Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20670 del 20/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 20/07/2021, (ud. 28/04/2021, dep. 20/07/2021), n.20670

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Mar – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCITO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. GALATI Vincen – rel. Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 3045 del ruolo generale dell’anno 2018

proposto da:

STANLEYBET MALTA LIMITED in persona del suo legale rappresentante pro

tempore rappresentata e difesa giusta delega in atti dall’avv.

Daniela Agnello e con domicilio eletto in Roma presso lo studio

dell’avv. Roberta Feliziani in via Crescenzio n. 269;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 3681/18/17 della Commissione tributaria

regionale del Lazio – Sez. Latina depositata il 20.06.2017, non

notificata;

udita nella camera di consiglio del 28.4.2021 la relazione svolta dal

consigliere Vincenzo Galati.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con la sentenza in epigrafe la Commissione tributaria regionale del Lazio ha rigettato l’appello della contribuente e quindi confermato la sentenza di primo grado che ha dichiarato la legittimità dell’atto impugnato, avviso di accertamento relativo al mancato assolvimento dell’imposta unica sui concorsi pronostici e scommesse di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998, oltre a sanzioni ed interessi, per operazioni svoltesi nell’anno 2009.

L’avviso di accertamento è stato notificato alla contribuente in qualità di coobbligata in solido di D.S.M., già titolare dell’omonima ditta individuale, ora cessata.

La CTR ha rigettato, preliminarmente, le eccezioni relative alla mancata notifica del PVC stante la sua genericità ed alla mancata allegazione degli atti prodotti nella fase endoprocedimentale dalla contribuente, con particolare riferimento alla risposta al questionario.

Nel merito, l’appello è stato respinto ritenendo che:

la fattispecie in esame è disciplinata dal D.Lgs. n. 504 del 1998, che, all’art. 3, comma 1, individua quali soggetti passivi dell’imposta unica coloro che gestiscono, anche in concessione, i concorsi pronostici e le scommesse, nonché dalla successiva norma interpretativa di cui alla L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), secondo cui soggetto passivo dell’imposta è chiunque, anche se in assenza o in caso di inefficacia della concessione, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere, sicché, anche nel caso di svolgimento di attività di raccolta scommesse mediante un intermediario da parte di bookmaker estero che operi privo di concessione, come nel caso di specie, sussiste la responsabilità del medesimo in caso di omesso pagamento dell’imposta unica;

l’attività del ricevitore e quella del bookmaker sono da ricondursi ad una fattispecie da valutarsi nel suo complesso, essendo finalizzate ad una operazione economica unitaria, consistente nella raccolta e organizzazione delle scommesse;

sussistono, nella fattispecie, sia il presupposto oggettivo che quello soggettivo dell’imposta ed è rispettato il criterio della territorialità;

sono da escludersi ragioni di contrasto con i principi costituzionali o unionali.

2. Avverso la sentenza di secondo grado, la società ha quindi proposto ricorso per cassazione, affidato ad otto motivi di censura, con contestuale istanza di rinvio alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, comma 2, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane e dei monopoli depositando controricorso, illustrato con successiva memoria.

3. La società ha altresì depositato memoria e formulato istanza di trattazione della causa alla pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va disattesa l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza.

In adesione all’indirizzo espresso dalle sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Cass., Sez. U, 5 giugno 2018, n. 14437), e non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Cass., Sez. U, n. 8093 del 23 aprile 2020).

In particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sé, anche con la statuizione su questioni nuove soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce il proprio contributo.

1.1. Nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti da un lato dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e dall’altro da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa alla Stanleybet Malta Limited); e i principi da quelle Corti stabiliti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito.

1.2. Così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere preferibile la scelta del procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480);

1.3. Ne’ la giurisprudenza penale di questa Corte richiamata nell’istanza di rimessione alla pubblica udienza è idonea a incrinare i principi in questione, per le ragioni di seguito esplicate.

1.4. Infine, quanto al profilo delle esigenze difensive, che pure si affacciano nell’istanza, va anzitutto nuovamente sottolineato che, in conformità alla giurisprudenza sovranazionale, il principio di pubblicità dell’udienza, pur previsto dall’art. 6 CEDU, e avente rilievo costituzionale, non riveste carattere assoluto e vi si può derogare in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (in particolare, Corte Cost. 11 marzo 2011, n. 80); in ogni caso, queste esigenze sono anche in concreto presidiate, perché le parti hanno illustrato le proprie rispettive posizioni in esito alle pronunce della Corte costituzionale e della Corte di giustizia depositando osservazioni scritte.

2. Va affrontata la questione di cui al primo motivo circa la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, nonché degli artt. 24 e 97 Cost., per non avere la CTR dichiarato l’illegittimità dell’avviso di accertamento per omessa traduzione dell’atto impositivo in lingua inglese, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’assunto della ricorrente è infondato.

Risulta dalla sentenza impugnata come la contribuente, ancorché soggetto non residente privo di stabile organizzazione in Italia (per quanto nulla si dica in atto in ordine alla conoscenza o meno della lingua italiana da parte dei propri amministratori, circostanza che andava quantomeno dedotta dal contribuente), abbia in concreto nei gradi del merito svolto le sue articolate difese, contestando la pretesa tributaria azionata con l’atto impugnato.

Con ciò, parte ricorrente ha dimostrato di avere adeguatamente compreso le ragioni di fatto e di diritto poste alla base dell’atto impugnato, le cui motivazioni sono state prima comprese e poi contestate di fronte ai precedenti giudici.

Questa Corte, in argomento, ha già ritenuto in fattispecie analoga (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26407 del 19/10/2018) che il vizio dell’atto impositivo emesso in lingua italiana nei confronti di soggetto appartenente alla minoranza linguistica tedesca privo dell’informazione sul diritto di sollevare eccezione di nullità per la mancata traduzione ai sensi del D.P.R. n. 574 del 1988, art. 8, è in concreto sanato ove il destinatario abbia comunque promosso, in sede amministrativa o giurisdizionale, un procedimento volto alla difesa dei propri diritti.

3. Il secondo motivo attiene alla violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente ritenuto il CTD soggetto passivo del tributo.

3.1. Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 288 del 1998, art. 1, comma 2, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR errato nel ravvisare il presupposto territoriale del tributo.

3.2. Con il quarto motivo viene denunciata violazione e/o falsa applicazione dell’art. 49 e 56 TFUE, e dei principi unionali di parità di trattamento e di non discriminazione, nonché del principio del legittimo affidamento con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla L. di stabilità per il 2011, art. 1, comma 66, per non aver la CTR disapplicato il D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3.

3.3. Con il sesto motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost., nonché del principio dell’equo processo di cui alla Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, art. 6, e dell’art. 117 Cost., comma 1, con riferimento alla L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

3.4. Le questioni, in quanto connesse tra di loro e tutte dirette a colpire aspetti tra di loro strettamente collegati del tributo sono suscettibili di essere esaminate congiuntamente; esse sono già state oggetto di ripetuta e articolata disamina da parte di questa Corte a partire dalla sentenza n. 8757 del 30 marzo 2021, seguita da numerose altre (tra le tante Cass. n. 8907-8911 del 2021, Cass. n. 9079-9081 del 2021, Cass. n. 9144-9153 del 2021, Cass. n. 9160 del 2021, Cass. n. 9162 del 2021, Cass. n. 9168 del 2021, Cass. n. 9176 del 2021, Cass. n. 9178 del 2021, Cass. n. 9182 del 2021, Cass. n. 9184 del 2021, Cass. n. 9160 del 2021, Cass. n. 9516 del 2021, Cass. n. 9528-9537 del 2021, Cass. n. 9728-9735 del 2021), le cui motivazioni sono qui espressamente condivise e richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c..

Anche a prescindere dai profili di inammissibilità di quelle doglianze che sono in concreto articolate sulla posizione del CTD anziché su quella del bookmaker, i motivi sono infondati.

Va premesso come sin dalle origini il tributo sui giochi e le scommesse che è frutto del percorso evolutivo iniziato con la tassa di lotteria (D.Lgs. 14 aprile 1948, n. 496, art. 6), è stato pensato in relazione alle “attività di gioco”: già nella relazione ministeriale al disegno di legge istitutivo dell’imposta unica n. 2033 presentato il 15 giugno 1951, si leggeva, quanto ai giochi riservati al CONI e all’UNIRE, che questi “…debbono allo Stato, per l’esercizio delle attività di giuoco predette, la corresponsione di una tassa di lotteria…”.

Sicché il presupposto dell’imposizione non è stato correlato alla giocata in sé, ma alla prestazione di un servizio, che e’, appunto, il servizio di gioco.

Il prelievo colpisce dunque il prodotto che è offerto al consumatore tramite l’organizzazione dell’attività, sotto forma di servizio.

E proprio queste ragioni di ordine storico e sistematico innervano il quadro normativo odierno, che è articolato nei termini di seguito illustrati.

Conformemente al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 1, volto al riordino dell’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse, a norma della L. n. 288 del 1998, art. 1, comma 2, l’imposta unica è dovuta per i concorsi pronostici e le scommesse di qualunque tipo, relativi a qualunque evento, anche se svolto all’estero; il suddetto D.Lgs. n. 504 del 1988, art. 3, intitolato ai soggetti passivi, stabilisce che “soggetti passivi dell’imposta unica sono coloro i quali gestiscono, anche in concessione, i concorsi pronostici e le scommesse”.

A norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, “(…) a) (…) l’imposta unica (…) è comunque dovuta ancorché la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal ministero dell’economia e delle finanze – amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) il D.Lgs. (n. 504 del 1998), art. 3, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorché in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal ministero dell’economia e delle finanze – amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”.

Si osserva poi che il D.M. economia e finanze 10 marzo 2006, n. 111, art. 16, prevede che il concessionario effettui il pagamento delle somme dovute a titolo di imposta unica.

Inoltre, ai sensi della L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 644, lett. g), l’imposta unica si applica “su di un imponibile forfetario coincidente con il triplo della media della raccolta effettuata nella provincia ove è ubicato l’esercizio o il punto di raccolta, desunta dai dati registrati nel totalizzatore nazionale per il periodo d’imposta antecedente a quello di riferimento”.

Il quadro normativo descritto è stato sottoposto all’esame e della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nel ricorso in esame; il che, ulteriormente, esclude la necessità della trattazione relativa in pubblica udienza, poiché non residuano profili di particolare rilevanza.

Quanto “all’ambito soggettivo dell’imposta”, affrontato dal secondo motivo di ricorso, la Corte costituzionale ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio); ma ha riconosciuto che il legislatore con la L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, da un canto ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio e, d’altro canto, ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti per conto di bookmakers privi di concessione al versamento del tributo e delle relative sanzioni.

A questo riguardo ha escluso che l’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (ossia del titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (ossia al bookmaker) sia irragionevole.

Entrambi i soggetti, difatti, ha sottolineato quella Corte, partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione.

In particolare, ha rimarcato, il titolare della ricevitoria, benché non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perché assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonché del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker.

Sicché, ha specificato, l’attività gestoria che costituisce il presupposto dell’imposizione va riferita alla raccolta delle scommesse, il volume delle quali determina anche la provvigione della ricevitoria e per conseguenza il suo stesso rischio imprenditoriale.

Ne’, ha aggiunto la Corte costituzionale, la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione viola il principio di capacità contributiva, nei limiti in cui il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi e il bookmaker sia disciplinato da un contratto che regoli anche le commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato.

Ciò perché attraverso la regolazione delle commissioni il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera.

In ogni caso, poi, della sussistenza (evidente in questo caso) di autonomi rapporti obbligatori – che ai fini tributari sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente – non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte, la quale, sia pure con riguardo al gioco del lotto, ha chiarito, appunto, che sono due i rapporti obbligatori, quello concluso tra lo scommettitore e il raccoglitore e quello che si instaura tra lo scommettitore ed il gestore (Cass. 27 luglio 2015, n. 15731).

E la stessa giurisprudenza penale citata nella memoria da ultimo depositata dalla contribuente (ossia Cass. 9 luglio 2020, n. 25439) evidenzia la rilevanza dei ruoli del ricevitore appartenente alla rete distributiva del bookmaker, consistente nella “…raccolta e trasmissione delle scommesse per conto di quest’ultimo, rilasciando le ricevute emesse dal terminale di gioco – con le annesse attività di incasso delle poste e di pagamento delle eventuali vincite – …”.

Per conseguenza la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 504 del 1998, e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), nella sola parte in cui prevedono che, nelle annualità d’imposta precedenti al 2011, siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione.

In quel periodo non si può difatti procedere alla traslazione dell’imposta, perché l’entità delle commissioni già pattuite fra ricevitorie e bookmaker si era già cristallizzata sulla base del quadro precedente alla L. n. 220 del 2010 (Corte Cost. 23 gennaio 2018, n. 27).

La Corte ha anche chiarito (punto 4.5) che, in mancanza di regolazione degli effetti transitori e in considerazione della natura interpretativa della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), la disposizione va applicata anche ai rapporti negoziali perfezionatisi prima della sua entrata in vigore.

Ne consegue anzitutto che per le annualità d’imposta antecedenti al 2011 non rispondono le ricevitorie, ma rispondono i bookmaker con o senza concessione; qui non è peraltro oggetto di ricorso la posizione del CTD.

Per il resto, le censure complessivamente considerate sono infondate.

E’ infondato il secondo motivo di ricorso, col quale si assume che la funzione gestoria postuli l’assunzione del rischio d’impresa, l’esercizio della funzione decisionale e organizzatoria in ordine alla fissazione degli eventi oggetto di scommessa, delle quote e dei criteri di accettazione e la titolarità del rapporto giuridico di scommessa con lo scommettitore, in base alle considerazioni che precedono in ordine all’accezione di gestione del ricevitore, come illustrata da Corte Cost. n. 27/18.

E’ infondato il terzo, col quale si fa leva, in relazione al ricevitore, sulla conclusione del contratto di scommessa, perché il fatto imponibile è la prestazione di servizi consistente nell’organizzazione del gioco da parte del ricevitore e nella raccolta delle scommesse, che consiste, in relazione a ciascun scommettitore, nella valida registrazione della scommessa, documentata dalla consegna allo scommettitore della relativa ricevuta (così Cass. n. 15731 del 2015, cit.); attività, queste, tutte svolte in Italia.

E’ infondato il quarto motivo di ricorso, che denuncia profili di censura riguardanti frizioni col diritto unionale; qui l’infondatezza emerge dalla giurisprudenza della CGUE.

Al riguardo, giova premettere che le imposte sui giochi d’azzardo non hanno natura armonizzata; sicché i giochi d’azzardo rilevano, ai fini del diritto sovraordinato, in relazione alle norme concernenti la libera prestazione di servizi presidiata dall’art. 56 TFUE (Corte giust. 26 febbraio 2020, causa C-788/18, punto 17).

Inoltre, nel settore dei giochi d’azzardo con poste in danaro, secondo costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione dell’incitamento a una spesa eccessiva collegata al gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale costituiscono motivi imperativi d’interesse generale atti a giustificare restrizioni alla libera prestazione di servizi: per conseguenza, in assenza di un’armonizzazione unionale della normativa sui giochi d’azzardo, ogni Stato membro ha il potere di valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in questione implica, a condizione che le restrizioni non minino i requisiti di proporzionalità (Corte giust. 24 ottobre 2013, causa C-440/12, punto 47; 8 settembre 2009, causa C-42/07).

Non solo: gli Stati membri non hanno l’obbligo di adeguare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio della rispettiva competenza fiscale (Corte giust. in causa C-788/18, cit., punto 23; per analogia, Corte giust. 1 dicembre 2011, causa C-253/09, punto 83); in questo contesto la normativa italiana, si anticipava, ha superato il vaglio della giurisprudenza unionale.

La Corte di giustizia ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri, perché l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza distinzione alcuna in funzione del luogo in cui essi sono stabiliti (punto 21 di Corte giust. in causa C-788/18), di modo che la normativa italiana “non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la Stanleybet Malta, nello Stato membro interessato”.

Ne’ sussiste alcuna incongruenza tra i punti 17, 26 e 28 della sentenza resa dalla Corte di giustizia nella causa C- 788/18, cit..

Col punto 17, in relazione al bookmaker, ci si limita a stabilire in via generale che la libera prestazione di servizi non tollera restrizioni idonee a vietare, ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro; ma col punto 24 si specifica, in concreto, che la normativa italiana “non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la Stanleybet Malta, nello Stato membro interessato”.

Quanto al centro trasmissione dati, col punto 26 ci si limita a ribadire che il bookmaker estero esercita un’attività di gestione di scommesse “allo stesso titolo degli operatori di scommesse nazionali” ed è per questo che il centro di trasmissione dati che opera quale suo intermediario risponde dell’imposta, a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b).

Ma ciò non toglie, si aggiunge col punto 28, che la situazione del centro trasmissione dati che trasmette i dati di gioco per conto degli operatori di scommesse nazionali è diversa da quella del centro trasmissione che li trasmette per conto di un operatore che ha sede in altro Stato membro.

La statuizione è chiara.

La diversità della situazione è in re ipsa, per il fatto stesso che si tratta di soggetto che raccoglie scommesse per conto di un bookmaker estero, tenuto conto, come puntualmente rimarcato dalla Corte di giustizia, degli obiettivi perseguiti dal legislatore italiano, tra i quali si colloca, come si è visto, oltre alle azioni di tutela sopra richiamate, anche quella di recupero di base imponibile e gettito, a fronte dei fenomeni di elusione e di evasione fiscale.

In questo contesto, il ricorso al sistema delle concessioni costituisce “…un meccanismo efficace che consente di controllare gli operatori attivi in questo settore, allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti” (Corte giust. 19 dicembre 2018, causa C-375/17, Stanley International Betting e Stanleybet Malta, punto 66, richiamata al punto 18 della sentenza in causa C788/18, cit.; coerente, nella giurisprudenza interna, Cass., sez. un., 29 maggio 2019, n. 14697, punto 10).

Di qui l’esclusione, anche con riguardo alla posizione del centro trasmissione dati, di qualsiasi restrizione discriminatoria e di pregiudizio della libertà di prestazione di servizi.

Risulta quindi infondato anche il motivo di ricorso, col quale si propongono le questioni di parità di trattamento e non discriminazione già risolte dalla Corte di giustizia, e si denuncia la violazione del principio di legittimo affidamento.

Quanto a quest’ultimo principio, in particolare, se ne prospetta la violazione in relazione alla portata innovativa della disposizione interpretativa della legge del 2010 che avrebbe introdotto, “improvvisamente e imprevedibilmente”, la responsabilità delle ricevitorie dei bookmaker privi di concessione.

Nessun legittimo affidamento e’, invece, configurabile, proprio perché la Corte costituzionale ha stabilito che con la disposizione interpretativa in questione “il legislatore ha dunque esplicitato una possibile variante di senso della disposizione interpretata”.

In questo quadro, la giurisprudenza penale di questa Corte citata in memoria, già dinanzi richiamata, è irrilevante.

Essa si riferisce difatti alla diversa questione della rilevanza penale dell’attività d’intermediazione e di raccolta delle scommesse, che questa Corte ha escluso, in base alla giurisprudenza unionale, qualora l’attività di raccolta sia compiuta in Italia da soggetti appartenenti alla rete commerciale di un bookmaker operante nell’ambito dell’Unione Europea che sia stato illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni: e ciò perché in tal caso rileva la non conformità agli artt. 49 e 56 TFUE, del regime concessorio interno.

Difatti, ha sottolineato questa Corte con la sentenza in questione, “In forza dei principi affermati dalla Corte di giustizia…, il mancato rispetto della disciplina amministrativa che non sia conforme al diritto dell’Unione Europea non può comportare l’applicazione di sanzioni penali”.

Ma il fatto che non si risponda del reato di esercizio abusivo di attività di giuoco o di scommessa, previsto e punito dalla L. n. 401 del 1989, art. 4, commi 1 e 4-bis, nessuna influenza produce sulla soggettività passiva della imposta unica sulle scommesse, che il D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, riferisce a chiunque, con o senza concessione, gestisce i concorsi pronostici o le scommesse.

Non si ravvisa quindi necessità alcuna di promuovere dinanzi alla Corte di giustizia le questioni sollecitate in ricorso che, per un verso, si risolvono in una critica della sentenza resa nella causa C-788/18, che si rivela sterile per le ragioni esplicate, e, per altro verso, quanto all’insistenza sulla discriminazione e sulla pretesa contraddizione con la giurisprudenza unionale pregressa, sembra postulare che la Corte di giustizia abbia in precedenza riconosciuto in generale la legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei centri di trasmissione dati.

Laddove, come quella stessa Corte ha sottolineato, essa, “…pur avendo constatato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di alcune disposizioni delle gare avviate per l’attribuzione di contratti di concessione di servizi connessi ai giochi d’azzardo, non si è pronunciata sulla legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei CTD in quanto tale” (Corte giust., in causa C-375/17, cit., punto 67).

Il che appunto esclude qualsiasi profilo di contraddizione.

E ancora, ha sottolineato quella Corte, la situazione di un centro di trasmissione dati che raccoglie scommesse per conto di una società che ha sede in un altro Stato membro non è analoga a quella degli operatori nazionali: di qui l’esclusione di ogni restrizione discriminatoria della normativa che esclude che i centri di trasmissione dati che agiscono per conto degli operatori di scommesse nazionali siano soggetti al pagamento in solido dell’imposta.

E’ pure infondato, complessivamente, anche il sesto motivo sia nella parte in cui si fa leva sui principi di uguaglianza e di ragionevolezza delle leggi, già esaminati da Corte Cost. n. 27/18 che ne ha esclusa in concreto la violazione nella fattispecie in esame, sia laddove si prospetta l’incompatibilità dell’interpretazione retroattiva della norma interpretativa contenuta nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, con i principi dell’equo processo stabiliti dall’art. 6 CEDU, e con il principio di cui all’art. 117 Cost., ancora in base alla decisione di Corte Cost. n. 27/18 e alle considerazioni che la sorreggono.

In particolare, sul punto, la ricorrente ha evidenziato (richiamando sentenze CEDU a pag. 101 dell’atto introduttivo) che occorre che l’intervento legislativo con effetti retroattivi sia sorretto da motivi imperativi d’interesse generale.

Nel caso in esame sussiste il motivo imperativo, proprio delle leggi interpretative, di sciogliere incertezze, giacché, come già detto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 27/18, ha appunto riconosciuto alla L. n. 220 del 2010, la funzione di risolvere l’incertezza inerente all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3.

Il motivo è infondato anche ove si sostiene che sia compatibile con il principio della capacità contributiva solo un meccanismo di imposizione che consenta di far gravare sui soli scommettitori l’onere del tributo, in quanto, è il meccanismo di traslazione dell’imposta tra ricevitori e bookmaker a garantire l’osservanza del principio in questione.

3.5. In relazione ai profili approfonditi in sede di memoria, relativi alle ritenute frizioni con il diritto unionale si osserva quanto segue.

Il profilo centrale della linea difensiva seguita si fonda, in sostanza sul riconoscimento della liceità dell’attività svolta nel tempo dalla ricorrente, come riconosciuta dalla giurisprudenza penale di questa Corte il che, secondo l’assunto di parte ricorrente, comporterebbe effetti anche sul piano strettamente fiscale e, inoltre, dovrebbe indurre a ritenere che la Corte di giustizia, con la pronuncia del 26 febbraio 2020, non avrebbe preso in considerazione la specificità della “peculiare posizione” nella quale la ricorrente si sarebbe venuta a trovare basata sulla illegittima ed originaria discriminazione dalla stessa subita nel tempo dall’autorità nazionale.

La linea difensiva seguita dalla ricorrente, più in particolare, si fonda sulla considerazione della natura sanzionatoria dell’intervento normativo di cui alla L. n. 220 del 2010, sicché la disciplina in esso contenuta troverebbe applicazione solo con riferimento allo svolgimento di una attività di gioco illecita, dunque non anche nei confronti della ricorrente, con la conseguenza che, ove applicata nei propri confronti, deriverebbe una violazione del principio di non discriminazione, della parità di trattamento nonché di legittimo affidamento e di libertà di stabilimento, determinando, inoltre, un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità, tra le sezioni civili e quelle penali, in ordine alla questione.

E’ priva di ogni fondamento sia l’asserita assimilazione dell’imposizione alle sanzioni, ipotizzandone una oggettiva finalità afflittiva, che, invece, è del tutto assente attesa la riferibilità della pretesa ad ordinari, seppur specifici, meccanismi impositivi l’assenza, come su evidenziato, di caratteri discriminatori, sia la prospettata esistenza di un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione.

La ricorrente, infatti, è considerata soggetto passivo d’imposta proprio per avere realizzato, per il tramite di propri centri di trasmissione dati operanti in Italia, il presupposto impositivo dell’imposta in esame.

La giurisprudenza penale di questa Corte (la già citata Cass. n. 25439 del 2020), poi, ha esaminato la questione relativa alla realizzazione del reato di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4-bis, ritenendo di dovere escludere la sussistenza del reato de quo in base alla considerazione che la ricorrente era stata “illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni…e la successiva trasmissione di dette scommesse all’allibratore non possono essere punite ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4-bis, dovendosi disapplicare la disciplina penale nazionale per contrasto con la normativa dell’Unione Europea”.

Il riconoscimento della natura non illecita dell’attività svolta dalla ricorrente, tuttavia, non implica la sottrazione della stessa dall’ambito della disciplina dell’imposta unica, anzi, postula proprio la realizzazione del presupposto di imposta, secondo la specifica declinazione contenuta nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, che ha, come visto, disposto che: “Ferma restando l’obbligatorietà, ai sensi della legislazione vigente, di licenze, autorizzazioni e concessioni nazionali per l’esercizio dei concorsi pronostici e delle scommesse, e conseguentemente l’immediata chiusura dell’esercizio nel caso in cui il relativo titolare ovvero esercente risulti sprovvisto di tali titoli abilitativi, ai soli fini tributari: a) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 1, si interpreta nel senso che l’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse è comunque dovuta ancorché la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 3, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorché in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”.

L’applicabilità della previsione normativa in esame esclude altresì che possa porsi una questione di violazione del principio di non discriminazione o di libertà di stabilimento, secondo quanto ulteriormente esposto in memoria, basata sulla considerazione della natura lecita dell’attività svolta, ovvero ancora che possa ritenersi che la Corte di Giustizia, con la pronuncia citata non abbia preso in considerazione la “specifica situazione” nella quale la ricorrente ha dovuto operare.

A parte il rilievo che il pregiudizio subito risulta solo affermato, ma non concretamente precisato e specificato, quel che rileva è il fatto che la ricorrente, per il fatto di avere realizzato in Italia l’attività di gestione della raccolta delle scommesse per il tramite di propri centri di trasmissione dati, ha realizzato il presupposto dell’imposta e, dunque, è da considerarsi soggetto passivo del tributo e, sotto tale profilo, va fatto richiamo alla pronuncia della Corte di giustizia che, sul punto, ha escluso ogni violazione dei principi unionali citati.

4. Inammissibile, oltre che infondato, il quinto motivo di ricorso.

Con esso si censura la sentenza della CTR per non avere pronunciato sull’eccezione di violazione e/o falsa applicazione della Dir. n. 2006/112/CE, art. 401, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e conseguente violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c..

I giudici di appello non si sarebbero pronunciati sulla richiesta di disapplicazione della disciplina di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998, in ragione della sua contrarietà al divieto di mantenere o introdurre imposte sul volume d’affari diverse dall’imposta sul valore aggiunto armonizzata.

In primo luogo si rileva che la censura difetta del requisito di autosufficienza non essendo stato indicato in quale atto ed in quali termini la questione sarebbe stata devoluta alla cognizione dei giudici di appello.

E’ orientamento pacifico quello secondo cui “e’ inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte” (Cass. sez. 2, 20 agosto 2015, n. 17049).

Il motivo e’, altresì, infondato nel merito.

Il tributo che qui rileva è differente da una imposta sulla cifra di affari per plurime ragioni: riguarda unicamente operazioni relative all’esercizio delle scommesse, irrilevanti a fini IVA; non tiene conto del valore aggiunto di ciascuna, difettando nel sistema il meccanismo della detrazione IVA e applicandosi il tributo all’importo scommesso; è calcolata senza alcun riconoscimento di deduzione degli acquisti di beni e servizi inerenti effettuati nel periodo in cui sono poste in essere le operazioni di scommessa.

Non rilevano quindi i soli fatti consistenti nella proporzionalità, nell’esser riscossa a ogni fase e nella sua traslazione in capo al consumatore, evidenziati in ricorso, anche perché (come con evidente contraddizione logica e giuridica si ammette nel ricorso per cassazione) proprio la disciplina IVA che si cita da parte del ricorrente, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 2, proclama esenti dal tributo armonizzato le operazioni in parola con ciò evitando il concorrere di due imposte sul medesimo volume d’affari.

Effetto del tutto risolutivo e dirimente ha sul punto, il chiaro dictum del Giudice Unionale (CGUE, sent. n. 24 ottobre 2013 in causa n. C-440/2012), Metropol Spielstàtten Unternehmergesellschaft (haftungsbeschrankt) secondo il quale “in forza della Dir. IVA, art. 401, “le disposizioni di (tale) direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte (…) sui giochi e sulle scommesse, (…) e qualsiasi imposta, diritto o tassa che non abbia il carattere di imposta sul volume d’affari (…)”. La formulazione di tale articolo non osta, pertanto, a che gli Stati membri assoggettino un’operazione all’IVA, nonché, in modo cumulativo, a un tributo speciale non avente il carattere d’imposta sul volume d’affari (v., in tal senso, la sentenza dell’8 luglio 1986, Kerrutt, 73/85, Racc. pag. 2219, punto 22)”.

Secondo la ridetta pronuncia, quindi, la Dir. del Consiglio, del 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, art. 401, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, in combinato disposto con la stessa, art. 135, par. 1, lett. i), deve essere interpretato nel senso che l’imposta sul valore aggiunto e un tributo speciale nazionale sui giochi d’azzardo possono essere riscossi in modo cumulativo, a condizione che siffatto ultimo tributo non abbia il carattere di un’imposta sul volume d’affari; inoltre, sempre secondo tal sentenza, la Dir. n. 112 del 2006, art. 1, par. 2, prima frase, e art. 73, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una disposizione o a una prassi nazionale secondo cui, per la gestione di apparecchi per giochi d’azzardo con possibilità di vincita, l’importo dei proventi di cassa di tali apparecchi dopo che è trascorso un determinato periodo di tempo viene considerato come base imponibile.

5. Con l’ottavo motivo la contribuente censura la sentenza per violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 12 e 15, degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere la CTR disposto la liquidazione delle spese in favore dell’Agenzia rappresentata in giudizio da un proprio funzionario delegato e per non avere disposto la compensazione delle spese.

Per quanto riguarda il primo profilo, si osserva che va assicurata continuità all’orientamento secondo cui “in tema di contenzioso tributario, all’Amministrazione finanziaria (nella specie, l’Agenzia delle Dogane) assistita in giudizio dai propri funzionari, in caso di vittoria nella lite, spetta, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15, comma 2-bis, la liquidazione delle spese che va effettuata applicandosi la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato, quale rimborso per la sottrazione di attività lavorativa dei funzionali medesimi, utilizzabile altrimenti in compiti interni di ufficio e tenuto conto dell’identità della prestazione professionale profusa dal funzionario rispetto a quella del difensore abilitato” (Cass. sez. 5, 23 novembre 2011, n. 24675, conforme Cass. sez. 5, 17 settembre 2019, n. 23055).

Infondato il motivo relativo alla mancata compensazione delle spese avendo fatto applicazione i giudici di appello dell’ordinario criterio della soccombenza.

A tale proposito si richiama l’orientamento consolidato in base al quale “in materia di procedimento civile, il sindacato di legittimità sulle pronunzie dei giudici del merito è diretto solamente ad evitare che possa risultare violato il principio secondo cui esse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, essendo del tutto discrezionale la valutazione di totale o parziale compensazione per giusti motivi, la cui insussistenza il giudice del merito non è tenuto a motivare” (Cass. sez. 6-3, 26 novembre 2020, n. 26912).

6. Fondato il settimo motivo con il quale la contribuente ha dedotto violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, della L. n. 472 del 1997, art. 5, commi 1 e 6, e della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la CTR applicato l’esimente dell’obiettiva condizione di incertezza.

Secondo questa Corte, l’incertezza normativa oggettiva tributaria “e’ caratterizzata dall’impossibilità d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile, e va distinta dalla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto (il cui accertamento è demandato esclusivamente al giudice e non può essere operato dall’amministrazione), come emerge dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, che distingue le due figure, pur ricollegandovi i medesimi effetti. Peraltro, il fenomeno dell’incertezza normativa oggettiva può essere desunto dal giudice attraverso la rilevazione di una serie di “fatti indice”, quali ad esempio: 1) la difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) la mancanza di una prassi amministrativa o l’adozione di prassi amministrative contrastanti; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; 8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente” (Cass. 17 maggio 2017, n. 12301; Cass. 13 giugno 2018, n. 15452, Cass. 12 aprile 2019, n. 10313, Cass. 9 dicembre 2019, n. 32082).

Con riferimento al caso di specie, la sopra citata sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2018, nel ricostruire l’ambito applicativo del D.Lgs. n. 504 del 1988, art. 3, come interpretato autenticamente dalla L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, ha bensì affermato che, anche alla luce della disciplina previgente, soggetto passivo dell’imposta è anche chi svolge l’attività di gestione delle scommesse anche se privo di concessione, con conseguente responsabilità del bookmaker estero che, mediante un proprio intermediario, svolga l’attività di gestione delle scommesse pur se privo di concessione.

La stessa sentenza ha tuttavia anche evidenziato che “il tenore letterale della disposizione consentiva anche una diversa interpretazione, nel senso che, attraverso il richiamo contenuto nel D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 1, al rispetto della concessione e della licenza di pubblica sicurezza, essa contemplasse i soli soggetti operanti nel sistema concessorio (ad esclusione perciò dei bookmaker con sede all’estero, sforniti di titolo concessorio in Italia, e della rete delle ricevitorie di cui essi si avvalgono nel territorio italiano)” (punto 4.1.), dando poi atto del fatto che “con la disposizione interpretativa della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), il legislatore ha dunque esplicitato una possibile variante di sensi della disposizione interpretata” e che la stessa Agenzia autonoma dei monopoli di Stato aveva espressamente riconosciuto che la normativa in esame si prestava alla considerazione di incertezza applicativa (punto 4.1.).

In sostanza, la Corte costituzionale ha riconosciuto che la previsione contenuta nel D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, si prestava ad un duplice opzione interpretativa in ordine alla sussistenza o meno della individuazione della soggettività passiva del bookmaker estero che, mediante una ricevitoria operante nel territorio nazionale, avesse svolto l’attività di gestione delle scommesse senza concessione e che la disposizione interpretativa del 2010 è intervenuta al fine di esplicitare il contenuto della incerta previsione, orientando la scelta interpretativa nel senso della sussistenza della soggettività passiva.

La fattispecie, dunque, deve essere collocata nell’ambito della previsione di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, sussistendo, fino al momento della entrata in vigore della disciplina interpretativa del 2010, una condizione di obiettiva incertezza normativa in ordine alla soggettività passiva del bookmaker estero operante in Italia, mediante propri intermediari, senza concessione.

7. In conclusione, sono infondati i motivi dal primo al sesto e l’ottavo, mentre è fondato il settimo.

Il ricorso va dunque accolto limitatamente a tale motivo e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, dichiarando non dovute le sanzioni irrogate alla ricorrente.

La soccombenza parziale e, con riferimento a gran parte dei motivi di ricorso, l’intervento risolutore delle questioni ad opera della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia sia successivo alla proposizione del ricorso, giustificano la compensazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il settimo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie parzialmente l’originario ricorso della contribuente, dichiarando non dovute le sanzioni applicate; rigetta nel resto il ricorso; compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021

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