Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 207 del 08/01/2019

Cassazione civile sez. I, 08/01/2019, (ud. 15/11/2018, dep. 08/01/2019), n.207

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22262/2014 proposto da:

Medifarma di M.G. & C S.a.s., in persona legale

rappresentante, elettivamente domiciliata in Roma, Via Andrea Doria

n. 16 C, presso lo studio dell’avvocato Mafrici Consolato,

rappresentata e difesa dall’avvocato Battaglia Demetrio, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.C.E. Bank PLC, in persona del Procuratore Speciale Avv.

A.R., elettivamente domiciliata in Roma, Via Piemonte n. 39 presso

lo studio dell’avvocato Grieco Antonio che la rappresenta e difende

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

Autorità Garante per la protezione dei dati personali;

– intimata –

avverso la sentenza n. 7087/2014 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il

27/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/11/2018 dal Cons. Dott. TRICOMI LAURA.

Fatto

RITENUTO

che:

La società Medifarma di M.G. SAS aveva proposto ricorso ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 156, art. 152, depositato il 7/12/2009, sulla scorta della seguente esposizione di fatti.

Nel giugno del 2007 era stato richiesto ed ottenuto dalla società FCE Bank plc la concessione di un leasing finanziario per l’acquisto di un autoveicolo; tuttavia a ciò era conseguita la apertura di due posizioni contrattuali e di due posizioni debitorie a cui era seguito il prelievo dal conto corrente bancario di M.G. di due ratei ogni mese. La società, accortasi di ciò, in data 18/10/2007 aveva chiesto la restituzione delle somme indebitamente prelevate ed il trasferimento delle rate di addebito sul proprio conto corrente attraverso uno scambio di missive con la finanziaria, volte a chiarire le differenti posizioni contrattuali.

Successivamente, nei primi giorni del dicembre 2007 il M., quale legale rapp. p.t. della Medifarma, chiedeva un finanziamento di Euro 25.000,00 presso l’Istituto San Paolo Banco di Napoli, che gli veniva negato, nonostante il rapporto fiduciario con la banca, sul presupposto che risultava segnalato alla CRIF; le richieste di chiarimenti rivolte sia alla CRIF che alla FCE Bank avevano ottenuto risposta solo in data 28/3/2008, quando la FCE aveva riconosciuto l’errore, ed in data 4/4/2008 quando la CRIF aveva comunicato l’aggiornamento dati.

In seguito, anche la richiesta di finanziamento per Euro.13.000,00 avanzata dalla società alla banca Unicredit in data 27/2/2009 aveva sortito esito negativo a causa dell’esistenza di informazioni negative al CRIF; anche la Banca Nova aveva negato la concessione di un mutuo per l’acquisto di un immobile a causa della segnalazione negativa del CRIF. La FCE interpellata in proposito aveva sostenuto che la segnalazione negativa era conseguita al mancato pagamento della rata relativa al mese di agosto 2008, che a dire della società era stata regolarmente adempiuta.

A fronte di queste vicende, la società si era rivolta, senza esito, al Garante per la protezione dei dati personali richiedendo i provvedimenti del D.Lgs. n. 142 del 2003, ex art. 143.

Quindi la società aveva proposto il ricorso giurisdizionale dinanzi al Tribunale di Roma, chiedendo che fosse accertato e dichiarato che la FCE Bank aveva erroneamente ed illegittimamente segnalato una posizione di sofferenza alla CRIF, con conseguente condanna al risarcimento di Euro 240.000,00 a titolo di danni patrimoniali e di Euro 18.000,00 a titolo di danni non patrimoniali, oltre alla pubblicazione della sentenza ed alle spese. La FCE resisteva con controricorso e chiedeva il rigetto delle avverse domande.

Il Tribunale ha parzialmente accolto la domanda.

Segnatamente, ha respinto la domanda riferita all’iscrizione del dicembre 2007, affermando, sulla scorta della disamina del compendio probatorio, che la Medifarma non aveva provato, nemmeno in via presuntiva, la iscrizione negativa del presunto inadempimento per la rata del contratto attivato erroneamente e che non aveva nemmeno depositato un resoconto del CRIF relativo alla situazione registrata nel mese di dicembre 2007, dalla quale si sarebbe potuta desumere l’iscrizione, altrimenti non provata, documentazione acquisibile a cura della stessa parte presso il CRIF del D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 7.

Ha, quindi, accolto in parte la domanda riferita all’iscrizione del febbraio 2009. Sulla premessa che era incontestata tra le parti l’avvenuta iscrizione nel sistema CRIF di informazioni creditizie relative al mancato adempimento della società di una rata del contratto di leasing, ha ritenuto che la FCE Bank plc non avesse adempiuto agli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 11 e 12 e dall’art. 4, comma 7, del “Codice di deontologia e di buona condotta per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in tema di crediti al consumo, affidabilità e puntualità nei pagamenti”, non avendo provato di avere comunicato alla società titolare dei dati l’imminente registrazione dell’informazione “negativa” nel sistema informatico CRIF.

Passando quindi alla disamina della richiesta risarcitoria, ricondotta nell’alveo applicativo del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, in combinato disposto con l’art. 2050 c.c., il Tribunale ha ritenuto raggiunta la prova che finanziamento e mutuo richiesti dalla società alla Unicredit banca ed alla Banca Nova non furono concessi a causa dell’iscrizione negativa al CRIF. Ha tuttavia escluso che fosse stato provato dalla società il danno patrimoniale, come danno emergente e come lucro cessante, derivante dalla mancata concessione di finanziamento e mutuo. Ha riconosciuto invece il danno non patrimoniale, liquidato equitativamente in Euro 6.000,00, ed accessori, avendo accertato la violazione dell’art. 11 del codice della privacy per violazione del diritto alla reputazione, con la precisazione che lo stesso, pur previsto per legge, non poteva ritenersi sussistente in re ipsa e che la prova era stata integrata dalla circostanza che il rifiuto del credito era conseguito all’essere stata considerato la società “cattivo pagatore”.

La società ricorre per cassazione con quattro mezzi, corredati da memoria, ai quali replica con controricorso la FCE Bank; il Garante è rimasto intimato.

Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.1. Con il primo motivo si denuncia l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio in relazione all’episodio del dicembre 2007, rispetto al quale il Tribunale ha ritenuto non assolto l’onere probatorio gravante sulla ricorrente in merito al fatto oggetto di contestazione, a causa della mancata produzione del resoconto della situazione registrata nel mese di dicembre al CRIF: segnatamente, viene sostenuto che la società – contrariamente a quanto affermato dal Tribunale – aveva avanzato richiesta al CRIF ai sensi dell’art. 7 cit. in data 2/1/2008 e dal CRIF riscontrata in data 14/1/2008 e 28/1/2008 con cui aveva comunicato l’attivazione di un procedimento di verifica urgente con gli enti che avevano trasmesso ad Eurisc i dati contestati, provvedendo contestualmente a sospendere la visibilità di dette informazioni, e ne deduce la rilevanza ai fini della prova della prima violazione contestata.

Si duole anche della riduzione dei capitoli di prova e lista testi, in relazione al primo episodio.

1.2. Con il secondo motivo, sempre relativo all’episodio del 2007, si denuncia violazione, erronea ed omessa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152, comma 9, lamentando che il giudice di primo grado non avrebbe fatto buon uso degli ampi poteri istruttori in materia di ricerca della prova riconosciutigli dalla norma in premessa; assumendo la sostanziale identità degli elementi probatori offerti in relazione ai due episodi, si duole della mancata ammissione – per il primo – delle prove testimoniali articolate, rimarcando di avere reiterato le richieste istruttorie disattese anche nelle note conclusive; si lamenta altresì del fatto che la persona fisica del giudice che aveva assistito all’assunzione delle prove testimoniali non era la stessa che aveva deciso la controversia.

1.3. Con il terzo motivo si denuncia la falsa applicazione degli artt.2724, 2729,2732 e 2735 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c., in relazione alla statuizione con cui è stata negata la sussistenza del primo episodio di trattamento illegittimo dei dati personali e si duole della mancata ammissione di una testimonianza e della mancata valutazione della nota del 28/3/2008 con cui la FCE aveva riscontrato la diffida con cui la società la accusava della segnalazione negativa, nota alla quale la società assume che dove attribuirsi il valore di “confessione stragiudiziale”.

1.4. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente per evidente connessione, risultano per un verso infondati e per l’altro inammissibili e vanno respinti.

Innanzi tutto non può condividersi l’assunto della ricorrente secondo il quale per i due episodi in causa il compendio probatorio offerto era il medesimo, atteso che per il secondo ricorreva la “non contestazione” del fatto, come accertato dal Tribunale.

Va, quindi, osservato che mentre il primo motivo denunzia espressamente in rubrica il vizio di motivazione, il secondo, pur formulato come violazione di legge, implicitamente lo evoca sui medesimi temi.

In particolare con riferimento ai primi due motivi, va considerato che non viene dedotto alcun fatto decisivo rispetto all’accertata assenza di prova in merito all’esistenza di una iscrizione al CRIF di dati negativi sulla morosità e, quindi, di un illecito rilevante ai fini delle regole privacy.

Invero, lo scambio epistolare intercorso tra la società ed il CRIF nell’immediatezza dei fatti relativi al primo episodio, è stato preso in considerazione dal Tribunale che ha rimarcato come dallo stesso non si evincesse, nemmeno in via presuntiva, la ricorrenza di iscrizioni negative quanto al presunto inadempimento, sulla scorta dell’analisi dello specifico contenuto delle missive, di guisa che non si ravvisa affatto un omesso esame di fatti ed il motivo si palesa come una richiesta di rivalutazione delle emergenze istruttorie inammissibile in sede di legittimità, attesa la puntuale disamina delle stesse compiuta dal giudice del merito. Non risulta inoltre illustrata la decisività delle deposizioni testimoniali non ammesse su questo specifico profili, con evidente carenza di specificità.

1.5. Risulta infine inammissibile il terzo motivo laddove introduce il tema della confessione stragiudiziale, attesa la evidente carenza di autosufficienza in merito al contenuto – non trascritto – dei documenti in ragione dei quali si prospetta la doglianza (diffida della società e risposta della FCE Bank).

2.1. Con il quarto motivo si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e per la valutazione della domanda risarcitoria, nonchè la omessa e falsa applicazione dell’art. 2050 c.c. e del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, in tema di riconoscimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla ricorrente.

La ricorrente sostiene che il Tribunale ha erroneamente ritenuto indimostrata la sussistenza del danno patrimoniale ed ha applicato falsamente le disposizioni in materia di distribuzione dell’onere della prova ex art. 2050 c.c., in relazione alle contestazioni mosse all’operato della FCE Bank.

Lamenta inoltre la errata quantificazione del danno non patrimoniale.

2.2. Osserva la Corte che il Tribunale non si è affatto pronunciato sulla domanda risarcitoria afferente al primo episodio, avendolo ritenuto non provato, di guisa che il motivo, in parte qua, è inammissibile perchè non vi è alcun accertamento della relativa condotta lesiva.

2.3. Il motivo quanto alla doglianza proposta avverso il mancato riconoscimento del danno patrimoniale è infondato.

Va ricordato, quanto all’onere della prova, che, alla stregua del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 e dell’ art. 2050 c.c., su colui che agisce per l’abusiva utilizzazione dei suoi dati personali incombe soltanto – seppure in via preliminare rispetto alla prova, da parte del danneggiante della mancanza di colpa – l’onere di provare il danno subito, siccome riferibile al trattamento del suo dato personale (Cass. 23/05/2016, n. 10638), tuttavia il danno, ed in particolare la “perdita”, deve essere sempre oggetto di proporzionata ed adeguata deduzione da parte dell’interessato.

Come chiarito da questa Corte “In caso di illecito trattamento dei dati personali per illegittima segnalazione alla Centrale dei rischi, il danno, sia patrimoniale che non patrimoniale, non può essere considerato “in re ipsa” per il fatto stesso dello svolgimento dell’attività pericolosa. Anche nel quadro di applicazione dell’art. 2050 c.c., il danno, e in particolare la “perdita”, deve essere sempre allegato e provato da parte dell’interessato.” (Cass. 25/1/2017, n. 1931) ed inoltre “In caso di illecito trattamento dei dati personali, nella fattispecie per illegittima segnalazione alla Centrale dei rischi,… il pregiudizio non patrimoniale non può mai essere “in re ipsa”, ma deve essere allegato e provato da parte dell’attore, a pena di uno snaturamento delle funzioni della responsabilità aquiliana. La posizione attorea è tuttavia agevolata dall’onere della prova più favorevole, come descritto all’art. 2050 c.c., rispetto alla regola generale del danno aquiliano, nonchè dalla possibilità di dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici e dal risarcimento secondo equità” (Cass. 5/3/2015, n. 4443).

Ciò posto – puntualizzando che non vi è stata alcun alleggerimento, da parte del Tribunale, dell’onere probatorio a carico della FCE Bank nel rispetto del dettato dell’art. 2050 c.c., ed atteso che la prova del pregiudizio in concreto sofferto grava esclusivamente su colui che ne chiede il ristoro – va osservato che nel caso in esame ciò che la società risulta aver dedotto, dalla lettura del ricorso e della sentenza del Tribunale, è la compromissione dell’accesso al credito, con conseguente impossibilità di dare seguito ai propri progetti di espansione e consolidamento aziendale.

Orbene a fronte di tale assunto, il Tribunale ha ritenuto che non fosse stata data la prova del pregiudizio patrimoniale subito, anche osservando che nemmeno in sede di libero interrogatorio del legale rappresentante erano emersi elementi a conforto.

La ricorrente sostiene che le dichiarazioni del legale rappresentante sarebbero state malamente interpretate. Orbene la doglianza si limita a proporre una diversa interpretazioni delle dichiarazioni, senza trascriverle nei passaggi essenziali, mancando quindi di assolvere all’onere di autosufficienza, con evidenti ricadute di inammissibilità.

Va tuttavia rimarcato che la censura non coglie nel segno, soprattutto perchè la statuizione impugnata si fonda sulla rilevata completa carenza probatoria circa la ricorrenza del danno emergente e del lucro cessante, a conforto della quale sono state valutate anche le dichiarazioni del legale rappresentante – ma non solo – con l’effetto che, ove anche avessero avuto il contenuto propugnato dalla ricorrente, le stesse sarebbero state inidonee – in quanto provenienti dalla stessa parte – ad integrare un elemento di prova in assenza di ulteriori ed autonomi elementi probatori anche indiziari- che non sono stati evidenziati nemmeno nel motivo di ricorso – di guisa che sotto tale aspetto la censura è anche priva di decisività.

La ricorrente sostiene che erroneamente il Tribunale avrebbe ritenuto, sulla scorta delle dichiarazioni del legale rappresentante, che la società aveva avuto accesso al credito in quel periodo, ma anche tale passaggio motivazionale è privo di decisività, rispetto alla autonoma e principale ratio decidendi costituita dall’assenza di prove sul pregiudizio patrimoniale subito: anche accedendo alla tesi della ricorrente, secondo la quale il legale rapp. p.t. non avrebbe affermato ciò, non è dato comprendere alla stregua del motivo, attesa la netta e decisa statuizione di mancanza di prova del Tribunale, come potrebbe dirsi raggiunta la prova circa la sussistenza del danno patrimoniale, prova positiva che incombeva alla ricorrente.

Va da sè che del tutto plausibilmente il giudice di merito ha giudicato non provato il danno sotto tale profilo lamentato.

2.4. Il motivo è manifestamente infondato anche per quanto attiene alla liquidazione del danno non patrimoniale, riconosciuto dal Tribunale.

Il giudice di merito ha fatto concreta applicazione dei condivisibili principio secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 15 del codice della privacy, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicchè determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del medesimo codice ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva; il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito (Cass. 15/7/2014, n. 16133) che, nella specie, lo ha espresso con motivazione adeguata, mentre la censura sostanzialmente sollecita un riesame delle stesse emergenze istruttorie già considerate dal giudice del merito (Cass. 08/02/2017, n. 3311).

3. In conclusione, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

Rigetta il ricorso;

Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00, per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge;

Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2019

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