Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20697 del 09/08/2018


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 20697 Anno 2018
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: COSENTINO ANTONELLO

SENTENZA

sul ricorso 8131-2016 proposto da:
SECHI MARCO, elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO
SOMALIA 67, presso lo studio dell’avvocato RITA GRADARA,
che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati
SILVIA PANSIERI, EDOARDO ANDREA SAVINO;
– ricorrentecontro

2018
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MINISTERO ECONOMIA FINANZE, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope
legis;
– controrícorrente –

Data pubblicazione: 09/08/2018

avverso la sentenza n. 3784/2015 della CORTE D’APPELLO
di MILANO, depositata il 02/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 09/01/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLO
COSENTINO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore

l’accoglimento del primo motivo di ricorso per quanto di
ragione;
udito l’Avvocato SAVINO Edoardo Andrea, difensore del
ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato TORTORA Fabio Avvocatura dello Stato,
difensore del resistente che ha chiesto il rigetto del
ricorso.

Generale Dott. LUCIO CAPASSO che ha concluso per

FATTI DI CAUSA
Il signor Marco Sechi ricorre per la cassazione della sentenza della corte di
appello di Milano che, confermando la sentenza del Tribunale di Lodi, ha rigettato
la sua opposizione avverso il decreto del Dirigente Generale del Ministero
dell’Economia e delle Finanze n. 121442/RM I del 24 marzo 2010, con il quale

violazione dell’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 143/1991, per avere egli
consegnato, tra il 27.9.2004 ed il 30.7.2004, denaro contante senza il tramite
degli intermediari abilitati, in misura eccedente i limiti consentiti dalla legge, al
sig. Boni Gianfranco, all’epoca dei fatti Direttore Area Finanza della Banca
Popolare di Lodi_
La corte distrettuale ha disatteso l’assunto dell’odierno ricorrente secondo cui,
nella specie, la sussistenza della violazione sarebbe stata esclusa dal rilievo che,
poiché il consegnatario del denaro era un dirigente della Banca Popolare di Lodi,
il denaro stesso doveva ritenersi consegnato ad un intermediario abilitato. Al
riguardo, nella sentenza gravata si argomenta che il signor Boni, nel ricevere il
denaro dal Sechi, aveva agito in proprio, quale persona fisica, e non quale
dirigente della Banca Popolare di Lodi e in rappresentanza della stessa; sul punto
la corte ambrosiana valorizza l’affermazione dello stesso Sechi (raccolta nel
verbale della Guardia di Finanza dell’ 11.2.09) di aver consegnato al Boni le
somme in contanti de quibus

in esecuzione di un accordo avente ad oggetto la

spartizione, tra i due, dei profitti derivanti dalle operazioni di trading svolte dal
Boni su un conto intestato al Sechi.
Per la cassazione di tale sentenza il signor Marco Sechi ha proposto ricorso
sulla scorta di tre motivi.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è costituito con controricorso.
La causa è stata discussa all’udienza del 9 gennaio 2018 – per la quale solo la
ricorrente ha depositato memoria e nella quale il Procuratore Generale ha

gli era stata inflitta la sanzione amministrativa pecuniaria di C 193.333,00 per la

concluso come in epigrafe – ed è stata decisa in esito alla riconvocazione del
Collegio del 9 luglio 2013.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Protocollo addizionale alla Carta EDU e dell’art. 112 c.p.c. e deduce la nullità del
procedimento per la violazione del principio del ne bis in idem in cui la corte
territoriale sarebbe incorsa confermando l’impugnato provvedimento
sanzionatorio nonostante che, per gli stessi fatti, egli avesse subito un
procedimento penale conclusosi con l’applicazione su richiesta della pena di nove
mesi di reclusione per il reato di appropriazione indebita.
Il motivo va giudicato infondato, non potendosi richiamare nella specie il
principio del ne bis in idem. Dalla sentenza di applicazione della pena su richiesta
pronunciata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Milano il
23.5.08 (direttamente esaminabile da parte di questa Corte in ragione della
natura del vizio denunciato col mezzo di impugnazione in esame) si rileva infatti
che il fatto per il quale all’odierno ricorrente è stata irrogata, su richiesta, la pena
di nove mesi di reclusione consisteva nell’essersi appropriato di circa 12 milioni di
euro della Banca Popolare di Lodi

“operando in violazione delle procedure

contabili di antiriciclaggio nonché dei vincoli contrattuali”.

La violazione delle

procedure contabili di antiriciclaggio (oltre che dei vincoli contrattuali) costituiva,
dunque, una modalità attuativa del delitto di appropriazione indebita compiuto
dal Sechi, in concorso con il Boni, in danno della Banca Popolare di Lodi; modalità
attuativa, va aggiunto, penalmente irrilevante, non essendo tale modalità
qualificata nemmeno come circostanza aggravante di altro reato. Il fatto
costituente oggetto del procedimento penale era, dunque, l’appropriazione di
beni altrui (cioè della Banca Popolare di Lodi), non la consegna di denaro
contante al Boni effettuata senza il tramite di intermediari abilitati, che, invece, è
il fatto costituente oggetto del procedimento sanzionatorio definito con

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Col primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 4 del VII

provvedimento amministrativo impugnato nel presente giudizio. Va peraltro
ricordato, al riguardo, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la
preclusione connessa al principio del

ne bis in idem opera, ove il reato già

giudicato si ponga in concorso formale con quello oggetto del secondo giudizio,

triade condotta-nesso causale-evento. (cfr. Cass. pen. n. 54986/17, in cui la
Corte, richiamando i principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n.
200 del 2016, ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata che aveva
escluso la preclusione stabilita dall’art. 649 c.p.p. in riferimento al reato di
incendio colposo, cagionato mediante la realizzazione di un abusivo allacciamento
alla rete elettrica, a carico di imputata già giudicata per il delitto di furto
aggravato, contestato come commesso mediante il medesimo allacciamento
abusivo).
Col secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la nullità della sentenza e
del procedimento, per violazione dell’art. 112 c.p.c. (sotto il profilo della
corrispondenza tra chiesto e pronunciato), in cui la corte d’appello sarebbe
incorsa fondando l’accertamento di sussistenza dell’illecito su un presupposto
(ossia che il Boni, ricevendo il denaro contante del Sechi, agisse in proprio e non
nella qualità di dipendente della Banca Popolare di Lodi) non contemplato nella
contestazione del Ministero del Tesoro, nella quale si addebitava al Sechi di aver
consegnato il denaro contante nelle mani del signor Gianfranco Boni quale
“direttore Area Finanza della Banca all’epoca dei fatti”.
Il motivo non può trovare accoglimento perché il riferimento, nella
contestazione dell’addebito al Sechi, alla circostanza che Gianfranco Boni fosse
“direttore Area Finanza della Banca all’epoca dei fatti” assolveva ad una funzione
meramente descrittiva dei contorni fattuali della vicenda, senza in alcun modo
qualificare la fattispecie sanzionata, che era individuata come consegna al sig.
Gianfranco Boni, non come consegna a Gianfranco Boni nella sua qualità di
dipendente della Banca.

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nel solo caso in cui sussista l’identità del fatto storico, inteso sulla base della

Col terzo motivo il ricorrente censura la violazione dell’art. 4 del D.M. 10
marzo 2014, n. 55, in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3, nella parte in cui la
Corte avrebbe liquidato le spese del giudizio d’appello in misura
immotivatamente superiore ai limiti massimi dello scaglione di riferimento.

Dopo la notifica del ricorso per cassazione è stato emanato il decreto legislativo
25 maggio 2017 n. 90 (Attuazione della direttiva (UE) 2015/849 relativa alla
prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di
attività criminose e di finanziamento del terrorismo e recante modifica delle
direttive 2005/60/CE e 2006/70/CE e attuazione del regolamento (UE) n.
2015/847 riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi
e che abroga il regolamento (CE) n. 1781/2006), che ha sensibilmente modificato
il decreto legislativo 21 novembre 2007 n. 231

(Attuazione della direttiva

2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a
scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del
terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione),
il quale, a propria volta, aveva sostituito la disciplina dettata dal decreto legge 3
maggio 1991, n. 143 (Provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei
titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema
finanziario a scopo di riciclaggio)

convertito in legge, con modificazioni, dalla

legge 5 luglio 1991, n. 197.
Quest’ultima disciplina, vigente all’epoca dei fatti ascritti al sig. Sechi (luglio settembre del 2004), è, per il principio di legalità fissato nell’articolo 1 della legge
n. 689/1981, quella applicabile ratione temporis

alla fattispecie dedotta nel

presente giudizio. In particolare, l’articolo 1, comma 1, del citato decreto legge
n. 143/1991, prima sostituito dalla legge di conversione n. 197/1991 e poi
modificato dall’art. 15 I. n. 52/1996 e dall’art. 6 d.lgs. n. 56/2004, recita:

«È

vietato il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o
postali al portatore o di titoli al portatore in lire o in valuta estera, effettuato a

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Il motivo va giudicato assorbito per le considerazioni che seguono.

qualsiasi titolo tra soggetti diversi, quando il valore da trasferire è
complessivamente superiore a 12.500 euro. Il trasferimento può tuttavia essere
eseguito per il tramite degli intermediari abilitati; per il denaro contante vanno
osservate le modalità indicate ai commi 1- bis e 1- ter.»

La sanzione per la

cit., che, nel testo modificato prima dalla legge di conversione n. 197/1991 e
poi dall’art. 6 d.lgs. n. 56/2004, recita:

«Fatta salva l’efficacia degli atti, alle

infrazioni delle disposizioni di cui all’articolo 1 si applica, a decorrere dalla data di
entrata in vigore del presente decreto, una sanzione amministrativa pecuniaria
dall’i per cento al 40 per cento dell’importo trasferito».
La sanzione pecuniaria concretamente inflitta all’odierno

ricorrente (di C

193.333,00) risulta compresa tra il minimo ed il massimo edittale, essendo pari
al 20% dell’ammontare del denaro oggetto di trasferimento, ossia la somma di
C 966.666 che il medesimo Sechi aveva ammesso di aver consegnato al Boni e
che corrispondeva ai due terzi dell’importo di C 1.450.000 che lo stesso Sechi
aveva prelevato dai propri conti bancari.
A decorrere dal 30 aprile 2008 tanto l’articolo 1, comma 1, quanto l’articolo 5,
comma 1, del decreto legge n. 143/1991 sono stati abrogati dall’art. 64 (ora art.
73), comma 1, lett. a), del decreto legislativo 21 novembre 2007 n. 231, e da
quest’ultimo sostituiti, rispettivamente, quanto alla norma che definisce la
condotta vietata, con l’articolo 49, comma 1, (che, nel testo originario, recitava:
«E’ vietato il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o
postali al portatore o di titoli al portatore in euro o in valuta estera, effettuato a
qualsiasi titolo tra soggetti diversi, quando il valore dell’operazione, anche
frazionata, è complessivamente pari o superiore a 5.000 euro. Il trasferimento
può tuttavia essere eseguito per il tramite di banche, istituti di moneta
elettronica e Poste Italiane s.p.a. ») e, quanto alla sanzione, con l’articolo 58,
comma 1, (che nel testo originario recitava: «Fatta salva l’efficacia degli atti, alle
violazioni delle disposizioni di cui all’articolo 49, commi 1, 5, 6 e 7, si applica una

violazione di detto divieto è contenuta nell’articolo 5, comma 1, d.l. 143/1991

sanzione amministrativa pecuniaria dall’i per cento al 40 per cento dell’importo
trasferito»).
Attualmente – a seguito delle modifiche recate al

decreto legislativo n.

231/2007 dal decreto legislativo n. 90/2017 – la norma di divieto di cui

dall’articolo 58, bensì dall’articolo 63 dello stesso testo (come modificato dal
decreto legislativo n. 90/2017), il quale, nel comma 1, prevede una sanzione da
C 3.000 a C 50.000 e, nel comma 6, dispone che detta sanzione è quintuplicata
nel minimo e nel massimo edittali per gli importi superiori a 250.000 euro.
L’articolo 69 del medesimo decreto legislativo n. 231/2007 (introdotto dal
decreto legislativo n. 90/2017), prevede poi, nel primo comma, che

«Per le

violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto,
sanzionate in via amministrativa, si applica la legge vigente all’epoca della
commessa violazione, se più favorevole, ivi compresa l’applicabilità dell’istituto
del pagamento in misura ridotta».
Tale disposizione – nel prevedere che la legge vigente all’epoca della violazione
si applica alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del decreto
legislativo n. 90/2017 solo se più favorevole (il che equivale a dire che per tali
violazioni deve invece applicarsi la disciplina dettata dal decreto legislativo n.
90/2017 quando sia essa quella più favorevole) – introduce, nella specifica
materia delle sanzioni volte alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a
scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del
terrorismo, la retroattività della legge successiva più favorevole; in tal modo
derogando al principio generale (sul quale vedi C.Cost. n. 193/16, C.Cost. 2/17,
Cass. 9269/18) secondo cui tale retroattività – previste per le sanzioni penali
dall’articolo 2, comma 3, c.p. – non opera nella materia delle sanzioni
amministrative.
In relazione alle sanzioni previste dal decreto legge n. 143/1991 e dal decreto
legislativo n. 231/2007 (nel testo anteriore alle modifiche recate dal decreto

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all’articolo 49 del decreto legislativo n. 231/2007 risulta sanzionata non più

legislativo n. 90/2017) deve dunque procedersi ad un giudizio comparativo volto
a stabilire quale sia il trattamento sanzionatorio più favorevole tra quello previsto
dalla legge vigente al momento della commissione della violazione e quello
previsto all’esito delle modifiche normative introdotte dal decreto legislativo n.

Nella concreta fattispecie in esame, nella quale l’importo trasferito era di C
966.666, il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge vigente all’epoca di
commissione dell’illecito prevedeva una sanzione pecuniaria pari una percentuale
dall’I_ al 40 per cento dell’importo trasferito in contanti e, quindi, in concreto,
compresa tra un minimo di C 9.666 ed un massimo di C 386.640 (la sanzione
irrogata è stata, si ricorda, di C 193.333).
Il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge attualmente vigente è quello
dettato dall’articolo 63 d.lgs. 231/2017, come modificato dal decreto legislativo
n. 90/2017, e, poiché l’importo di denaro trasferito in contanti supera la soglia di
C 250.000, va determinato applicando al minimo ed al massimo edittale indicati
nel comma 1 di tale articolo (vale a dire C 3,000 ed C 50.000) la quintuplicazione
prevista del comma 6 del medesimo articolo, così pervenendosi ad un minimo
edittale di C 15.000 e ad un massimo edittale di C 250.000.
La comparazione tra i minimi ed i massimi edittali della sanzione pecuniaria

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90/2017.

Al riguardo è pertanto necessario considerare anche il disposto dell’articolo 67
d.lgs. n. 231/2007, come modificato dal decreto legislativo n. 90/2017, il quale
recita:
((Nell’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie e delle sanzioni

e le autorità di vigilanza di settore, per i profili di rispettiva competenza,
considerano ogni circostanza rilevante e, in particolare, tenuto conto del fatto che
il destinatario della sanzione sia una persona fisica o giuridica:
a) la gravità e durata della violazione;
b) il grado di responsabilità della persona fisica o giuridica;
c) la capacità finanziaria della persona fisica o giuridica responsabile;
d) l’entità del vantaggio ottenuto o delle perdite evitate per effetto della
violazione, nella misura in cui siano determinabili;
e) l’entità del pregiudizio cagionato a terzi per effetto della violazione, nella
misura in cui sia determinabile;
f) il livello di cooperazione con le autorità di cui all’articolo 21, comma 2,
lettera a) prestato della persona fisica o giuridica responsabile;
g) l’adozione di adeguate procedure di valutazione e mitigazione del rischio di
riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, commisurate alla natura dell’attività
svolta e alle dimensioni dei soggetti obbligati;
h) le precedenti violazioni delle disposizioni di cui al presente decreto.
2. A fronte di violazioni ritenute di minore gravità, in applicazione dei criteri di
cui al comma 1, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dagli articoli 56
comma 1 e 57 comma 1 può essere ridotta da un terzo a due terzi.
3. Si applicano le disposizioni di cui agli articoli 8 e 8-bis della legge 24
novembre 1981, n. 689 (103), in materia di concorso formale, di continuazione e
di reiterazione delle violazioni.».
Poiché anche l’articolo 63 del decreto legislativo n. 231/2007 fa parte, al pari
dell’articolo 67, del titolo V di tale decreto legislativo, i criteri dettati in

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accessorie, previste nel presente Titolo, il Ministero dell’economia e delle finanze

quest’ultimo articolo per la graduazione della pena devono trovare applicazione
anche con riferimento alla sanzione prevista per l’illecito trasferimento di denaro
contante.
Ai fini della individuazione del trattamento sanzionatorio più favorevole risulta

non in sede di merito – delle circostanze di commissione dell’illecito, onde
stabilire se, per la violazione concretamente commessa dal signor Secchi, risulti
più favorevole la sanzione irrogabile secondo la disciplina vigente all’epoca di
commissione dell’illecito o quella irrogabile secondo la disciplina introdotta dal
decreto legislativo n. 90/2017, comprensiva dei criteri di graduazione della
sanzione sopra menzionati.
Così definiti i termini della questione applicativa posta dall’articolo 69 del
decreto legislativo n. 231/2007, introdotto dal decreto legislativo 90/2017, è
necessario stabilire, in primo luogo, se lo jus supervenies si applichi alle violazioni
commesse prima della entrata in vigore del decreto legislativo 90/2017 anche
quando tali violazioni abbiano già formato oggetto di un provvedimento
sanzionatorio; nonché, in ipotesi di risposta affermativa a tale quesito, se la
sopravvenienza, nella pendenza del giudizio di legittimità, della nuova disciplina,
potenzialmente più favorevole, possa essere rilevata dalla Corte di cassazione
ancorché la questione non formi (né, evidentemente, potesse formare) oggetto di
alcuno dei motivi del ricorso avverso la sentenza di merito.
Preliminarmente va peraltro sottolineato che – ancorché tali questioni non
siano state trattate nel presente giudizio né dal ricorrente, che pure ha
depositato una memoria ex art. 378 c.p.c., né dall’Amministrazione contro
ricorrente, che non ha depositato memoria – non è necessario assegnare alle
parti un termine ai sensi dell’articolo 384, comma 3, c.p.c., giacché, come già
reiteratamente affermato da questa Corte, tale disposizione si riferisce
esclusivamente all’ipotesi in cui la Cassazione ritenga di dover decidere nel

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quindi necessario un apprezzamento di fatto – che non può essere compiuto se

merito ai sensi dell’ultima parte del comma 2 dello stesso articolo (ord.
15964/11, sent. 8137/14, ord. 6669/15).
Tanto premesso, si osserva che, sulla prima delle due questioni sopra
evidenziate – relativa all’applicabilità dello jus superveniens alle violazioni per le

già stato adottato un provvedimento sanzionatorio – è possibile pervenire ad una
soluzione affermativa, sulla base delle seguenti considerazioni.
Al riguardo si deve, in primo luogo, valorizzare, ai sensi dell’articolo 12 delle
preleggi, la portata letterale dell’articolo 69 del decreto legislativo n. 231/2007,
introdotto dal decreto legislativo 90/2017; in proposito va sottolineata
l’inequivocità della previsione ivi contenuta, la quale ha ad oggetto le «violazioni
commesse anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto»,

senza

contenere alcun riferimento al requisito della mancata emanazione del
provvedimento sanzionatorio. In secondo luogo va evidenziato che, ai fini che ci
occupano, non può attribuirsi alcun rilievo al principio della naturale irretroattività
della legge, fissato dall’articolo 11 delle medesime preleggi, risultando tale
principio espressamente derogato, nei limiti segnati dal principio del favor rei,
dalla previsione, contenuta nel ripetuto articolo 69, che limita le ipotesi di
applicazione della legge vigente all’epoca della commessa violazione ai casi in
cui tale legge sia più favorevole. Va poi altresì evidenziato come una
interpretazione che limiti l’applicabilità dello jus superveniens alle sole violazioni
non ancora sanzionate dall’Amministrazione non possa trovare supporto nelle
disposizioni di cui all’art. 3 d.lgs. n. 472/1997 e di cui all’art. 23 bis d.P.R. n.
148/1988; entrambe tali disposizioni, che già precedentemente avevano
introdotto l’applicazione del principio del

favor rei alle sanzioni amministrative

nelle materie tributaria e valutaria, indicano infatti, quale unico limite alla regola
della retroattività della lex mitior,

l’intervenuta definitività del provvedimento

sanzionatorio, la quale, evidentemente, presuppone l’esaurimento dell’eventuale
fase di impugnazione giurisdizionale dello stesso. Infine la clausola di invarianza

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quali, al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 90/2017, fosse

dettata dall’articolo 74, comma 1, d.lgs. 231/2007, anch’esso introdotto dal
decreto legislativo n. 90/2017

(«dall’attuazione del presente decreto non

derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»),

non può

ritenersi idonea a sorreggere un’interpretazione che escluda l’applicazione della

decreto legislativo n. 90/2017, per le quali, tuttavia, a tale data fosse già stata
emessa l’ordinanza sanzionatoria; deve infatti escludersi che eventuali riduzioni
di sanzioni già irrogate, conseguenti all’applicazione della normativa
sopravvenuta, possano considerarsi quali «nuovi o maggiori oneri a carico della

finanza pubblica», giacché si tratterebbe non di maggiori oneri ma di minori
entrate prive del requisito della certezza, in quanto dipendenti da provvedimenti
ancora sub judice.
Ritenuta, quindi, l’applicabilità dello

jus supervenies

recato dal decreto

legislativo n. 90/2017 anche alla violazioni per le quali, alla data di entrata in
vigore di tale decreto, era già stata emessa una ordinanza sanzionatoria, resta da
esaminare la seconda questione sopra evidenziate, vale a dire se – qualora lo jus

superviens sia intervenuto nella pendenza del giudizio di legittimità (come è
avvenuto nel presente giudizio) – esso possa essere applicato dalla Corte di
cassazione anche nei giudizi nei quali la quantificazione della sanzione operata
nell’ordinanza sanzionatoria non sia stata specificamente impugnata in sede
giurisdizionale o nei quali la relativa impugnazione sia stata rigettata in primo
grado con statuizione non appellata o sia stata rigettata in secondo grado con
statuizione non gravata di ricorso per cassazione.
In proposito è appena il caso di precisare, per completezza, che nessun dubbio
può sussistere in ordine al dovere della Corte di cassazione di fare applicazione
dello jus superveniens nei casi in cui la statuizione della sentenza di secondo
grado in punto di misura della sanzione abbia formato oggetto di specifico motivo
di ricorso per cassazione, ancorché sorretto, ovviamente, da ragioni diverse dalla
violazione di norme che sono entrate nell’ordinamento solo in un momento

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lex mitior alle violazioni, pur commesse prima della data di entrata in vigore dal

successivo alla proposizione del ricorso. In tal caso, infatti, la statuizione sulla
misura della pena forma oggetto di censura in sede di legittimità e tale censura
investe la Corte di cassazione del potere-dovere di verificare la relativa
conformità alla legge anche sotto profili diversi da quelli dedotti nel mezzo di

ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e
l’uniforme interpretazione della legge, nonché per omologia con quanto prevede
la norma di cui al secondo comma dell’art. 384 c.p.c., deve ritenersi che,
nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione
può ritenere fondata la questione sollevata dal ricorso per una ragione giuridica
individuata d’ufficio e diversa da quella specificamente indicata dalla parte, con il
solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come
accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa
sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l’esperimento di ulteriori
indagini di fatto (Cass. 19132/05, Cass. 6935/07, Cass. 3437/14, Cass.
18775/17).
Ritiene peraltro il Collegio che la norma più favorevole sopravvenuta nella
pendenza del giudizio di legittimità debba trovare applicazione anche nell’ ipotesi
in cui, come nel presente procedimento, nel ricorso per cassazione non sia stata
specificamente censurata la statuizione della sentenza di secondo grado di
rigetto di un motivo di appello concernente la misura della sanzione, nonché nelle
ulteriori ipotesi nelle quali la misura della sanzione non avesse formato oggetto di
contestazione in sede di appello avverso la sentenza di primo grado o
nell’originario atto di opposizione all’ordinanza sanzionatoria.
Al riguardo si osserva che, in linea generale, questa Corte ha affermato che nel
giudizio di legittimità, lo ius superveniens, che introduca una nuova disciplina del
rapporto controverso, può trovare di regola applicazione solo alla duplice
condizione che, da un lato, la sopravvenienza sia posteriore alla proposizione del
ricorso per cassazione (e ciò perché, in tale ipotesi, il ricorrente non ha potuto

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gravame; la giurisprudenza di legittimità ha infatti più volte ribadito che, in

tener conto dei mutamenti operatisi successivamente nei presupposti legali che
condizionano la disciplina dei singoli casi concreti); e, dall’altro lato, la normativa
sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i
principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione – e

attraverso l’individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla
base di esse – impediscono di rilevare d’ufficio (o a seguito di segnalazione fatta
dalla parte mediante memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.)
regole di giudizio determinate dalla sopravvenienza di disposizioni, ancorché
dotate di efficacia retroattiva, afferenti ad un profilo della norma applicata che
non sia stato investito, neppure indirettamente, dai motivi di ricorso e che
concernano quindi una questione non sottoposta al giudice di legittimità (così
Cass. 10547/06). La seconda di dette limitazioni, vale a dire la pertinenza dello
jus superveniens a questioni sottoposte al giudice di legittimità, deve tuttavia
ritenersi derogata nel caso in cui il giudizio abbia ad oggetto l’impugnativa di un
provvedimento recante una sanzione e lo jus superveniens

sia retroattivo in

applicazione del principio del favor rei. In materia di sanzioni amministrative per
violazione di norme tributarie, infatti, questa Corte ha già avuto modo di stabilire
– nella sentenza n. 8243/08, resa con riferimento all’articolo 3 d.lgs. n.
472/1997 (il cui comma 3 recita: «Se la legge in vigore al momento in cui è stata
commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità
diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di
irrogazione sia divenuto definitivo.») – che le più favorevoli norme sanzionatorie
sopravvenute debbono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del
giudizio, e quindi anche in sede di legittimità; nella motivazione di detta sentenza
si chiarisce, in particolare, che

«le più favorevoli norme sanzionatorie

sopravvenute devono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del
giudizio e, quindi, pure in sede di legittimità, atteso che, nella valutazione del
legislatore, in ogni altro caso, la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del

13

soprattutto quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata

principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie
regole in tema d’impugnazione».
Quest’ultimo, condivisibile,
pubblicistica del principio del

approdo – fondato sulla specifica

portata

favor rei e, quindi, destinato ad operare ogni

recante una sanzione tributaria o amministrativa – non urta, d’altra parte, con i
principi in materia di rapporto fra jus superveniens e cosa giudicata.
Al riguardo va premesso che la statuizione sulla misura della sanzione è
dipendente dalla statuizione sulla responsabilità del sanzionato; è ovvio, infatti,
che la caducazione del capo di sentenza che accerta la sussistenza dell’illecito e
la responsabilità del sanzionato travolge il capo di sentenza che stabilisce la
misura della sanzione (anche mediante il rigetto dell’opposizione avverso la
misura della sanzione fissata nell’ordinanza opposta).
Ciò posto, devono qui richiamarsi i principi fissati dalle Sezioni Unite di questa
Corte nella sentenza n. 21691/16, dove si è precisato che l’impugnazione nei
confronti della parte principale della decisione impedisce la formazione del
giudicato interno sulla parte da quella dipendente. In tale sentenza si è, in
particolare, sottolineato che con l’articolo 336 c.p.c. (alla cui stregua “la riforma o
la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti dipendenti dalla parte riformata
o cassata”) il legislatore ha fissato la regola che, qualora due o più parti di una
sentenza siano collegate da un nesso di dipendenza, l’accoglimento
dell’impugnazione mirata sulla parte principale comporta la caducazione anche
della parte dipendente. Si è altresì evidenziato che l’impugnazione della parte
principale della sentenza comporta anche l’effetto di impedire il passaggio in
giudicato della parte dipendente della stessa sentenza, sino a quando la
decisione sull’impugnazione rimanga

sub iudice. Si è infine, chiarito come non

possa ritenersi che le parti dipendenti della sentenza, sebbene rimaste fluide e
non cristallizzate nel giudicato, siano comunque divenute intangibili a causa della
maturazione di preclusioni e decadenze processuali, non esistendo nel sistema

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qualvolta il processo civile abbia ad oggetto l’impugnativa di un provvedimento

alcuna disposizione che imponga l’impugnazione autonoma anche delle parti
della sentenza esposte alla necessaria caducazione in caso di accoglimento della
parte principale. In conclusione, le Sezioni Unite hanno affermato che
l’impugnazione della parte principale della sentenza impedisce il passaggio in

Sulla scorta dei richiamati precedenti può quindi enunciarsi il seguente
principio di diritto:
“In materia di sanzioni amministrative, le norme sopravvenute nella pendenza
del giudizio di legittimità che dispongano retroattivamente un trattamento
sanzionatorio più favorevole devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di
cassazione, atteso che la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del
principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie
regole in tema d’impugnazione; né tale conclusione contrasta con i principi in
materia di rapporto fra jus superveniens e cosa giudicata, perché la statuizione
sulla misura della sanzione è dipendente dalla statuizione sulla responsabilità del
sanzionato e pertanto, ai sensi del’articolo 336 c.p.c., è destinata ad essere
travolta dall’eventuale caducazione di quest’ultima, cosicché
passare in giudicato fino a quando l’accertamento della

essa non può
responsabilità dei

sanzionato non sia a propria volta passata in giudicato.”
La rilevazione di ufficio della sopravvenienza di un regime sanzionatorio che in
concreto può risultare più favorevole al sanzionato, in relazione all’esito degli
apprezzamenti di fatto di cui dell’articolo 67 d.lgs. n. 231/2007, come modificato
dal decreto legislativo n. 90/2017, impone la cassazione della sentenza gravata
ed il rinvio alla corte territoriale perché valuti se, in relazione all’illecito
commesso dal sig. Sechi, debba per costui ritenersi in concreto più favorevole il
regime sanzionatorio di cui al decreto legge n. 143/1991 o quello di cui al decreto
legislativo n. 231/2007, come modificato dal decreto legislativo n. 90/2017 e, in
questa seconda ipotesi, ridetermini il trattamento sanzionatorio alla stregua della
normativa sopravvenuta.

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giudicato anche delle parti da essa dipendenti.

La cassazione con rinvio determina l’assorbimento del terzo motivo di ricorso
per cassazione, giacché le spese del giudizio di appello dovranno essere
riliquidate in sede di rinvio alla luce dell’esito complessivo della causa.
Le spese del giudizio di cassazione vanno invece compensate, appunto in

PQM
La Corte, provvedendo sul ricorso, rigetta i primi due motivi, dichiara assorbito
il terzo, cassa la sentenza gravata nella parte concernente la misura della
sanzione irrogata e rinvia ad altra sezione della corte di appello di Milano perché
valuti se, in relazione all’illecito commesso dal ricorrente, debba per costui
ritenersi in concreto più favorevole il regime sanzionatorio di cui al decreto legge
n. 143/1991 o quello di cui al decreto legislativo n. 231/2007, come modificato
dal decreto legislativo n. 90/2017 e, in questa seconda ipotesi, ridetermini il
trattamento sanzionatorio alla stregua della normativa sopravvenuta.
Compensa le spese del giudizio di legittimità.

2018.

Così deciso in Ro a all’esito della riconvocazione del 9
Il Presidente

Il Cons. estens re
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Stefano Petitti

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Roma,

09 Wiu. 2018

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ragione dell’intervento della sopravvenienza di una nuova normativa.

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