Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20690 del 09/08/2018


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Civile Ord. Sez. 2 Num. 20690 Anno 2018
Presidente: MATERA LINA
Relatore: FALASCHI MILENA

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11699/2013 R.G. proposto da
TODISCO GIROLAMO e MINERVA MARIA GRAZIA, rappresentati e
difesi dagli Avv. Pierdomenico e Lorenzo Pellicanò, con domicilio
eletto in Roma, via Lima n. 28, presso lo studio dell’Avv. Marco
Albanese;
– ricorrenti contro
PRANDINI GIANLUIGI, rappresentato e difeso dagli Avv. Francesca
Arenosto e Jacopo Cappetta, nonché dall’Avv. Giuseppe di Simone,
con domicilio eletto in Roma, via Flaminia n. 357, presso lo studio
di quest’ultimo;
– controricorrente avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 674
depositata 1’11 febbraio 2013 e notificata il 6 marzo 2013.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 novembre
2017 dal Consigliere Milena Falaschi.

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Data pubblicazione: 09/08/2018

Osserva in fatto e in diritto
Ritenuto che:
– il Tribunale di Milano, con mfie- sentenza n. 9638 del 2011, in
accoglimento della domanda proposta da Girolamo TODISCO e
Maria Grazia MINERVA, condannava Gianluigi PRANDINI a

immobile, munendole di vetri opachi e di inferriate fisse ovvero
adeguandole alle previsioni di cui agli artt. 901 e 902 c.c. in
maniera di assicurarne la natura di luci;
– sul gravame proposto dal Prandini, la Corte d’appello di Milano,
nella resistenza degli appellati, in accoglimento dell’appello,
precisato che una delle due aperture non aveva subito alcuna
trasformazione, dichiarava che neanche la seconda apertura – nella
quale era stato installato un cancelletto nell’inferriata – era a
distanza inferiore a quella di cui all’art. 905 c.c., sia che la
misurazione fosse stata effettuata ritenendo il muro di confine di
proprietà esclusiva dell’appellante (cm. 143+15), sia che detto
muro fosse stato ritenuto in comproprietà (cm. 143+7,5), oltre ad
escludere la dedotta creazione di un nuovo balcone sul confine,
perché oltre ad essere argomento inammissibile (perché sollevato
per la prima volta nella comparsa conclusionoPdi primo grado), si
trattava di piccola soletta di copertura di un sottostante corpo di
fabbrica scomodamente accessibile, e per l’effetto respingeva la
domanda attorea, condannando gli attori a rifondere le spese
processuali per entrambi i gradi di giudizio;
– per la cassazione del provvedimento della Corte d’appello di
Milano ricorrono il Todisco e la Minerva sulla base di tre motivi;
– l’intimato Prandini resiste con controricorso;
– in prossimità della camera di consiglio, depositata memoria
illustrativa dal sostituto procuratore generale, dott. Gianfranco
Servello, nei giorni seguenti anche parte ricorrente ha curato il
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ripristinare nello stato originario due aperture esistenti nel suo

depositptoi di memoria ex art. 378 c.p.c., già depositata memoria di
replica al controricorso in data 25.10.2017.

Atteso che:
– il primo motivo di ricorso (con il quale è denunciata la violazione
e la falsa applicazione dell’art. 905 c.c. per avere erroneamente la
corte di merito ritenuto che si trattasse di apertura posta a distanza

come eccepito dai ricorrenti già in primo grado, avendo l’ausiliario
del giudice misurato la distanza frontale fra la finestra in questione
e la parte antistante del fondo del vicino e non di tutte le finestre
sull’intero fondo del vicino) è privo di pregio.
In ordine alla misurazione delle distanze, criterio fondamentale è
quello per cui la distanza legale della costruzione dal confine o da
altro fabbricato deve sussistere da ogni punto della costruzione
medesima (Cass. 9 novembre 1970 n. 1367). Al sistema di
misurazione lineare, proprio delle distanze tra edifici, si
contrappone quello radicale, proprio delle distanze rispetto alle
vedute (Cass. 25 luglio 1972 n. 2548). Rispetto a queste ultime
appare netta la esclusione dal computo di cornicioni, fregi e
comunque di tutti quei manufatti la cui qualificazione ornamentale
e accessoria trova evidente supporto nel fatto di non essere
destinati all’esercizio della veduta (Cass. 21 luglio 1980 n. 4773).
Infatti per la misurazione delle distanze dalle vedute, l’art. 905
comma 1 c.c. pone, come dati di riferimento, da un lato la faccia
esteriore del muro in cui si aprono le vedute dirette, dall’altro la
linea di confine, dovendo correre dall’uno all’altro lo spazio di
almeno un metro e mezzo; pertanto, la distanza minima da
osservare va calcolata con esclusivo riguardo all’immediato piano di
superficie dell’apertura verso l’esterno e non al piano sul quale la
veduta è stata praticata, senza che, di conseguenza, rilevi
l’eventuale maggiore distanza delle altre parti dello stesso muro,
fermo restando che tali previsioni non valgono ad attestare la
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legale sebbene sulla base di una consulenza tecnica di ufficio nulla,

legittimità dell’apertura di una veduta a distanza di un metro e
mezzo dal fondo del vicino nel caso in cui essa viene attuata nel
muro di confine, mediante arretramento ad incasso nel solo piano
elevato (v. Cass. 27 luglio 1988 n. 4790).
Per la giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, nel caso in cui
il confine tra due fondi sia rappresentato da un muro comune, il
punto di arrivo nella misurazione della distanza di cui all’art. 905

del muro prospiciente l’immobile da cui la veduta è esercitata e non
da quella opposta sita dalla parte del fondo di proprietà esclusiva
dell’altro comproprietario del muro, nè dalla sua linea mediana
(Cass. n. 2499 del 1986; Cass. n. 1061 del 1979; Cass. n. 5894 del
1978; Cass. n. 4051 del 1977). Dunque i tratti salienti, che
caratterizzano le pronunce sul punto, riguardano l’individuazione
della faccia esterna del muro, nel quale si apre la veduta, quale
punto dal quale effettuare la misurazione, ” la distanza
delle vedute dal confine, quando queste si aprono in un incasso del
muro, deve essere di un metro e mezzo calcolato dalla faccia
esterna del muro medesimo….” (Cass. 8 marzo 1980 n. 1576)
ovvero della linea estrema del balcone, “….la misurazione della
distanza di una veduta dal fondo del vicino si effettua dalla faccia
esteriore del muro in cui si aprono le finestre ovvero dalla linea
estrema del balcone, o, in genere, del manufatto dal quale di
esercita la veduta stessa…”, (Cass. 25 maggio 1981 n. 3428, con
indifferenza per le strutture portanti del fabbricato).
Bisogna inoltre osservare che, a questi fini, non è possibile
configurare una distanza media tra rientranze e sporgenze. Il
motivo di questo limite è dovuto e discende direttamente dalle
finalità perseguite dalla prescrizione sulle vedute.
La corte di merito non si è affatto discostata da tale principio, in
quanto, accertato con incensurabile apprezzamento di fatto, che la
distanza calcolata dal consulente tecnico d’ufficio era conforme a
quella prescritta dalla norma dell’art. 905 c.c., ha correttamente
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c.c. per l’apertura di vedute verso lo stesso, è costituito dalla faccia

accolto il gravame – con rigetto della domanda attorea – che su
tale specifico punto era stato proposto dal Prandini.
Del resto con la censura in esame, nella sostanza, i ricorrenti
deducono un travisamento della situazione dei luoghi, che oltre a
costituire un eventuale errore revocatorio, non risulta ricorrere
nella fattispecie, giacchè la corte di merito ha chiaramente
accertato che le aperture esistenti e rilevanti ai fini delle vedute

seconda era posta a distanza inferiore a quella di cui all’art. 905
c.c. e la doglianza non illustra in quali termini avrebbe dovuto
essere effettuata la misurazione dal consulente del giudice, non
specificando neanche un diverso stato dei luoghi rispetto a quello
sopra descritto;

con il secondo mezzo i ricorrenti denunciano la violazione
degli artt. 112 e 163, comma 3 c.p.c., per avere la corte territoriale
ritenuto inammissibile la domanda di installazione di barre fisse in
sostituzione del cancelletto perché tardiva e poi
contraddittoriamente pronunciando nel merito; con il terzo mezzo
lamentano la violazione degli artt. 132, comma 2 n. 4 c.p.c., 118
disp. att. c.p.c. e 111 Cost., affermando l’apoditticità delle
affermazioni della corte territoriale nel respingere la domanda
attore.

erano due, di cui una non aveva subito alcuna trasformazione e la

I due motivi – che per contiguità argomentativa vanno esaminati
congiuntamente – non possono trovare ingresso.
La Corte d’appello è giunta a giudicare tardiva la contestazione
relativa all’accessibilità della soletta, circostanza che ad avviso dei
ricorrenti aveva determinato la creazione di un balcone di affaccio,
sulla base della considerazione che si trattava di una deduzione
nuova, oltre a ritenere – nel merito – manifestamente infondata la
relativa domanda.
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Osserva il Collegio che a sostegno delle tesi difensive – con le quali
gli appellati chiedevano la conferma della sentenza di primo grado
(che aveva accolto le loro domande quanto alle due aperture, nulla
pronunciando sull’asserita creazione di un balcone) – gli stessi si
erano limitati a resistere ai motivi di appello, pacifico che gli
originari attori/appellati non abbiano proposto appello incidentale
sulla (anche se omessa) pronuncia alla richiesta di regolarizzazione

conclusionale in primo grado.
Di fronte all’omesso esame di un qualsiasi profilo della domanda,
l’unico modo in cui gli attori potevano ottenere che la relativa
questione rimanesse sub iudice era l’appello incidentale, perché
quella omissione pertinente ad una specifica ed autonoma porzione
della loro domanda, rappresentava una parte della sentenza ai
sensi dell’art. 329, secondo comma, c.p.c. che doveva essere
criticata per essere ridiscussa dal giudice d’appello e ciò perché
rappresentante un decisum di essa. Come tale ridiscutibile appunto
solo con l’esercizio del diritto di impugnazione e ciò ancorché i
Todisco – Minerva fossero vittoriosi nell’esito finale della lite e
soccombenti solo rispetto a detta domanda.
Infatti, non viene evidenziata una pronuncia al riguardo del giudice
di primo grado, nonostante l’asserita proposizione di detta
domanda, per cui a fronte di omissione di qualsivoglia decisione
sulla stessa, è evidente che la sentenza del tribunale risultava
affetta dalla violazione della previsione di cui all’articolo 112 c.p.c..
In tal senso non appare sufficiente limitarsi ad insistere nelle
proprie difese di primo grado per ritenere riprodotta la richiesta
non esaminata da parte del giudice di primo grado, sicché va
rilevata l’inammissibilità della domanda attorea sotto detto profilo.
Non controverso quanto precede, è di palmare evidenza che,
nonostante i giudici del gravame non abbiano minimamente
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della soletta in contestazione, formulata con la comparsa

affrontato la questione, avrebbero dovuto escludere la
esaminabilità della domanda non reiterata, in grado di appello, e
d’altro canto la stessa non poteva essere disposta di ufficio,
rientrando nell’autonomia delle parti disporre dei propri diritti,
soprattutto in sede di impugnazione il cui giudizio non può più dirsi,
come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione
impugnata enovum judiciumbig, ma ha assunto le caratteristiche di

senso conforme Cass. Sez. Un. n. 28498 del 2005; di recente, /k–Cass. Sez. Un. n. 11799 del 2017).
Ne consegue che poiché il giudizio di appello mira ad una revisione
in chiave critica dell’operato del giudice di primo grado, del quale
deve essere evidenziata l’erroneità sia nella corretta applicazione
delle norme che regolano il processo, sia nella concreta attività
valutativa dei fatti di causa, sia nella corretta applicazione delle
norme di diritto, la critica deve essere necessariamente veicolata
mediante la specifica formulazione di un motivo di gravame, in
ossequio al dettato dell’art. 342 c.p.c. ovvero dell’art. 329 c.p.c., di
modo che, anche il vizio di omessa pronuncia, deve costituire
oggetto di un puntuale motivo di appello, con il quale si segnali
l’errore commesso dal giudice di primo grado, sebbene la
specificazione delle ragioni poste a fondamento del motivo possa
esaurirsi nell’evidenziare la mancata adozione in sentenza di una
decisione sulla domanda ritualmente proposta. Solo a tali
condizioni, e cioè imponendosi che le critiche alla sentenza
impugnata trovino formale esplicitazione in un espresso motivo di
impugnazione, è possibile assicurare che il giudizio di appello
conservi la natura di revisio prioris instantiae.
Giusta quanto osservato si deve rilevare l’inammissibilità della
censura per non essere stata riproposta con appello incidentale la
domanda attorea relativa alla dedotta creazione di un balcone. Con
la conseguenza che non è predicabile in questa sede l’esaurimento
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una impugnazione a critica vincolata (‘revisiqprioris instantiae’) (in

della potestas iudicandi del giudice di appello, giacché sulla
decisione di primo grado di rigetto di siffatta domanda si era già
formato il giudicato.

Conclusivamente, il ricorso, nella riscontrata infondatezza dei

condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio, liquidate come in dispositivo.
Sussistono le condizioni per il raddoppio del contributo unificato,
sempre a carico della parte ricorrente, soccombente, ai sensi
dell’art. 13. comma 1 -quater D.P.R. n. I 15/02, inserito dall’art. 1,
comma 17 legge n. 228/12.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso;
condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese processuali
in favore della controricorrenti che liquida in complessivi C
3.200,00, di cui C 200,00 per esborsi„ oltre spese forfettarie nella
misure del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qualer D.P.R. n. 115/02, inserito
dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/12, dichiara la sussistenza dei
presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda
sezione civile della Corte di Cassazione, il 14 novembre 2017.

Il Presidente

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motivi articolati per suffragarlo, deve essere rigettato, con

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DEPOSITATO IN CANCELLERIA

09 AGO, 2018

Roma,

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