115, 116, 416, 421, 437 c.p.c., 2697 c.c., nonché più in
generale dell’art. 24 della Costituzione, in relazione all’art. 1751 c.c., per non
avere la Corte consentito o disposto anche d’ufficio la prova finalizzata ad
accertare la ricorrenza dei presupposti utili al riconoscimento del diritto
all’indennità di fine rapporto;

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formale quantificazione inizialmente operata dall’istante, ma acclarata come a

R. G. n. 26469/2013

nell’argomentare rispetto a quest’ultimo motivo, la ricorrente fa riferimento, in
chiusura, anche all’impossibilità di provare i propri assunti per l’inadempimento
di St Jude all’obbligo di fornire i documenti ex art. 1749 c.c.;
il quarto motivo denuncia la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3,
c.p.c., degli artt. 1749 e 2697 c.c., per avere la Corte d’Appello disatteso la
pretesa del ricorrente di ottenere tutte le informazioni necessarie ed un estratto
dei libri contabili, sull’erroneo presupposto che si trattasse di richiesta

quanto avvenuto nel corso del rapporto, mancando ogni dimostrazione di
eventuali richieste in tal senso inoltrate alla preponente prima del recesso di
quest’ultima;
il quinto motivo afferma, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e 4, la violazione
degli artt. 1362-1371 c.c. e 1748 c.c., nonché degli artt. 115, 116, 416, 421,
437 c.p.c. e 2697 c.c., per essere stato indebitamente negato il diritto alla
provvigione rispetto agli affari conclusi successivamente alla chiusura del
rapporto, ma in forza di contratti di durata stipulati antecedentemente per
effetto dell’attività dell’agente;
il sesto motivo denuncia la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 degli
artt. 1748 e 1470 c.c., per essersi negata la provvigione rispetto agli affari
conclusi sulla base del sistema dei c.d. conti-deposito;
i predetti motivi, per la loro connessione, possono essere esaminati
congiuntamente;
la Corte territoriale, rispetto alla questione inerente il diritto all’esibizione degli
estratti conto ed alle informazioni ai sensi dell’art. 1749 c.c., ha fornito due
ordini di motivazioni;
da un primo punto di vista, essa ha affermato (pag. 35 – 37 della sentenza) che
ad ottenere l’esibizione dei documenti sulla base dell’art. 1749 c.c. fosse
necessaria quanto meno l’allegazione e prova dei nominativi dei clienti e dei
periodi delle trattative interessate e che, inoltre, a fronte del perdurare del
rapporto per oltre 13 anni, non potesse costituire prova dell’inadempimento della
preponente l’invio, solo dopo il recesso del 2006, di una lettera genericamente
volta ad ottenere tutti i documenti dal 1994 in poi;
da altro punto di vista (pag. 44 della sentenza) la Corte ha negato che una
richiesta ai sensi dell’art. 1749 c.c. possa essere strumentale a domande che la
parte abbia «già» svolto nel medesimo giudizio;
tali apprezzamenti della Corte sono del tutto fondati e sono riconducibili ad una
ricostruzione giuridica unitaria;

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meramente esplorativa e che non fosse stata fornita alcuna prova in ordine a

R. G. n. 26469/2013

senza dubbio l’art. 1749 c.c. regola il diritto alle informative come situazione
giuridica finale, tutelabile in via autonoma;
peraltro l’esercizio di tale diritto ha per presupposto l’inadempimento della
preponente di cui non è sufficiente la mera ed indistinta allegazione (che
secondo il ricorrente anche per il caso di specie sarebbe giustificata dal noto
arresto di Cass. S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533) in quanto, data la struttura
sostanziale della fattispecie, fisiologicamente caratterizzata dal periodico
«circostanziato

riferimento alle vicende rilevanti del rapporto (tra cui in primis l’invio o meno
degli estratti conto e il loro contenuto» (Cass. 29 settembre 2016, n. 19319);
al contempo l’esercizio del diritto ex art. 1749 c.c. contestualmente alla pretesa
giudiziale delle provvigioni o alle indennità di fine rapporto, cui esso è
strumentale, determina il sovrapporsi tra tali attività conoscitive e l’istruzione
probatoria sui corrispondenti diritti patrimoniali dell’agente;
deve quindi operarsi un razionale coordinamento tra il diritto sostanziale alle
informazioni ed il piano della cognizione giudiziale sui diritti cui esso è
consequenziale, allorquando già concretamente si agisca al fine di ottenere tutela
di questi ultimi;
in proposito, si è intanto ritenuto che

«l’omesso invio degli estratti conto

provvisionali da parte del preponente giustifica la carente indicazione dei relativi
dati ai fini della quantificazione giudiziale del proprio credito chiesta dall’agente,
derivando essa dall’inadempimento dell’obbligo di informazione a carico del
primo» (Cass. 20 ottobre 2015, n. 21219) e ciò in un’ipotesi in cui è stata
valutata come corretta la decisione dei giudici di merito rispetto all’ammissione
di c.t.u. per la quantificazione del credito dell’agente, così ponendosi
l’inadempimento ai doveri informativi quale ragione di indirizzo nella valutazione
dei presupposti delle iniziative istruttorie;
il disposto dell’art. 1749 c.c., pur quando esso non risultava ancora applicabile
ratione temporis

nell’attuale formulazione, è stato altresì ritenuto utile a

consentire la traduzione di tale diritto, in ambito processuale, nell’ordine di
esibizione ex art. 210 c.p.c. (Cass. 7 luglio 2011, n. 14968);
in tale complessivo contesto, il collegio ritiene che il diritto di cui all’art. 1749
c.c., se può essere azionato a prescindere dall’azione giudiziale con cui si
facciano valere i diritti cui esso è strumentale, resta viceversa assorbito dalle
regole dell’istruzione probatoria, allorquando tale azione sia iniziata;
in sostanza, con l’avvio dell’azione giudiziale avente per oggetto i diritti
patrimoniali, l’informazione in favore dell’agente non è più tutelata dall’art. 1749

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succedersi di comunicazioni e pagamenti, è necessario un più

R. G. n. 26469/2013

c.c., in sé solo considerato, ma dall’insieme degli strumenti istruttori propri del
processo;
ciò non esprime una minore tutela, quanto una tutela diversa, arricchita dai
mezzi istruttori ulteriori che il processo consente (prove orali; c.t.u. etc.), senza
contare che l’inerzia rispetto ad eventuali ordini di esibizione può essere
valorizzata come argomento di prova contraria a carico di chi resiste;
peraltro la previsione sostanziale dell’art. 1749 c.c. non resta in tali ipotesi

già sopra indicati) consente non solo di tradurre il diritto alle informazioni in
presupposto tout court dell’ordine giudiziale di esibizione ex art. 210 c.p.c.
(Cass. 14968/2011 cit.), ma anche di disporre c.t.u. (Cass. 21219/2015 cit.), se
del caso mirata all’acquisizione dei documenti a ciò necessari, in applicazione dei
poteri-doveri officiosi di cui agli artt. 421 e 437 c.p.c. (Cass. 15 ottobre 2003, n.
15448), esercitabili come è noto anche in deroga alle regole proprie del rito
ordinario e quindi, ed es., dell’art. 198 c.p.c.;
la Corte milanese si è sostanzialmente mossa su tale linea negando l’ingresso ad
un’azione ex art. 1749 c.c, rispetto a diritti «già» azionati e sottolineando come
ogni attività acquisitiva avrebbe dovuto avere quale presupposto un
inadempimento

«ricostruibile»,

a tal fine non essendo ritenuta sufficiente

un’unica richiesta avanzata alla fine di un rapporto durato oltre dieci anni, ed
altresì l’indicazione non solo dei clienti (in sé desumibile dal doc. 42 di cui è
menzione anche nella sentenza impugnata) ma anche degli specifici periodi
interessati;
pertanto è da ritenersi corretta la reiezione della domanda

ex art. 1749

pronunciata con la sentenza impugnata, come anche il diniego di ordini di
esibizione o di incarichi peritali acquisitivi, in quanto non fondati sui presupposti
legittimanti appena esaminati e quindi, anche per quanto ulteriormente si dirà di
seguito, puramente esplorativi;
venendo ora alle singole pretese, può muoversi in ordine logico dal diritto alle
provvigioni;
rispetto al diritto alle provvigioni per gli affari conclusi successivamente alla
cessazione del rapporto, ma in forza di contratti di durata stipulati
antecedentemente per effetto dell’intervento dell’agente, la Corte d’Appello ne
ha escluso la spettanza in forza della clausola 5.4. del documento contrattuale
inter partes, secondo cui le provvigioni dovute (primo e secondo paragrafo della
norma negoziale)

«saranno esclusivamente quelle maturate durante lo

svolgimento del vostro mandato ed effettuate in conseguenza di tale

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vanificata, in quanto la puntuale allegazione di una sua violazione (nei termini

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aggiudicazione. In caso di risoluzione del presente contratto Vi saranno
riconosciute le provvigioni effettivamente maturate su tutte le forniture
effettuate a seguito di aggiudicazione da Voi promossa, nei quattro mesi
successivi alla cessazione del rapporto»,

clausola che poi prosegue (terzo

paragrafo) nel senso che «nessun compenso specifico ed ulteriore vi sarà
dovuto per il solo fatto dell’aggiudicazione, così come nessuna provvigione vi
sarà dovuta sulle forniture derivanti da proroghe o rinnovi della medesima

presente contratto»;
secondo il ricorrente, le parti non avrebbero inteso derogare al principio, da lui
asserito richiamando anche precedenti di merito, secondo cui, mentre il diritto
alle provvigioni sorge con la stipula del contratto con il cliente, esso matura poi
al momento della esecuzione dello stesso e ciò anche successivamente alla
cessazione del rapporto di agenzia, sicché una corretta interpretazione ex art.
1362 c.c. del terzo paragrafo della norma negoziale, avrebbe imposto di ritenere
che, fatta eccezione per i casi di proroghe o rinnovi di contratti di durata
avvenuti

post scioglimento, per i contratti stipulati prima, le provvigioni

sarebbero state dovute anche se gli affari fossero stati conclusi dopo;
il rilievo è infondato, in quanto la clausola in questione, se letta nella sua
interezza, non è incoerente con le conclusioni assunte dalla Corte d’Appello;
l’eventuale stipula, per effetto dell’operato dell’agente, di convenzioni con i terzi
che, perdurando anche dopo la cessazione dell’agenzia, siano tali da produrre la
conclusione di affari anche successivamente, non rileva come ragione di
maturazione di diritti alle provvigioni pur quando il rapporto di agenzia non esiste
più, ma semmai come ragione di riconoscimento di indennità ex art. 1751 c.c.
che tenga conto di tale particolare assetto procurato dalla intermediazione
agenziale;
viceversa, rispetto al maturare di provvigioni dopo la cessazione del rapporto di
agenzia, la Corte territoriale ha sottolineato come, in sviluppo della previsione di
cui all’art. 1748 c.c. e del «termine ragionevole» ivi previsto entro cui l’agente ha
diritto alla provvigione, pur se gli affari siano stati conclusi dopo la cessazione
del rapporto, la clausola abbia fissato il termine di quattro mesi;
l’esclusione della provvigione, esplicitata dalla medesima clausola, sulle forniture
derivanti da proroghe o rinnovi successivi alla cessazione del rapporto, non
significa necessariamente che siano dovuti compensi per gli affari conclusi dopo i
quattro mesi, se essi scaturiscano da aggiudicazioni precedenti alla cessazione
del rapporto;

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aggiudicazione, che siano stati concessi successivamente alla risoluzione del

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non è vero in particolare quanto sostiene il ricorrente, ovverosia che l’esclusione
dei compensi per affari riconnessi a proroghe o rinnovi successivi alla cessazione
del rapporto sarebbe inutile, se l’agente avesse avuto diritto alle provvigioni solo
per affari conclusi in costanza di rapporto;
infatti, la proroga o rinnovo potrebbe riguardare aggiudicazioni promosse
dall’agente antecedentemente alla cessazione del rapporto, sicché quella
previsione eccettuativa ben potrebbe avere l’effetto di chiarire che le proroghe o

comunque dare diritto alle provvigioni, neppure per gli affari che, in forza di tali
proroghe o rinnovi, fossero stati poi conclusi nei quattro mesi dalla cessazione
del rapporto;
pertanto la lettura della previsione negoziale operata dalla Corte d’Appello non è
inficiata, attraverso il motivo di ricorso, da limiti logici che possano far ritenere
ingiustificato il ragionamento interpretativo posto a base della decisione;
il motivo inerente tali provvigioni post cessazione è infondato anche nella parte
in cui si censura la violazione delle norme sull’onere della prova e sull’istruttoria,
anche officiosa, con specifico riferimento alla disciplina sull’esibizione
documentale di cui all’art. 210 c.p.c.;
a questo proposito si deve osservare come sia pacifico (v. il ricorso per
cassazione, pag. 13) che in corso di causa è stata svolta c.t.u. al fine di
determinare l’ammontare delle provvigioni sulla base degli affari conclusi, in
esito alla quale sono state riconosciute provvigioni inevase per euro 306.250,44;
pertanto l’eventuale istruttoria, anche mediante ordine di esibizione, il cui
mancato svolgimento è censurato in questa sede, risulterebbe finalizzata alla
mera ricerca di ipotetici ulteriori affari rispetto a quelli considerati nella c.t.u.,
senza neppure che risulti esplicitato con il ricorso quali siano le specifiche
carenze dell’elaborato peritale;
tale istruttoria risulta quindi di portata totalmente esplorativa rispetto ad ipotetici
affari non considerati e come tale essa è inammissibile;
rispetto ai c.d. conti-deposito (ovverosia agli affari che venivano conclusi non
mediante vendita seguita da consegna dei prodotti, ma attraverso la previa
consegna alle strutture sanitarie, che poi prelevavano nel tempo da tali depositi
quanto necessario alle proprie esigenze e quindi regolarizzavano l’acquisto con
ordini successivi o restituivano i materiali inutilizzati), il ricorrente adduce la
violazione dell’art. 1748 c.c. e dell’art. 1470 c.c., sul presupposto che le vendite
e quindi gli affari rilevanti ex art. 1748 c.c. fossero da considerare, in assenza di
,age
diversi accordi tra le parti, come conclusi, con4orger1unque del diritto alle

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rinnovi intervenute nei quattro mesi dalla cessazione del rapporto non possono

R. G. n. 26469/2013

corrispondenti provvigioni, nel momento in cui i clienti di fatto utilizzavano i
prodotti giacenti in deposito presso di loro, a nulla rilevando la circostanza che la
formalizzazione avvenisse a distanza di tempo, anche anni, ovverosia al
momento delle verifiche inventariali;
la Corte d’Appello, a parte la questione di diritto sul momento in cui, attraverso
un sistema come quello sopra descritto, dovesse aversi per concluso l’affare per i
fini di cui al contratto di agenzia (se al momento dell’utilizzazione dei prodotti o

dal punto di vista probatorio, sul presupposto che fosse fondata l’affermazione
del Tribunale ove si era

«escluso che fosse stata fornita la prova delle

asserzioni»;
la Corte ha preso le mosse dalla valutazione di alcuni documenti che
effettivamente attestavano l’adozione anche di un tale sistema di
consegne/ordini;
peraltro, ha proseguito la Corte, «anche prescindendo dalla inaccoglibilità di un
ordine di esibizione come quello sopra riportato»,

il ricorrente «non aveva

chiesto di dimostrare che i prodotti in conto deposito si dovessero considerare
già acquistati dai clienti finali», precisando come fossero irrilevanti i capitoli di
prova testimoniale formulati e finalizzati a dimostrare il fatto che i clienti
detenevano una certa quantità di prodotti in conto deposito e che gli stessi
(genericamente) venivano impiantati o comunque utilizzati anche prima della
trasmissione dell’ordine di acquisto;
tali argomentazioni istruttorie stanno chiaramente a significare che quanto
addotto dal ricorrente comprovava un sistema di conto/deposito-conto/vendita
che la Corte stessa non negava potesse desumersi anche dai documenti e fosse
quindi vero, ma ciò non toglieva la necessità di fornire la prova, cui erano
reputati inidonei i mezzi dedotti, dell’intervenire di cessioni in misura superiore a
quanto remunerato a titolo provvigionale;
nulla è stato formulato in critica rispetto a tali argomentazioni istruttorie,
limitandosi il ricorrente ad insistere per le prove dedotte in grado di appello, la
cui inconferenza è chiaramente dimostrata dalle affermazioni della Corte
distrettuale sopra riportate;
la carenza è ancora più significativa ove si consideri che, secondo l’impostazione
giuridica data dallo stesso ricorrente, oggetto della dimostrazione non avrebbe
dovuto essere solo il sopravvenire di ordini formali, ma addirittura profili fattuali
assai specifici, quale la (effettiva) sussistenza di (una quantità precisa di)
prodotti in concreto utilizzati dai clienti ma non fatti oggetto di ordini;

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in quello successivo della formalizzazione dell’ordine), ha disatteso la domanda

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ciò non consente di accogliere il motivo di ricorso, in quanto attraverso esso non
si spiega, come sarebbe stato necessario per incidere sulla

ratio decidendi

istruttoria così impostata, in qual modo, perché e come i mezzi dedotti,
attraverso un percorso istruttorio non generico o puramente esplorativo, fossero
viceversa idonei al raggiungimento dello scopo;
passando infine alle questioni inerenti in senso stretto l’indennità di fine
rapporto, la Corte ha incentrato la propria motivazione sul fatto che l’attività del

l’impossibilità, corroborata dal richiamo a Cass. 8 luglio 2008, n. 18686, di
ipotizzare un convincimento ad ordinare il prodotto rispetto ad aggiudicazioni di
appalti sorrette, presso le strutture pubbliche curate dal ricorrente, da procedure
amministrative di evidenza pubblica;
il ricorrente assume il determinarsi del giudicato, in forza della sentenza di primo
grado, rispetto al fatto che per tutti i clienti da esso indicati, ivi compresi le
strutture pubbliche, vi fosse stata acquisizione e gestione da parte sua e ciò
quale conseguenza dell’intervenuto riconoscimento del diritto alle provvigioni;
in realtà il diritto alle provvigioni è stato riconosciuto in ragione non tanto della
aggiudicazione dei rapporti di durata in favore di St Jude, quanto rispetto agli
“affari conclusi”, per tali intendendosi, come emerge ancora dal passaggio della
sentenza di primo grado espressamente riportato dal ricorrente,

«la fornitura di

prodotti a seguito delle aggiudicazioni promossa dall’agente»;
pertanto non può dirsi dimostrata la ricorrenza di giudicato rispetto al fatto,
palesemente decisivo al fine di riconoscere i vantaggi a venire come causalmente
riconducibili all’attività dell’agente, che anche le aggiudicazioni dei rapporti di
durata e non solo le successive conclusioni delle vendite fossero frutto della
promozione svolta dal Botto;
il ragionamento della Corte d’Appello, per quanto riguarda le forniture a strutture
pubbliche, non risente dunque del fatto che non si sia dato corso ad attività
istruttoria, anche officiosa, finalizzata ad apprezzare a valutare i volumi di affari
sviluppati, in quanto non necessariamente dalla consistenza delle vendite, per
quelle strutture, derivava un beneficio per gli affari futuri destinato a protrarsi
nel tempo, quale è l’effetto proprio di aggiudicazioni di rapporti di durata, stante
il fatto che la conclusione di quest’ultima tipologia di contratti era condizionata,
in futuro come già in passato, da procedure in sé insensibili alla promozione di
vendita;
tale considerazione è assorbente di ogni altra questione attinente alla rilevanza
da attribuire agli affari conclusi con le strutture pubbliche;

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Botto si caratterizzasse come di mera propaganda e non di vendita, stante

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neppure ha pregio la questione in merito alla mancata contestazione dei fatti
posti a fondamento della domanda sull’indennità ex art. 1751 c.c., sollecitata con
il secondo motivo di ricorso, in quanto è evidente come il requisito normativo
inerente i «sostanziali» vantaggi futuri non intercetta un mero fatto storico, ma
anche un pregnante aspetto valutativo, insito nell’apprezzamento di merito
rispetto alla capacità di quanto svolto ad essere foriero di futuri benefici;
pertanto tale presupposto sostanziale non è suscettibile di rientrare nella sua

peraltro il ricorrente sottolinea come la Corte distrettuale abbia omesso di
considerare il fatto che le forniture venivano effettuate anche a favore di
strutture private, indicate nell’elenco da lui prodotto;
tuttavia, l’apprezzamento di tale profilo nell’ambito della complessiva
formulazione del motivo ne appalesa l’inammissibilità, non risultando neppure
addotto il fatto, necessario al fine di concretamente prospettare l’interesse alla
pronuncia, che, considerando soltanto i rapporti con clienti privati, il calcolo
dell’indennità di cui all’art. 1751 c.c. supererebbe l’importo già riconosciuto a
titolo di indennità suppletiva di clientela, la cui spettanza si pone in rapporto di
alternatività con quella dell’indennità qui in esame;
addirittura lo stesso ricorrente giunge a richiedere alla Corte di pronunciare la
cassazione solo qualora l’accoglimento del ricorso sarebbe tale da comportare il
riconoscimento di diritti superiori a quelli già accertati attraverso il
riconoscimento dell’indennità suppletiva di clientela, con ciò manifestando
appieno, a parte la palese irritualità di una siffatta richiesta nell’ambito di un
giudizio di legittimità, la perplessità dell’impostazione, tale anche da questo
punto di vista da manifestare incertezza rispetto all’interesse alla decisione nel
senso propugnato con le proprie difese, il che palesemente individua un profilo di
inammissibilità;
è infatti consolidato l’assunto secondo cui l’interesse ad impugnare costituisce
presupposto del ricorso per cassazione, soggetto anch’esso, a pena di
inammissibilità, al principio di specificità, precisione e completezza della
corrispondente deduzione (Cass. 8 giugno 2017, n. 14279; Cass. 27 maggio
2011, n. 11731; Cass. 21 marzo 2007, n. 6808), sicché l’ipoteticità e genericità,
in parte qua, degli assunti non consentono di considerare nel merito il profilo in
questione;
in chiusura vanno esaminati il settimo e l’ottavo motivo, con i quali si assume, ai
sensi dell’art. 360, comma primo n. 3, c.p.c., la violazione (settimo motivo)
dell’art. 11 d. Igs. 231/2002 per essere stata esclusa l’applicazione della norma

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interezza nell’ambito del regime della mancanza di contestazione;

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sul presupposto che il rapporto risalisse ad epoca anteriore al 8 agosto 2002 e
che quindi non trovasse applicazione la disciplina degli interessi moratori di cui al
d.lgs. 231 cit. e, ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5, c.p.c. (ottavo motivo)
per non avere considerato il contratto del 20.9.2004 che regolava, con effetto
novativo, il rapporto tra le parti ed era successivo a quella data:
l’assunto in merito alla portata integralmente novativa del contratto stipulato in
data 20.9.2004 è puramente affermato, per quanto sulla base di una dizione in

argomentato dalla Corte territoriale;
infatti la sentenza impugnata, per affermare l’esistenza di un unico rapporto,
iniziato nel 1992 e protrattosi fino al recesso della preponente, fa leva anche sul
calcolo dell’indennità suppletiva di clientela prospettato dal ricorrente come tale
da avere inizio fin dal 1992;
rispetto a tale affermazione, in sé contraddittoria rispetto ad una reale portata
novativa dei successivi documenti negoziali, il ricorrente non prende posizione
critica;
a fronte dell’omessa considerazione di un dato fatto (qui, il contratto del 2004 e
la sua portata novativa) dovrebbe prospettarsi la decisività di esso, il che però
palesemente non si verifica nel momento stesso in cui si omette di considerare,
con il ricorso per cassazione, un altro fatto posto a fondamento della diversa
conclusione contrastata, che dunque resta intatto nel sorreggere la
corrispondente rado decidendi;
in definitiva è solo il primo motivo a dover essere accolto, con rinvio alla Corte
d’Appello di Milano, in diversa composizione, per le decisioni consequenziali,
mentre gli altri vanno disattesi;

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta gli altri; cassa la sentenza in
relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità,
alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

tal senso del relativo documento, ma finisce per non confrontarsi con quanto

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