Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20656 del 07/10/2011

Cassazione civile sez. I, 07/10/2011, (ud. 14/07/2011, dep. 07/10/2011), n.20656

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. FIORETTI Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30171/2005 proposto da:

T.F. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA INNOCENZO XI 8, presso l’avvocato CASTELLANA

ORAZIO, rappresentato e difeso dall’avvocato SAVITO Tommaso, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE ATTIVITA’ PRODUTTIVE, in persona del Ministro pro

tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4343/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 11/10/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

14/07/2011 dal Consigliere Dott. ANDREA SCALDAFERRI;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato DANIELA GIACOBBE

(Avvoctura Generale) che ha chiesto l’inammissibilità o il rigetto

del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con delibera del dicembre 1991, comunicata all’interessato il 15 gennaio 1992, la Agensud, subentrata nei rapporti della Cassa per il Mezzogiorno soppressa con L. n. 317 del 1991, disponeva la revoca del contributo di L. 78.589.000, che era stato concesso dalla Cassa con provvedimento del 2 marzo 1982 in favore di T.F. in relazione alla spesa, complessivamente ammontante a L. 196.474.000, per la realizzazione di un nuovo impianto di carpenteria metallica.

Contestualmente alla revoca, motivata con il mancato rispetto delle clausole di cui all’art. 3 del provvedimento di concessione non avendo il beneficiario – sebbene invitato con nota del 5 marzo 1990 – fornito notizie circa lo stato di realizzazione del programma di investimento nè inviato documentazione giustificativa di spesa in relazione alla ultimazione, il T. veniva invitato a restituire entro sessanta giorni la somma di L. 46.716.000, percepita a titolo di acconti. L’ingiunzione di pagamento di tale somma (oltre accessori) emessa nel giugno 1997 a norma del R.D. n. 639 del 1910 nei confronti del T. veniva da questi fatta oggetto di opposizione dinanzi al Tribunale di Roma, eccependo la prescrizione del diritto e deducendo che l’immobile era stato ultimato e la pratica di finanziamento non era stata completata a causa della situazione deficitaria della Cassa per il Mezzogiorno, la quale non avrebbe potuto corrispondere il saldo. Il Tribunale, istruita la causa documentalmente, rigettava l’opposizione. L’appello proposto dal T., il quale ribadiva le argomentazioni sostenute in primo grado, veniva rigettato dalla Corte d’appello di Roma, che gravava l’appellante delle spese del grado. Rilevava la Corte: a) che dall’art. 3 del provvedimento di concessione si evince chiaramente come il contributo sia subordinato all’invio di idonea documentazione circa l’ultimazione dell’opera, all’evidente scopo di riscontrare che le opere finanziate con pubblici contributi siano effettivamente realizzate; b) che la misura della revoca della concessione figura espressamente menzionata nel medesimo art. 3; c) che la fissazione di un ulteriore termine per l’ultimazione dell’opera, una volta scaduto quello di ventiquattro mesi già fissato nel provvedimento, costituisce secondo la clausola stessa una facoltà discrezionale dell’Ente, che presuppone l’espletamento da parte del beneficiario dei suddetti obblighi informativi e di documentazione, al quale l’appellante si è sottratto per quasi otto anni dopo la scadenza del termine originariamente fissato, senza in ogni caso poter addurre a giustificazione la situazione dell’Ente concedente, soppresso nell’ottobre 1991 quando tale inadempimento era ormai definitivo e quindi il diritto a revocare il beneficio era già sorto; d) che, una volta concessa l’agevolazione, non è in facoltà del beneficiario, che ha ricevuto alcuni acconti, di scegliere di completare l’opera a proprie spese avvalendosi della parte già percepita del contributo, la cui unitarietà ne comporta invece la perdita ove il beneficiario stesso non dimostri l’ultimazione dell’opera e non giustifichi le spese ai fini del saldo; e) che infine il termine decennale di prescrizione del diritto alla restituzione degli acconti decorre dal momento in cui la relativa obbligazione diviene esigibile, e quindi dalla data della revoca del beneficio -dicembre 1991-, sì che la emissione della ingiunzione nel 1997 deve ritenersi ampiamente entro detto termine.

Avverso tale sentenza, resa pubblica in data 11 ottobre 2004, T.F. ha, con atto notificato il 22 novembre 2005, proposto ricorso a questa Corte affidato a tre motivi. Resiste il Ministero delle Attività Produttive con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il collegio ha disposto farsi luogo a motivazione semplificata.

2. Occorre innanzitutto esaminare il terzo motivo, con il quale il ricorrente censura la statuizione di rigetto della sua eccezione preliminare di prescrizione decennale, denunciando la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2946 e 2935 c.c., nonchè omessa e/o insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta decorrenza iniziale del termine ordinario di prescrizione dalla data della delibera di revoca del beneficio. Sostiene che il diritto dell’Amministrazione di revocare il beneficio, e quindi di richiedere la restituzione delle somme già erogate, poteva essere fatto valere dall’amministrazione stessa sin dal marzo 1984 (cioè dalla scadenza del termine per l’ultimazione dell’opera); e che, non avendo controparte dimostrato che la lettera del 15.1.1992 di comunicazione della revoca deliberata nel dicembre 1991 sia mai stata consegnata ad esso ricorrente, la prescrizione, non validamente interrotta, si è compiuta sin dal marzo 1994, ben prima della emissione della ingiunzione nel 1997. Osserva tuttavia il collegio che la critica relativa alla individuazione del termine iniziale di decorrenza della prescrizione non è idonea, nella specie, a condurre all’accoglimento della eccezione relativa: anche ove si ritenesse di collocare la decorrenza iniziale nel marzo 1984, la prescrizione sarebbe comunque stata validamente impedita dalla lettera di comunicazione della revoca nel gennaio 1992, la cui ricezione il ricorrente avrebbe dovuto tempestivamente contestare in sede di merito, precisando poi nel ricorso per cassazione il luogo processuale in cui tale contestazione fosse avvenuta. Nessun riferimento a tale contestazione si legge invece nel ricorso, sì che il rigetto della doglianza si impone.

3. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1363 e 1370 cod. civ. e dell’art. 3 del provvedimento di concessione del contributo pubblico, quale lex specialis, nonchè omessa e/o insufficiente motivazione. Sostiene che la interpretazione esposta nella sentenza impugnata non rispetta il criterio indicato dall’art. 1363 cod. civ., in quanto contrasta con il contenuto testuale del provvedimento amministrativo, che non riferisce la revoca al mero fatto formale del mancato invio della documentazione bensì al mancato rispetto del nuovo termine senza che sia completata l’opera, il che nella specie non è stato accertato dall’Ente, nè dai giudici di merito; e che comunque, in presenza di espressioni che giustificano il dubbio se tale omissione, ai fini della revoca, debba essere riferita alla documentazione dell’intera opera o della sua sola ultimazione, la clausola in esame, in quanto predisposta da una delle parti, deve interpretarsi a favore dell’altra (art. 1370 cod. civ.).

Anche tale motivo è infondato. In primo luogo, va considerato che la parte che denunci la violazione, da parte del giudice di merito, del criterio ermeneutico di legge prescrivente la interpretazione complessiva delle clausole dell’atto – che per l’appunto presuppone l’esame di tutte le clausole, al fine di interpretarle le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto – ha l’onere di provvedere nel ricorso alla trascrizione delle clausole stesse, non, come nella specie, della sola clausola che assume essere stata erroneamente interpretata. Il vizio di autosufficienza del ricorso che in tal modo si evidenzia impedisce dunque alla Corte di compiere – senza ricorrere a non consentite indagini integrative – il controllo di legittimità richiestole (cfr. ex multis Cass. n. 17915/2010). A tali pur assorbenti considerazioni preliminari può d’altra parte aggiungersi come, anche ove si limitasse l’esame alla sola clausola controversa trascritta in ricorso, le critiche espresse con il motivo non condurrebbero a conclusioni diverse da quelle cui è giunto il giudice di merito. Dei due doveri posti dall’art. 3 a carico del concessionario, quello di completare l’opera cui si riferisce il contributo entro il termine indicato di 24 mesi e quello di documentare tale completamento, il ricorrente considera solo il primo, prospettando un onere di verifica da parte dell’Ente senza indicare specificamente il fondamento testuale di tale operazione ermeneutica, ed omettendo invece di considerare l’equivalenza che il testo della clausola pone (con la disgiuntiva “o”) tra la mancata ultimazione dell’opera e la mancata documentazione “relativa” a tale ultimazione.

Nessuna censura specifica, inoltre, risulta rivolta al non secondario rilievo, contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui la concessione di un ulteriore termine per il completamento deve intendersi come oggetto di una facoltà discrezionale dell’Ente, la quale implicitamente presuppone da parte del concessionario l’avvenuto espletamento – nella specie del tutto omesso, per lungo tempo – del dovere di informazione e documentazione sopra ricordato.

In ogni caso, dunque, il motivo non merita accoglimento.

4. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1461 cod. civ., nonchè dell’art. 1324, in relazione all’art. 1460 cod. civ., e dei principi generali in materia di revoca dell’atto amministrativo, nonchè vizio di motivazione. Premesso che – come già ribadito in atto di appello – egli aveva deciso di non coltivare oltre la pratica di finanziamento e di terminare l’opera a proprie spese a seguito del grave stato di insolvenza della Cassa, il ricorrente sostiene in primo luogo la legittimità della sospensione dell’adempimento da parte sua ai sensi dell’art. 1461 c.c., giacchè nel marzo 1984, quando egli avrebbe dovuto inviare la documentazione relativa alla ultimazione dell’opera, la Cassa già versava in situazione di insolvenza. Sotto altro alternativo profilo, deduce che, secondo il principio generale ricavabile dall’art. 1460 c.c., la parte che non può adempiere alla sua prestazione non può esigere dall’altra la prestazione posta a suo carico; sì che violava tale principio normativo la condotta dell’Ente che, risultando nell’impossibilità di erogare il saldo del contributo al momento della constatazione dell’inadempimento di controparte nel dicembre 1991, ha proceduto ugualmente alla revoca del contributo. 4.1 Neppure tali doglianze meritano accoglimento, atteso che: a)l’art. 1461 cod. civ., diretto a regolare i contratti con prestazioni reciproche delle parti legate da un nesso di corrispettività, non può – al pari dell’art. 1460 – ritenersi applicabile al rapporto in esame, nel quale tale nesso non risulta prospettabile, tantomeno poi tra la conservazione del contributo economico pubblico e i doveri di informazione e documentazione gravanti sul soggetto a favore del quale è concesso; b) peraltro anche qui il ricorso mostra un vizio di autosufficienza, con riguardo alla denunciata carenza di motivazione sul dato relativo alla dedotta insolvenza della Cassa ed alla sua collocazione temporale, non indicando il ricorrente da quale risultanza istruttoria emerga tale dato. 5. Il rigetto del ricorso si impone dunque, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, che determina in Euro 1.500,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Suprema Corte di Cassazione, il 14 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2011

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