Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20647 del 20/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 20/07/2021, (ud. 09/06/2021, dep. 20/07/2021), n.20647

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

ai sensi del D.L. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis;

sul ricorso iscritto al n. 26229/2015 R.G. proposto da:

F.G., rappresentato e difeso, giusta mandato in calce al

ricorso, dall’Avv. Alberto Iadevaia, elettivamente domiciliato

presso lo studio dell’Avv. Riccardo Rampioni, in Roma, Via Fasana,

n. 16;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente – e – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 1288/2015, depositata il 30 marzo 2015.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 giugno 2021

dal Consigliere Luigi D’Orazio.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. Vitiello Mauro, che ha concluso chiedendo

“l’accoglimento del ricorso limitatamente ai motivi n. 4, 7 e 13,

nonché l’unico motivo del ricorso incidentale, con conseguente

annullamento parziale della sentenza impugnata e rinvio alla

Commissione Tributaria regionale della Lombardia”.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava sia l’appello principale proposto da F.G. sia l’appello incidentale articolato dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Lodi (n. 190/1/12), che aveva accolto solo in parte il ricorso presentato dal contribuente contro gli avvisi di accertamento emessi nei suoi confronti per gli anni 2003 (Euro 591.951,36), 2004 (Euro 676.882,67) e 2005 (Euro 58.048.183,63), oltre che nei confronti della cartella di pagamento emessa in via provvisoria e straordinaria ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 11. Era stato, dunque, confermato integralmente dal giudice di prime cure l’avviso di accertamento per l’anno 2003, mentre con riferimento all’anno 2004 la ripresa a tassazione era stata ridotta la somma di Euro 433.824,00, e per l’anno 2005, tale ripresa era stata ridotta ad Euro 31.509.118,65. In particolare, il giudice d’appello evidenziava l’inopponibilità alla amministrazione finanziaria della dichiarazione riservata delle attività emerse ai sensi del D.L. n. 78 del 2009, art. 13-bis (scudo fiscale ter), sia perché la parte non aveva dimostrato la corrispondenza tra gli importi “scudati” (Euro 14.996.492,00) e gli importi accertati (Euro 18.380.872,25), sia perché in data 26 aprile 2010, data di presentazione della dichiarazione riservata, era già iniziata l’attività di accertamento con la notifica del questionario notificato in data 3 dicembre 2009. Riteneva corretto il raddoppio dei termini, in quanto sussisteva l’obbligo di denuncia dei reati di cui al D.L. n. 78 del 2009; inoltre le dichiarazioni provenienti da terzi, ed in particolare le dichiarazioni rese da S.S., erano chiare e corredate di allegati, mentre l’avviso di accertamento riproduceva il contenuto delle dichiarazioni. La mancanza dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria non comportava linutilizzabilità degli atti penali. Quanto al merito, in relazione all’avviso di accertamento per l’anno 2003, le dichiarazioni dello S., che aveva ammesso di operare per conto di F., riconducevano al contribuente la titolarità, ancorché per interposizione, delle disponibilità legate alle relazioni (OMISSIS) e (OMISSIS). Quanto all’avviso di accertamento per l’anno 2004 si ritenevano ascrivibili al contribuente le relazioni formalmente intestate a Targum Familierstiftung Vaduz, mentre il F. aveva opposto solo le affermazioni già dedotte in sede di accertamento con adesione. Tuttavia la quantità dell’importo relativo al reddito imponibile accertato ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis, doveva essere determinato in Euro 1.664.114,00, con redditi determinati da Euro 660.000,00 ad Euro 433.824,00. In relazione all’avviso di accertamento per l’anno 2005, si ritenevano ascrivibili al contribuente le relazioni ivi indicate, dovendosi tenere conto delle dichiarazioni di S.S. assunte in sede penale, sia delle dichiarazioni rese dallo stesso F.G. in sede di interrogatorio penale, con la ricostruzione di un sistema di interposizioni fittizie e fiduciarie, nel quale il contribuente era il reale titolare delle relazioni (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), e (OMISSIS). Quanto al conto bancario intestato a (OMISSIS), risultava dalle dichiarazioni del F. che lo stesso condivideva con Marmont la società Zachs. Le sanzioni erano state correttamente applicate, in assenza di obiettive condizioni di incertezza, mentre il cumulo giuridico avrebbe comportato una sanzione complessiva superiore a quella ottenuta con il cumulo materiale.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate, proponendo ricorso incidentale.

4. Il contribuente resiste con controricorso al ricorso incidentale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonché del D.L. n. 78 del 2009, art. 13-bis, dei richiamati del D.L. n. 350 del 2001, artt. 14, 15 e 17, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,” in quanto il giudice d’appello, benché nei tre avvisi di accertamento,, relativi agli anni 2003, 2004 e 2005, avesse messo in evidenza e contestato una sola ragione di inopponibilità all’Amministratore finanziaria degli effetti dello scudo fiscale, aveva invece individuato autonomamente due ragioni, come distinte cause di inopponibilità del predetto scudo fiscale. Infatti, da un lato, secondo il giudice d’appello, il contribuente non aveva dimostrato la corrispondenza tra gli importi scudati e quelli accertati, in quanto questi ultimi erano superiori ai primi, ma, dall’altro, aveva aggiunto che, al momento della presentazione della dichiarazione riservata in data (OMISSIS), l’attività di accertamento era già iniziata con la notifica del questionario notificato in data 3 dicembre 2009. In realtà, l’Ufficio aveva individuato solo la seconda come causa di inopponibilità dello scudo fiscale sicché, il giudice d’appello sarebbe incorso il vizio di ultrapetizione. Tra l’altro, la preclusione di cui al D.L. 25 settembre 2001, n. 350, art. 14, operava automaticamente. L’invio del questionario, poi, non rappresentava l’avvio di un’attività di verifica da parte dell’Ufficio, con riferimento al periodo d’imposta 2003, né tantomeno per i periodi di imposta 2004 e 2005. L’attività di accertamento, poi, non era di competenza della direzione provinciale di (OMISSIS), ma di quella di (OMISSIS), in quanto nell’aprile 2007 il contribuente si era trasferito nel comune di (OMISSIS) (OT).

1.1. Il motivo è infondato.

1.2. Il D.L. n. 78 del 2010, art. 13-bis, comma 1 (disposizioni concernenti il rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali detenute fuori del territorio dello Stato), convertito in L. 3 agosto 2009, n. 105, all’epoca vigente, prevede “e’ istituita un’imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali: a) detenute fuori del territorio dello Stato senza l’osservanza delle disposizioni del D.L. 28 giugno 1990, n. 167, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 1990, n. 227, e successive modificazioni; b) a condizione che le stesse siano rimpatriate in Italia da Stati non appartenenti all’Unione Europea, ovvero regolarizzate o rimpatriate perché detenute in Stati dell’Unione Europea e in Stati aderenti allo spazio economico Europeo che garantiscono un effettivo scambio di informazioni fiscali in via amministrativa. L’art. 13-bis, Al comma 3, si dispone che “il rimpatrio ovvero la regolarizzazione si perfezionano con il pagamento dell’imposta e non possono in ogni caso costituire elemento utilizzabile a sfavore del contribuente, in ogni sede amministrativa o giudiziaria, in via autonoma o addizionata”.

Al comma 4, si aggiunge che “l’effettivo pagamento dell’imposta produce gli effetti di cui agli artt. 14 e 15, e rende applicabili le disposizioni di cui al D.L. 25 settembre 2001, n. 350, art. 17,… Restano comunque esclusi dal campo di applicazione del presente articolo i reati, ad eccezione dei reati di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 4 e 5”.

Il D.L. 25 settembre 2001, n. 350, art. 14, comma 6, dispone che “il rimpatrio delle attività non produce gli effetti di cui al presente articolo quando, alla data di presentazione della dichiarazione riservata, una delle violazioni delle norme indicate al comma 1, è stata già constatata o comunque sono già iniziati accessi, ispezioni e verifiche o altre attività di accertamento tributario e contributivo di cui gli interessati hanno avuto formale conoscenza”. Il D.L. 25 settembre 2001, n. 150, art. 14, comma 1, si dispone che “salvo quanto stabilito al comma 6, il rimpatrio delle attività finanziarie effettuato ai sensi dell’art. 12, e nel rispetto delle modalità di cui all’art. 13: a) preclude nei confronti del dichiarante e dei soggetti solidalmente obbligati, ogni accertamento tributario e contributivo per i periodi di imposta per i quali non è ancora decorso il termine per l’azione di accertamento alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

1.3. Pertanto, del tutto correttamente il giudice d’appello ha escluso l’opponibilità dello scudo fiscale all’amministrazione finanziaria, in quanto la dichiarazione riservata era stata presentata solo in data (OMISSIS), mentre l’attività di accertamento era iniziata, con l’invio del questionario, già in data 3 dicembre 2009.

Peraltro, nei confronti del F. l’attività di accertamento era già iniziata nell’anno 2005, quando lo stesso aveva chiesto l’applicazione suol confronti della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p., con riferimento all’operazione Mizar (cfr. pagina 28 del ricorso per cassazione, con indicazione degli avvisi di accertamento e gli atti di contestazione per gli anni 2003 e 2004, in relazione a tale operazione). Invero, per questa Corte, in materia di scudo fiscale, la presentazione della dichiarazione riservata di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 13-bis, conv. in L. n. 102 del 2009, non è preclusiva del potere di accertamento tributario ove il contribuente, alla data di presentazione della stessa, avesse già, ai sensi del D.L. n. 350 del 2001, art. 14, comma 7, conv. in L. n. 409 del 2001, “formale conoscenza” dell’avvio dell’attività di accertamento; tale condizione non si esaurisce nella “formale notifica” di un atto ma ricorre anche nel caso del compimento di attività – quali, tra l’altro, gli accessi, le ispezioni, le verifiche, la partecipazione al contraddittorio, l’invio e la risposta a questionari, le acquisizioni probatorie ed istruttorie – che abbiano coinvolto il contribuente e si siano tradotte in atti del procedimento specifici e di contenuto pertinente – la cui valutazione è di competenza del giudice di merito – all’accertamento medesimo – nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato la “formale conoscenza” dell’attività di accertamento dell’Ufficio in capo al contribuente dall’atto di delega da egli conferito ad un professionista in relazione a detta attività(Cass., sez. 5, 8 ottobre 2020, n. 21697).

1.4. Ne v’e’ stata l’ultrapetizione invocata dal contribuente, in quanto già nel corso del procedimento di accertamento con adesione si faceva rilevare la differenza quantitativa tra le somme scudate e quelle oggetto degli accertamenti (cfr. pagina 9 del controricorso della Agenzia” l’Ufficio nel processo verbale di contraddittorio (OMISSIS) ha ribadito quanto segue: …. ribadita, per le motivazioni ampiamente espresse nell’avviso di accertamento, l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria degli effetti preclusivi ed estintivi, previsti dal D.L. n. 78 2009, art. 13-bis, delle operazioni di emersione di attività estere posta in essere dal contribuente in data (OMISSIS) e, inoltre, non essendo stato riscontrato che gli importi accertati rientrassero fra quelli oggetto di scudo fiscale”).

Va, poi, rimarcato che il giudice d’appello, facendo riferimento alla differenza fra gli importi accertati, pari a circa 18 milioni di Euro e quelli scudati, pari a circa 14 milioni di Euro, non è incorso nel vizio di ultrapetizione, ma si è limitato ad aggiungere una ulteriore argomentazione giuridica per escludere l’opponibilità dello scudo fiscale all’Amministrazione finanziaria.

Quanto alla competenza per territorio solo nel 2007 il contribuente avrebbe spostato la residenza ad (OMISSIS), mentre gli avvisi di accertamento riguardano gli anni 2003, 2004 e 2005.

2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nonché dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto l’avviso di accertamento relativo all’anno 2003, è stato notificato dall’Ufficio in data 1 dicembre 2011, quindi, oltre il termine di decadenza previsto dalla legge per l’accertamento dell’anno 2003, ossia il 31 dicembre 2008. Infatti, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione. Ne’ era possibile il raddoppio dei termini, come del resto evidenziato anche dall’Ufficio che, alla data della notifica dell’atto impositivo, avrebbe contestualmente proceduto alla trasmissione all’autorità giudiziaria di specifica notizia di reato, ai sensi dell’art. 331 c.p.c.. In realtà, la comunicazione della notizia di reato, e segnatamente la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, non era stata effettuata entro gli ordinari termini di decadenza, quindi entro il 31 dicembre 2008. Inoltre, la comunicazione della notizia di reato non era stata allegata all’avviso di accertamento. La notizia di reato, posta a fondamento del raddoppio dei termini di accertamento, con riferimento all’avviso di accertamento dell’anno 2003, non esiste.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. Invero, il raddoppio dei termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., sez. 5, 28 giugno 2019, n. 17586).

Va anche osservato che i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per l’IRPEF e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, per l’IVA, come modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, conv., con modif., in L. n. 248 del 2006, sono raddoppiati in presenza di “seri indizi di reato” che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se archiviata o tardiva, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento già notificati, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, commi da 130 a 132, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, nella parte in cui fa salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni e degli inviti a comparire D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, già notificati, dimostrando un “favor” del legislatore per il raddoppio dei termini se non incidente su diritti fondamentali del contribuente, quale il diritto di difesa, in ossequio ai principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 112 Cost. (Cass., sez. 6-5, 19 dicembre 2019, n. 33793).

Invero, non può ritenersi applicabile al rapporto tributario oggetto del presente giudizio la normativa successiva di cui al D.Lgs. n. 208 del 2015, art. 1, commi 130, 131 e 132 (c.d. legge di Stabilità 2016) che, dopo avere introdotto significative modifiche alla precedente disciplina in materia di termini per l’accertamento, ha,

da un lato, (Ndr: testo originale non comprensibile) tali modifiche si applicano agli avvisi relativi al periodo di imposta in corso alla data del 31 dicembre 2016 e ai periodi successivi; dall’altro, la medesima disposizione di cui al cit. D.Lgs., art. 1, comma 132, ha previsto, solo per gli avvisi di accertamento che devono ancora essere notificati, l’operatività, a pena di decadenza, del termine ordinario di 4 anni dalla presentazione della dichiarazione ovvero, in caso di omessa presentazione di dichiarazione o di dichiarazione nulla, di cinque anni da quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto esser presentata, consentendo espressamente il raddoppio di tali termini in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per alcuno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, purché la relativa denuncia da parte dell’Amministrazione Finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di Finanza, sia presentata o trasmessa entro la scadenza dei termini ordinari di accertamento di cui sopra.

La normativa sopra indicata non ha tuttavia modificato il regime transitorio introdotto dal D.Lgs. 3 agosto 2015, n. 128, art. 2, comma 3, che ha espressamente previsto che “sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle Entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto” (e cioè il 2.9.2015 certamente successiva alla data di notifica dell’avviso di accertamento oggetto del presente giudizio), con la conseguenza che, nel caso di specie, non può trovare applicazione la nuova disciplina introdotta con il citato D.Lgs. n. 208 del 2015 – ribadita solo per gli avvisi di accertamento “ancora da notificare” relativi ai periodi imposta precedenti a quelli in corso alla data del 31.12.2016 – che consente il raddoppio dei termini ordinari per gli accertamenti scaturenti da violazioni importanti obbligo di denuncia penale per reato tributario solo nel caso (n cui tale denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza del termine ordinario di accertamento.

Pertanto, in relazione ad avvisi di accertamento notificati prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 128 del 2015 (come, nel caso di specie, in cui l’avviso di accertamento risulta notificato ben prima del 2015) si applica il testo previgente del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, e del D.P.R. 633 del 1972, art. 57, comma 3, con conseguente operatività del raddoppio dei termini in presenza di violazioni tali da far insorgere l’obbligo di denuncia per reato tributario, a prescindere dall’effettiva presentazione di tale denuncia e quale che sia l’epoca della sua presentazione. 2.3. Inoltre, non rileva in alcun modo che la notizia di reato sia emersa dopo il decorso dell’ordinario termine accertamento.

Infatti, per la Corte costituzionale (Corte Cost., 25 luglio 2011, n. 247) i termini raddoppiati di accertamento non costituiscono una proroga di quelli ordinari, ma sono anch’Essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, cioè ove sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari, senza che all’amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione. I termini raddoppiati, quindi, non si innestano su quelli brevi, in base ad una scelta discrezionale degli uffici tributari, ma operano autonomamente allorché sussistano elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000. Non può dunque farsi riferimento alla riapertura o alla proroga di termini scaduti, né alla reviviscenza cli poteri di accertamento ormai esauriti, poiché i termini brevi e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono i diversi termini di accertamento. Pertanto, mentre i termini brevi di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, commi 1 e 2, operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale di reati, i termini raddoppiati di cui allo stesso art. 57, comma 3, operano, invece, in presenza di violazioni tributarie per le quali vi è l’obbligo di denuncia.

Inoltre, il D.L. 223 del 2006, art. 37, comma 26, del non prevede una riapertura di termini di accertamento già scaduti, ma risolve solo una questione di successione di leggi nel tempo, senza dettare una disciplina sostanziale. La norma prevede che “le disposizioni di cui ai commi….25, si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, commi 1 e 2”. In tal modo, dunque, non viene retroattivamente riaperto un termine già scaduto, ma viene solo escluso che il raddoppio dei termini si applica alle violazioni tributarie per le quali, alla data di entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006), fosse già decorso il termine di accertamento previsto dalla normativa anteriore.

Pertanto, il raddoppio del termine, costituendo un termine del tutto slegato dai termini ordinari di accertamento, perché opera in via automatica al verificarsi del presupposto della sussistenza di illeciti penali, anche per consentire al giudice tributario di utilizzare elementi istruttori delle indagini penali nel frattempo espletate, può operare anche se la notizia di reato è emersa dopo la scadenza del termine ordinario di decadenza.

Tra l’altro, si rileva che tra le ipotesi di reato deve essere compresa anche quella relativa alla omessa menzione nella dichiarazione dei redditi dei proventi detenuti all’estero.

Del resto, ai sensi del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4, (dichiarazione infedele) “fuori dei casi previsti dagli artt. 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente: a) imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro 103.291,38; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a Euro 2.065.827,60”.

Pertanto, erano integrati, in astratto, i parametri indicati dalla suddetta norma. Infine, non è previsto che la comunicazione di reato debba essere allegata l’avviso di accertamento; ciò che conta e che emergano seri indizi della sussistenza di uno dei reati cui al D.Lgs. n. 74 del 2000.

3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, commi 2 e 2-bis, nonché del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto, con riferimento ai periodi di imposta 2004 e 2005, il contribuente aveva eccepito l’illegittimità degli stessi, per essere stati emessi in violazione delle disposizioni di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, commi 2 e 2-bis; infatti, tali avvisi erano stati notificati dall’Ufficio oltre i loro rispettivi termini ordinari decadenza fissati, per il periodo d’imposta 2004, al 31 dicembre 2009 e, per il periodo d’imposta 2005, al 31 dicembre 2010. Tali avvisi fondano loro pretesa impositiva sulle Disp. di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, e il raddoppio dei tempi di accertamento, sulle Disp. del medesimo art. 12, del successivo comma 2 bis. L’art. 12 citato, comma 2, ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico una presunzione legale relativa, per la quale gli investimenti effettuati e le attività di natura finanziaria riotenute dal contribuente in determinati Stati o territori esteri a regime fiscale privilegiato, in violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale di cui al D.L. 28 giugno 1990, n. 167, art. 4, si presumono, salvo prova contraria, effettuati con “redditi sottratti a tassazione” nel nostro Paese. Il medesimo art. 12, il successivo comma 2-bis, ha, invece, previsto il raddoppio dei termini. Il giudice d’appello non ha compreso quale fosse la norma alla base del raddoppio dei termini, con riferimento agli avvisi di accertamento per gli anni 2004 e 2005. Si e’, infatti, limitato ad evidenziare l’applicabilità del raddoppio dei termini di decadenza dall’azione accertatrice in ragione della presenza, anche per questi anni, dell’obbligo di denuncia per i reati previsti dal D.L. n. 78 del 2009.

Per il ricorrente vi sarebbe stato un uso strumentale e pretestuoso da parte dell’Ufficio dell’accertamento presuntivo di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, al fine di sottrarsi agli obblighi di motivazione imposti dalla legge degli avvisi di accertamento. In realtà, la nuova normativa costituiva solo una extrema ratio, da utilizzare solo ed esclusivamente per i casi in cui dal quadro istruttorio in possesso dell’amministrazione non risultassero elementi capaci di qualificare diversamente le attività detenute e gli investimenti effettuati dal contribuente all’interno del paradiso fiscale. Nel caso in esame, invece, la Guardia di Finanza avrebbe potuto procedere al confezionamento di un accertamento analitico, anziché presuntivo, basato su “tutti i dati e le informazioni che la Guardia di Finanza aveva raccolto nel corso di lunghe indagini, condotte in collaborazione con l’odierno comparente e anche su delega della Procura della Repubblica di (OMISSIS)”. Negli avvisi di accertamento infatti, si legge che erano state svolte indagini dalla Procura della Repubblica di (OMISSIS) nei confronti di persone coinvolte nel procedimento Antonveneta, tra cui il contribuente, “confermando l’esistenza di documentazione riferita a disponibilità estere a questi riconducibili”. Inoltre, vi erano i dati acquisiti nell’ambito del procedimento penale n. 19195/05, instaurato presso la Procura della Repubblica di (OMISSIS); oltre alle risultanze bancarie acquisite dalla compagnia della Guardia di Finanza, in quanto documentazione autonomamente prodotta in ambito processuale dal contribuente. Sulla base di tutta la documentazione acquisita, quindi, l’Ufficio avrebbe potuto elaborare un accertamento analitico, senza dover ricorrere all’extrema ratio dell’accertamento fondato sulla presunzione legale relativa di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2. Pertanto, secondo il ricorrente “la vera ragione dell’uso strumentale e pretestuoso da parte dell’Ufficio dell’accertamento presuntivo” consisteva nel raggiungimento di un “secondo vantaggio legittimo: quello di raddoppiare i termini di accertamento, ai sensi del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2-bis”. Non sussistendo, dunque, nel caso in esame i presupposti per ricorrer applicazione della presunzione legale relativa, gli avvisi di accertamento per gli anni 2004 e 2005 risultavano notificati ben oltre il termine decadenza. Il raddoppio dei termini e’, quindi, illegittimo per due motivi; in primo luogo “la norma in parola pecca di dubbia legittimità per palese contrasto con lo specifico divieto di proroga”, mediante norme non espressamente derogatorie dei termini di decadenza per gli accertamenti d’imposta, contenuto nella L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 3; in secondo luogo, la norma sul raddoppio dei termini non può avere applicazione retroattiva, ma solo a decorrere dal 30 dicembre 2009. La norma sul raddoppio dei termini ha un carattere esclusivamente sostanziale sanzionatorio, non meramente procedimentale.

3.1. Il motivo è infondato.

3.2. Invero, il D.L. 1 luglio 2009, n. 78. art. 12 (contrasto ai paradisi fiscali), convertito in L. 3 agosto 2009, n. 102, prevede al comma 1 che “le norme del presente articolo danno attuazione alle intese raggiunte tra gli Stati aderenti alla Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico in materia di emersione di attività economiche e finanziarie detenute in Paesi aventi regimi fiscali privilegiati, allo scopo di migliorare l’attuale insoddisfacente livello di trasparenza fiscale e di scambio di informazioni, nonché di incrementare la cooperazione amministrativa tra Stati”.

Al comma 2, si dispone che “in deroga ad ogni vigente disposizione di legge, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute degli Stati o territori a regime fiscale privilegiato…, in violazione degli obblighi di dichiarazione di cui al D.L. 28 giugno 1990, n. 167, art. 4, commi 1, 2 e 3, convertito dalla L. 4 agosto 1990, n. 227, soli fini fiscali si presumono costituite, salva la prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tale caso, le sanzioni previste dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, sono raddoppiate”.

3.3. Per questa Corte il D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, ha carattere sostanziale, sicché non può trovare applicazione a fattispecie, come quella in oggetto, verificatesi prima del 1 luglio 2009, non avendo efficacia retroattiva (Cass., sez. 6-5, 18 settembre 2020, n. 19446; Cass., sez. 5, 25 febbraio 2020, n. 4984; Cass., sez. 6-5, 28 febbraio 2019, n. 5885; Cass., sez. 5, 30 gennaio 2019, n. 2562; Cass., sez. 5, 21 dicembre 2018, n. 33233; Cass., sez. 6-5, 2 febbraio 2018, n. 2662; Cass., sez. 5, 14 novembre 2019, nn. 29632 e 29633; Cass., sez.5, 28 novembre 2019, n. 31085).

Pertanto, tale disposizione non può trovare applicazione con riferimento agli atti impugnati che si riferiscono agli anni 2005 e 2006.

3.4. Si è tuttavia ribadito, segnatamente nelle ultime pronunce sopra richiamate, quanto già specificamente affermato in tema di lista Falciani dalle citate ordinanze gemelle nn. 8605 e 8606 del 2015, che l’Amministrazione finanziaria può fondare la propria pretesa anche su un unico indizio, se grave preciso, cioè dotato di elevata valenza probabilistica.

Pertanto, premesso che, come già chiarito in precedenza (Cass., sez. 6-5, ord. 13 maggio 2015, n. 9760), la c.d. scheda clienti non può essere valutata alla stregua di foglio anonimo, l’onere di giustificare l’incoerenza tra l’ammontare delle disponibilità in paese estero a fiscalità privilegiata secondo il Fisco facenti capo al contribuente sulla base delle risultanze della lista Falciani, incombe al contribuente, stante la valenza presuntiva degli elementi desumibili dalla lista Falciani (Cass., sez. 5, n. 4984/2020 cit.).

3.5. Nel caso in esame, però, è lo stesso ricorrente ad ammettere che l’Amministrazione, ove non avesse utilizzato il meccanismo di presunzione legale relativa di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, ben avrebbe potuto emettere un avviso di accertamento analitico, esistendo numerosi elementi da porre a fondamento dello stesso. In particolare, è lo stesso ricorrente ad evidenziare che negli avvisi di accertamento impugnati si faceva espresso riferimento alle indagini delegate dalla Procura della Repubblica di (OMISSIS) nei confronti di persone coinvolte nel procedimento Antonveneta, tra cui il Dott. F.G., “confermando l’esistenza di documentazione riferita a disponibilità estere a questi riconducibili”. Inoltre, si aggiunge negli avvisi di accertamento che l’attività di controllo traeva origine dal procedimento penale n. 19195/05 aperto presso la procura della Repubblica di (OMISSIS). Si chiariva ancora che “analoghe risultanze bancarie venivano altresì acquisite dalla compagnia della Guardia di Finanza in quanto documentazione autonomamente prodotta in ambito processuale dal Dott. F.G., a mezzo dei suoi difensori…. nell’intento di chiarire le consistenze detenute all’estero”. Pertanto, è lo stesso ricorrente ad ammettere che “sulla base di tutta la documentazione acquisita, l’Ufficio era quindi stato messo in grado di compiere un accertamento analitico della posizione del Dott. F., basato sulle disposizioni specifiche del testo unico sulle imposte dei redditi…., motivando in modo analitico le risultanze delle indagini fiscali sulla base delle norme del Tuir, senza dover ricorrere all’extrema ratio dell’accertamento fondato sulla presunzione legale relativa di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2”.

Insomma, è proprio il ricorrente che riconosce la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti sulla detenzione all’estero da parte del contribuente di disponibilità finanziarie, a prescindere dall’utilizzo della presunzione legale relativa di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2.

3.6. Si è chiarito, invece, che il “raddoppio dei termini di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2-bis, ha efficacia “retroattiva” avendo contenuto processuale.

Il D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2 bis, dispone sul punto che “per l’accertamento basato sulla presunzione di cui al comma 2, i termini di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, commi 1 e 2, e successive modificazioni, e al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57, commi 1 e 2, e successive modificazioni, sono raddoppiati”.

3.7. Per questa Corte (Cass., sez. 5, 14 novembre 2019, n. 29632), infatti, la presunzione di evasione stabilita, con riguardo agli investimenti e alle attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato, dal D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 102 del 2009, in vigore dal 1 luglio 2009, non ha natura procedimentale ma sostanziale – sia perché le norme in tema di presunzioni sono collocate, nel codice civile, tra quelle sostanziali, sia perché una diversa interpretazione potrebbe pregiudicare, in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., l’effettività del diritto di difesa del contribuente rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione – con la conseguenza che essa non ha efficacia retroattiva. Viceversa, hanno natura procedimentale e non sostanziale e soggiacciono perciò al principio “tempus regit actum”, le previsioni di cui al medesimo art. 12, commi 2-bis e 2-ter, che raddoppiano, rispettivamente, i termini di decadenza per la notificazione degli avvisi di accertamento basati sulla suddetta presunzione e quelli di decadenza e di prescrizione stabiliti per la notificazione degli atti di contestazione o di irrogazione delle sanzioni per l’omessa denuncia delle disponibilità finanziarie detenute all’estero, sicché esse si applicano anche per i periodi d’imposta precedenti alla loro entrata in vigore (il 1 luglio 2009), quando venga in rilievo la sottrazione alla tassazione di redditi esportati in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, indipendentemente dalla applicabilità della presunzione legale di cui all’art. 12, comma 2.

4. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “nullità della sentenza o del procedimento per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1,” in quanto con riferimento al periodo di imposta 2005, il contribuente aveva eccepito l’illegittimità di tale avviso per la carenza dell’obbligo del monitoraggio fiscale, in quanto le disponibilità del contribuente erano sottoposte a sequestro penale. I capitali sequestrati, secondo l’assunto difensivo, non sono suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia. Su tale questione vi sarebbe stata omessa pronuncia da parte della Commissione regionale.

4.1. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità.

Invero, per questa Corte, in tema di Irpef, l’intestatario di un immobile sottoposto a sequestro giudiziario, ex art. 670 c.p.c., non può considerarsi titolare di alcun reddito proveniente dall’immobile, perché i canoni, ed in generale tutti gli altri frutti civili, sono nella disponibilità del custode, ai sensi dell’art. 560 c.p.c., richiamato dal successivo art. 676 c.p.c., (Cass., sez. 5, 11 novembre 2011, n. 23620, con citazione della prassi amministrativa desunta dalla risoluzione n. 195/E del 13 ottobre 2003, che sviluppa le considerazioni svolte nella circolare n. 156/E del 2000, in tema di sequestro antimafia, e già anticipate dalla circolare del ministero delle finanze n. 184/E del 14 agosto 1996, richiamata dalla risoluzione n. 158/E dell’11 novembre 2005). In tal senso depone anche la risoluzione 27 marzo 2007, n. 62 dell’Agenzia delle entrate in merito al sequestro giudiziario ed alla proroga dei termini concessi dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 5 ter, comma 5, per il curatore o l’amministratore per la presentazione delle dichiarazioni. La ratio di tale norma è stata individuata nel consentire a chi subentra nell’amministrazione di un complesso di beni di reperire e predisporre la documentazione necessaria all’adempimento degli obblighi di natura contabile e tributaria.

Analogamente, per questa Corte, in caso di sequestro preventivo di azienda ex art. 321 c.p.p., il custode giudiziario è chiamato a gestire l’impresa solo dall’esecuzione della misura, sicché, per quanto riguarda l’anno immediatamente precedente, soggetto passivo delle imposte, obbligato anche a presentare le dichiarazioni fiscali, resta l’imprenditore sequestratario, nei cui confronti l’imponibile fiscale si è “cristallizzato” alla fine del menzionato esercizio, al quale, con riferimento a quell’anno, deve essere pertanto notificato l’avviso di accertamento, in qualità di “contribuente”, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 1 (Cass., sez. 5, 1 marzo 2019, n. 6111).

Tuttavia, nel caso in esame, il ricorrente si è limitato ad affermare che, con riferimento all’anno 2005, l’avviso di accertamento era illegittimo per carenza dell’obbligo di monitoraggio fiscale “per le relazioni che sono state nella disponibilità dell’odierno Comparente perché sottoposte a sequestro penale” (cfr. pagina 40 del ricorso per cassazione). Il ricorrente ha anche aggiunto che tutte le relazioni bancarie sono state affidate “in custodia alle stesse banche depositarie”.

Pertanto, il ricorrente non ha specificato dati indispensabili per comprendere appieno l’omissione in cui sarebbe incorso il giudice di appello. In particolare, non ha indicato la tipologia di sequestro penale (preventivo, conservativo o probatorio); né la data in cui il sequestro è stato disposto ed eseguito; né se vi sia stata la nomina di un custode (il riferimento all’affidamento delle relazioni bancarie alle “stesse banche depositarie” sembrerebbe escludere la nomina di un custode di nomina giudiziale); né il contenuto del provvedimento di sequestro; né gli obblighi specifici assegnati all’eventuale custode. Il ricorrente non ha neppure indicato se il provvedimento di sequestro sia stato prodotto in giudizio né la fase processuale in cui sarebbe stato prodotto.

Il motivo di ricorso per cassazione risulta, quindi, privo delle caratteristiche necessarie della specificità. Invero, la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata comporta Viriarnmissibiiità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza che riguardi pronunzie diverse da quelle impugnate (Cass., sez. 5, 3 agosto 2007, n. 17125; Cass., sez. 1, 18 febbraio 2011, n. 4036).

In particolare, si è affermato che il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi

con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (Cass., sez. 3, 11 gennaio 2005, n. 359).

5. Con il quinto motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, ultimo periodo, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, nonché del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, ultimo periodo, e art. 32, n. 8-bis, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,” in quanto sono inutilizzabili da parte dell’Ufficio le dichiarazioni rese da terzi. In particolare, nell’avviso di accertamento per l’anno 2003 l’Ufficio si è limitato a riprodurre solo un breve stralcio delle dichiarazioni rese da S.S., senza procedere alla allegazione del testo completo e senza mettere a disposizione del contribuente i documenti allegati. Il giudice di appello, si è limitato ad affermare che le dichiarazioni rese da S.S. erano chiare e corredate di allegati utili ai fini dell’accertamento, evidenziando che il ricorrente aveva potuto esercitare appieno il proprio diritto di difesa anche in relazione al fatto che l’avviso di accertamento riproduceva il contenuto del documento relativo alle dichiarazioni rese dallo S.. Non si è tenuto conto, però, secondo il contribuente, del fatto che la breve memoria composta da numero tre pagine e corredata da numero otto allegati, a firma del prof. Pa., legale di S.S., è stata consegnata dall’Ufficio ai difensori del F. solo a fronte di specifica richiesta, riportata nel processo verbale del (OMISSIS), nel corso della procedura di accertamento con adesione tuttavia. L’Ufficio non ha consegnato al F. alcuno degli otto allegati alla memoria e non ha neppure prodotto tale documentazione in giudizio.

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. Invero, per questa Corte, nel processo tributario il divieto di prova testimoniale posto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, non osta alla produzione sia da parte dell’Amministrazione finanziaria che, in ragione dei principi del giusto processo ex art. 111 Cost., del contribuente, di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale che assumono valenza indiziaria sul piano probatorio (Cass., sez. 6-5, 20 maggio 2020, n. 9316; Cass. sez. 5, 27 maggio 2020, n. 9903; Cass., sez. 6-5, 19 novembre 2018, n. 29757; Cass., sez. 5, 30 settembre 2011, n. 20028; Cass., 20 aprile 2007, n. 9402;). Le dichiarazioni extra processuali rese da soggetti terzi rispetto alle parti in causa costituiscono prove atipiche, le quali, oltre che soggette alla generale valutazione di attendibilità intrinseca e di compatibilità logica tra le stesse, hanno in ogni caso il valore probatorio proprio degli elementi indiziari; sicché, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, secondo l’espressa affermazione contenuta nella pronuncia della Corte costituzionale n. 18 del 2000 (Cass., sez. 5, n. 26140 del 2017). Per la Corte costituzionale n. 18/2020 la limitazione probatoria stabilita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale. Tali dichiarazioni, rese al di fuori e prima del processo, sono essenzialmente diverse della prova testimoniale, che è necessariamente orale e di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio. Il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dalla Amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento e’, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari. Del resto, il contribuente può, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale.

5.3. Inoltre, nell’ambito del principio espresso dall’art. 116 c.p.c., il giudice tributario ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti dalla confessione resa in sede penale dall’imputato, ricorrente avverso l’atto impositivo, e ciò al fine di trarne non solo semplici indizi ma anche valore di prova esclusiva (Cass., sez. 5, 11 giugno 2003, n. 9320; Cass., sez. 5, 5 maggio 2001, n. 9876).

Si è anche affermato che, in tema di contenzioso tributario, l’utilizzazione da parte del giudice tributario, a fini probatori, della confessione resa in sede penale dal rappresentante legale della società ricorrente, non viola il divieto di prova testimoniale nel processo tributario” atteso che il rapporto di immedesimazione organica, che lega il rappresentante legale con la società rappresentata, esclude che il primo possa essere qualificato come testimone, con riferimento ad attività poste in essere dalla società (Cass., sez. 1, 23 luglio 1999, n. 7964; Cass., sez. 5, 4 aprile 2008, n. 8772).

5.4. Le dichiarazioni di S.S. sono, poi, riportate nell’avviso di accertamento relativo all’anno 2003 ove si legge “come risulta dal verbale di interrogatorio di persona sottoposta di indagine avanti la procura della Repubblica di (OMISSIS) in data (OMISSIS) il (OMISSIS) è stato alimentato da rimesse dal conto Besozzi… In particolare ricordo la rimessa di Euro 2.750.000,00 (NdR relativa a parte di plusvalenza sui titoli Kamps, quotati alla borsa di Francoforte, da suddividersi tra S. e F.). A proposito dei conti (OMISSIS) e (OMISSIS) (BDL Lugano), in detto verbale si afferma che la somma di circa Euro 1.800.000,00 è stata ripartita in parti sostanzialmente uguali sui conti (OMISSIS) e (OMISSIS) aperti su richiesta di F.. Dall’estratto del c/c 620719 l’operazione suddetta risulta essere stata effettuata come segue: 15 luglio 2002, ricevuto bonifico da BPL Suisse, 2.750.000,00; 3 febbraio 2003, effettuato bonifico a (OMISSIS), 924.357,66; 3 febbraio 2003, effettuato bonifico a (OMISSIS), 924.357,66”. Inoltre, lo S. ha dichiarato di avere svolto, relativamente alle relazioni (OMISSIS), (OMISSIS), e (OMISSIS), il ruolo di soggetto fittiziamente interposto e, a sostegno di quanto sostenuto, ha prodotto copia del decreto di sequestro n. (OMISSIS), emesso dalla pretura del distretto di (OMISSIS), sezione 5, per ciascuna relazione e che “trattasi di averi appartenenti realtà a F.G.”.

5.5. Pertanto, l’avviso di accertamento riproduce il contenuto essenziale delle dichiarazioni rese dallo S., mentre il contribuente ha acquisito la copia integrale di tale dichiarazione, nel corso del procedimento per adesione.

6. Con il sesto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “violazione o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33, comma 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il contribuente aveva eccepito l’assenza dell’autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria competente, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 3. I tre avvisi di accertamento impugnati si fondono esclusivamente su atti del procedimento penale (dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari) acquisiti nell’ambito dell’accertamento tributario senza che sia stata rilasciata apposita autorizzazione dal gip per l’utilizzo di tali dati.

6.1. Il motivo è infondato.

6.2. Invero, per questa Corte l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33, comma 3, per la trasmissione, agli uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, con la conseguenza che la mancanza dell’autorizzazione, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi (Cass., sez. 5, 17 dicembre 2001, n. 15914; Cass. sez. 5, 11 giugno 2003, n. 9320, per il caso in cui l’autorizzazione sia stata rilasciata dal pubblico ministero anziché dal giudice per le indagini preliminari; Cass., sez. 5, 6 novembre 2002, n. 15538, per cui nessuna conseguenza può derivare dall’incompetenza dell’organo inquirente che la concessa, atteso che neppure l’eventuale mancanza dell’autorizzazione tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi). La mancata osservanza delle prescrizioni del codice di procedura penale, rilevante al fine della possibilità di utilizzare in sede penale i risultati dell’indagine, non incide, purché non siano violate le disposizioni del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 52 e 63, sul potere degli uffici dinanzi a e del giudice tributario di avvalersene a fini meramente fiscali, senza che ciò costituisca violazione dell’art. 24 cost. (Cass., sez. 5, 16 aprile 2007, n. 8990; Cass., sez. 5, 17 gennaio 2018, n. 959).

7. Con il settimo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “violazione o falsa applicazione dell’accordo tra la Svizzera dell’Italia, art. 4, che completa la convenzione Europea di assistenza giudiziale in materia penale del 20 aprile 1959 e ne agevola l’applicazione”, concluso il 10 settembre 1998 e ratificato dall’Italia con L. 5 ottobre 2001, n. 367, nonché medesima L. di ratifica, n. 367 del 2001, art. 4, e della convenzione Europea di assistenza giudiziale in materia penale 20 aprile 1959, artt. 2 e 5, ratificata in Italia dalla L. 23 febbraio 1961, n. 215, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″, in quanto l’accordo dalla Svizzera ed Italia, art. 4, che completa la convenzione Europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959, nonché la medesima L. di ratifica n. 367 del 2001, art. 4, oltre alla convenzione Europea di assistenza giudiziale in materia penale 20 aprile 1959, art. 25, non consentono l’utilizzazione di atti oggetto di rogatoria penale nell’ambito di una procedura di natura fiscale a carattere penale o amministrativo. Non può, dunque, condividersi la pronuncia del giudice d’appello il quale si è limitato ad affermare che il diritto di difesa del contribuente sarebbe stato liberamente e pienamente esercitabile ed esercitato. In realtà, il ricorrente, oltre a contestare la lesione del proprio diritto di difesa in relazione all’utilizzo di dichiarazione di terzi, aveva eccepito anche che gli avvisi per gli anni 2004 e 2005 erano fondati esclusivamente sull’illegittimo utilizzo di documentazione proveniente da rogatorie penali internazionali. Del resto, lo stesso Ufficio, nelle controdeduzioni, aveva affermato che i documenti utilizzati, posti a fondamento degli avvisi di accertamento, erano stati legittimamente acquisiti nel corso di rogatoria internazionale dalla magistratura penale, per poi essere trasmessi per violazioni di carattere amministrativo-tributario alla Guardia di Finanza di (OMISSIS) e, infine, all’Agenzia delle entrate. Pertanto, l’innesco della verifica traeva origine proprio dalla violazione del patto stipulato con la Svizzera di non utilizzo, ai fini fiscali, delle rogatorie internazionali contenute nel fascicolo del procedimento penale n. 19195/05.

7.1. Il motivo è inammissibile.

7.2. Invero, come eccepito dalla Agenzia controricorrente, il ricorrente non si è mai doluto della utilizzazione di documentazione proveniente da rogatorie internazionali. Pertanto, stante il carattere di novità di tale doglianza, se ne deve dichiarare l’illegittimità.

Ove si volesse considerare proposta tale doglianza (con riferimento al motivo 4 dell’avviso 2004 ed al motivo 5 dell’avviso 2005 richiamati alle pagine 18 e 19 del ricorso per cassazione, come pure nell’appello principale, richiamato a pagina 21 del ricorso per cassazione) il motivo sarebbe comunque infondato.

7.3. Peraltro, a prescindere dalla considerazione che in gran parte la documentazione utilizzata dall’Ufficio si riferisce ad atti compiuti in Italia, e segnatamente a dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari da terzi e dallo stesso imputato, il motivo è infondato anche nel merito.

7.4. Invero, deve evidenziarsi che il diritto interno, sia in materia di imposte dirette (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, e art. 41 comma 2), sia in tema di imposta sul valore aggiunto (D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, comma) consente che gli accertamenti fiscali si svolgano con l’utilizzo di elementi comunque acquisiti, e quindi con “prove atipiche” o con dati acquisiti con forme diverse da quelle regolamentate (D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 22; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51). Peraltro, non è necessario che gli indizi siano plurimi, in quanto anche un unico indizio, se dotato dei requisiti della gravità e della precisione, può fondare una legittima ripresa a tassazione (Cass., sez. 5, 5 dicembre 2019, n. 31779, proprio con riferimento alle uniche risultanze rappresentante dalla lista Falciani; Cass., sez. 5, 12 febbraio 2018, n. 3276).

7.5. Va, poi, confermato l’indirizzo giurisprudenziale consolidato per cui, in materia tributaria, gli elementi raccolti a carico del contribuente dai militari della Guardia di Finanza senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale sono inutilizzabili in tale sede ai sensi dell’art. 191 c.p.p., ma sono pienamente utilizzabili nel procedimento di accertamento fiscale, stante l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello di accertamento tributario, secondo un principio, oltre che sancito dalle norme sui reati tributari (D.L. n. 429 del 1982, art. 12, successivamente confermato dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20), desumibile anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell’applicazione della legge penale (Cass., sez. 6, 28 maggio 2018, n. 13353; Cass., sez. 5, 24 novembre 2017, n. 28060); non devono essere violate, però, le Disp. del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 52 e 63 (Cass., sez. 5, 17 gennaio 2018, n. 959).

7.6. Infatti, non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento comporta, di per sé, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, esclusi i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (Cass., sez. 5, 16 dicembre 2011, n. 27149).

7.7. Peraltro, tale orientamento è stato seguito anche dalla giurisprudenza francese e segnatamente dalla Chambre criminelle, 27 novembre 2013, 1385.042, ove al paragrafo 3 si legge che “3) alors que si les preuves illicitement recueillies par des personnes prive’es sont recevables à la proce’dure, c’est à la condition que les autorite’s publiques ne soient pas intervenues, directement ou indirectement, dans leur obtention ou leur confection”, ossia “3 )mentre se nel procedimento sono ammissibili prove raccolte illegalmente da privati, è a condizione che le autorità pubbliche non siano intervenute, direttamente o indirettamente, per l’ottenimento o la preparazione”; con la conseguenza che “infatti, da un lato, gli archivi informatici contestati non costituiscono, ai sensi dell’art. 170 c.p.p., atti o documenti informativi suscettibili di essere annullati (“Quen effet, d’une part, les fichiers informatiques contestes ne constituent pas, au sens de l’article 170 du code de proce’dure pe’nale, des actes ou piees de ìinformation susceptibles d’e’tre annule’s”). In modo analogo si è pronunciata anche la giurisprudenza tedesca (Bundesverfassungsgericht -9 novembre 2010 – aBvR210/109).

7.8. Peraltro, questa Corte con le ordinanze gemelle nn. 8605 e 8606 del 28 aprile 2015 ha precisato che “… L’eventuale responsabilità penale dell’autore materiale della lista-questione che esula dalla vicenda processuale odierna, non risultando la condotta nemmeno posta in essere in Italia (vedi art. 7 c.p., rispetto alle ipotesi delittuose per le quali è astrattamente profilabile una competenza del giudice italiano in relazione a condotte commesse all’estero) – e comunque, l’illiceità della di lui condotta nei confronti dell’istituto bancario presso il quale operava non è in grado di determinare l’inutilizzabilità della documentazione anzidetta nel procedimento fiscale a carico del contribuente utilizzata dal Fisco italiano al quale è stata trasmessa dalle autorità francesi”. Si è infatti espressamente riconosciuta l’utilizzazione – persino in ambito penale-della lista Falciani sul presupposto che al confezionamento eventualmente illecito delle prove non aveva cooperato l’autorità pubbliche.

7.9. L’Amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche unico, con esclusione soltanto di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere stati acquisiti in violazione di “diritti fondamentali” di rango costituzionale. Pertanto sono utilizzabili nell’accertamento e nel contenzioso con il contribuente i dati bancari acquisiti dal dipendente di una banca residente all’estero e ottenuti dal Fisco italiano mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria, senza che assuma rilievo l’eventuale illecito commesso dal dipendente stesso e la violazione dei doveri di fedeltà verso l’istituto datore di lavoro e di riservatezza dei dati bancari, che non godono di copertura costituzionale e di tutela legale nei confronti del fisco medesimo. Spetta al giudice di merito, in caso di rilievi avanzati dall’Amministrazione, valutare se i dati in questione siano attendibili, anche attraverso il riscontro delle contestazioni mosse dal contribuente (Cass., n. 16951/2015; Cass., n. 32597/2019).

7.10. Tra l’altro, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 70, prevede che “per quanto non è diversamente disposto dal presente decreto si applicano, in materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni, le norme del codice penale e del codice di procedura penale”.

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31 bis, dispone, poi, che “l’amministrazione finanziaria provvede allo scambio, con le altre autorità competenti degli Stati membri dell’Unione Europea, delle informazioni necessarie per assicurare il corretto accertamento delle imposte di qualsiasi tipo riscosse da o per conto dell’Amministrazione finanziaria e delle ripartizioni territoriali”, con l’aggiunta al comma 5, che “non è considerata violazione del segreto d’ufficio la comunicazione da parte dell’Amministrazione finanziaria alle autorità competenti degli altri stati membri delle informazioni atte a permettere il corretto accertamento delle imposte sul reddito e sul patrimonio”.

Pertanto, il principio di generale inutilizzabilità degli elementi di prova irritualmente acquisiti, sancito dall’art. 191 c.p.p., costituisce regola propria del procedimento penale e non è immediatamente trasferibile in ambito tributario, neppure utilizzando il richiamo contenuto nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 70, stante la natura sussidiaria e residuale di tale disposizione, che legittima il ricorso alle norme del codice penale di rito nel solo caso in cui l’accertamento della violazione tributaria non trovi una specifica disciplina delle disposizioni del Tuir (Cass., sez. 5, 14 novembre 2019, n. 29632; Cass., sez. 5, 17 gennaio 2018, n. 959); tale ipotesi però deve essere esclusa nella fattispecie in esame in cui l’esercizio dei poteri istruttori ai fini fiscali è compiutamente disciplinato dal D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e ss., e dall’art. 31 bis, con riferimento agli scambi di informazioni tra la messa sulle finanziaria italiana e le autorità competenti degli altri paesi dell’unione Europea, senza possibilità di ravvisare spazi residuali di ricorso alle norme del procedimento penale

7.11. In relazione alla lista Falciani si è affermato che, è legittima l’utilizzazione di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale, ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge e salvi i casi in cui venga in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale. Ne consegue che sono utilizzabili ai fini della pretesa fiscale, nel contraddittorio con il contribuente, i dati bancari trasmessi dall’autorità finanziaria francese a quella italiana, ai sensi della Dir. 19 dicembre 1977, n. 77/799/CEE, senza onere di preventiva verifica da parte dell’autorità destinataria, sebbene acquisiti con modalità illecite ed in violazione del diritto alla riservatezza bancaria (Cass., 19 dicembre 2019, n. 33893; Cass., sez. 6-5, 28 aprile 2015, n. 8605; Cass., sez. 6-5, 8606/2015; Cass., 6-5-, 17183/2015; Cass. 6-5, 16950/2015; per la lista Vaduz cfr. Cass., sez. 5, 19 agosto 2015, n. 16950; per la lista Pessina vedi Cass., sez. 5, 26 agosto 2015, n. 17183); pe-altro, il giudice può fondare il proprio convincimento anche su una sola presunzione semplice purché grave e precisa (per la lista Falciani cfr. Cass., sez. 5, 12 febbraio 2018, n. 3276; recentemente anche Cass., sez. 6-5, 18 settembre 2020, n. 19446).

7.12. Peraltro, la Dir. del Consiglio n. 77/799/CEE, prevede al sesto considerando che “gli Stati membri devono scambiarsi reciprocamente, su richiesta, informazioni per quanto riguarda un caso preciso e che lo Stato cui viene rivolta la richiesta deve provvedere a effettuare le ricerche necessarie per ottenere tali informazioni”.

La Dir., art. 1, poi dispone che “le competenti autorità degli Stati membri scambiano, conformemente alla presente direttiva, ogni informazione atta a permettere loro una corretta determinazione delle imposte sul reddito e sul patrimonio”.

La Dir., art. 4, precisa (scambio spontaneo) che “Le autorità competenti di ogni Stato membro comunicano, senza che ne sia fatta preventiva richiesta, le informazioni di cui all’art. 1, paragrafo 1, in loro possesso, all’autorità competente di ogni altro Stato membro interessato, quando: a) l’autorità competente di uno Stato membro ha fondati motivi di presumere che esista una riduzione od un esonero di imposta anormali nell’altro Stato membro”.

Nella specie, non può ritenersi illegittima l’attività posta in essere dall’Amministrazione fiscale interna su impulso di quella francese in forza della Dir. n. 799 del 1977, tenuto conto che alla base della riservatezza dei rapporti tra banche e clienti non ci sono valori della persona umana da tutelare, ma ci sono solo interessi patrimoniali ed istituzioni economiche (Cass., sez. 6-5, 18 settembre 2020, n. 19446).

7.13. Peraltro, la Convenzione Italia Svizzera in materia di assistenza giudiziaria in sede penale del 20-4-1959 prevedeva all’art. 1, che “le parti contraenti si obbligano ad accordarsi reciprocamente, secondo le disposizioni della presente convenzione, l’assistenza giudiziaria più ampia possibile in qualsiasi procedura concernente reati….”. All’art. 2, si disponeva che “l’assistenza giudiziaria potrà essere rifiutata: a) se la domanda si riferisce a reati considerati dalla parte richiesta come reati politici o come reati connessi con reati politici o con reati fiscali”.

Tuttavia, nel protocollo addizionale del 10-9-1998, entrato in vigore il 1-6-2003, l’art. 1 della predetta Convenzione risulta così modificato, al comma 3, “l’assistenza giudiziaria è concessa anche qualora il procedimento riguardi fatti che costituiscono truffa in materia fiscale così come definita dal diritto dello Stato richiesto”.

7.14. Non rientra, comunque, quale limite alla cooperazione informativa il segreto bancario, come chiarisce la Dir. n. 2011/16/UE, all’art. 18 (“…non può in nessun caso essere interpretato nel senso di autorizzare l’autorità interpellata di uno Stato membro a rifiutare di fornire informazioni solamente perché tali informazioni sono detenute da una banca, da un altro istituto finanziario, da una persona designata o che agisce in qualità di agente o fiduciario o perché si riferiscono agli interessi proprietari di una persona”).

Ciò è del resto coerente con il diritto interno, stante la disciplina in materia di accesso ai dati bancari introdotta dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 18, non costituendo il segreto bancario, anche nel regime anteriore, un principio inderogabile (Cass., n. 16950/2015, cit.). Si è anzi precisato che, al dovere del segreto bancario, cui sono tradizionalmente tenuti gli istituti di credito, non corrisponde per i singoli clienti delle banche una posizione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta, né un diritto della personalità, poiché la sfera di riservatezza con la quale vengono tradizionalmente circondati i conti e le operazioni degli utenti dei servizi bancari è direttamente strumentale all’obiettivo della sicurezza e del buon andamento dei traffici commerciali, che non può spingersi fino al punto di farne un ostacolo all’adempimento dei doveri inderogabili di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, ai sensi dell’art. 53 Cost. (Corte Cost. 51/1992).

8. Con l’ottavo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81, comma 1, lett. c-bis (vigente all’epoca dei fatti, oggi art. 67), ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” in quanto, con riferimento al periodo di imposta 2003, il giudice d’appello ha erroneamente ritenuto che la plusvalenza si sia formata nel 2003, prendendo ad esclusivo riferimento gli accrediti avvenuti nel 2003 sulle relazioni bancarie (OMISSIS) e (OMISSIS), erroneamente ritenute riferibili al contribuente, nonostante tali accrediti non rappresentassero il momento in cui detta plusvalenza si era concretizzata. Dalle dichiarazioni dello S. che aveva affermato di essere soggetto fittiziamente interposto e che trattavasi di “averi appartenenti in realtà a F.G.” si era dedotto che fossero movimenti relativi all’anno 2003, dimenticando però che la plusvalenza era stata monetizzare all’anno precedente, ossia nel 2002, con l’accredito del conto BPL Suisse, dovendosi applicare la tassazione delle plusvalenze secondo il principio di cassa. Pertanto, in realtà il presupposto impositivo si era verificato in capo ad altri soggetti (lo S.) ed in alto periodo di imposta (danno 2002). A nulla rileva, poi, la successiva ripartizione della plusvalenza fra altri soggetti, avvenuta soltanto l’anno successivo, nel 2003. Del resto, non risulta nemmeno provata l’appartenenza del bene al patrimonio del contribuente.

8.1. Il motivo è inammissibile.

8.2. Anzitutto, si rileva che l’appello è stato depositato il 3 luglio 2013, sicché trova applicazione l’art. 348-ter c.p.c., con il connesso principio della “doppia conforme” del giudizio di merito, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, in vigore per gli appelli depositati a decorrere dall’11 settembre 2012.

Pertanto, nella specie, sia il giudice di primo grado che quello d’appello hanno ritenuto, sulla scorta delle dichiarazioni di S.S., che la somma di Euro 2.750.000,00 era stata alimentata dalle rimesse dal conto corrente B. e ricevuta il (OMISSIS) con bonifico dalla BPL Suisse. Successivamente, su richiesta del F. la somma di Euro 1.800.000 era stata ripartita in parti sostanzialmente uguali sui conti (OMISSIS) e (OMISSIS), per la somma di Euro 924.357,66, per ciascuno, con due bonifici del (OMISSIS).

8.2. Il ricorrente propone un vizio di motivazione rubricato con la violazione e falsa applicazione di legge, e segnatamente del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81, comma 1, lett. C (attuale art. 67 Tuir), ma in realtà chiede una nuova valutazione degli elementi istruttori acquisiti nel giudizio di merito, non consentita in questa sede, anche con riferimento all’esistenza di un doppio giudizio conforme di merito, ex art. 348-ter c.p.c..

8.3. Il giudice d’appello, con riferimento all’anno 2003, ha affermato, con congrua e sufficiente motivazione, che la sentenza impugnata “e’ motivata e circostanziata nel dettagliare sia i movimenti sia le circostanze che riconducono al ricorrente la titolarità, ancorché per interposizione, delle disponibilità allegate alle relazioni (OMISSIS) e (OMISSIS) collegate al conto corrente bancario (OMISSIS), rilevate dalle dichiarazioni dello S. circa il proprio operare per conto di F. come dai documenti relativi alle sottoscrizioni del consulente fiduciario svizzero Avv. G.F. che ha operato per il fiduciante F.”.

9. Con il nono motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, e del D.P.R. n. 917 del 1986, “Tuir”, art. 67, comma 1, lett. I, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″, in quanto, con riferimento al periodo d’imposta 2004, il giudice d’appello si è limitato ad affermare l’esistenza di somme nella titolarità del contribuente, senza però valutare la prova contraria fornita dallo stesso, ai sensi del D.L. n. 78 2009, art. 12, comma 2. In realtà, nel processo verbale di contraddittorio del (OMISSIS), relativo alla procedura di accertamento con adesione per il periodo d’imposta 2005, l’Ufficio aveva ammesso che il contribuente aveva fornito la prova contraria (“dalla suddetta documentazione è stato possibile evincere che le consistenze economiche appostate su conto bancario Targum Inc. di (OMISSIS) venivano costituite dal Dott. F. in anni anteriori al periodo di imposta 2004, risultando in tal modo superata la presunzione di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12 comma 2”). La prova contraria, relativa all’anno 2004, era stata ammessa, dichiarata e confermata dall’Ufficio stesso in data (OMISSIS).

9.1. Il motivo è inammissibile.

Anche in questo caso il motivo di impugnazione in cassazione non poteva consistere nel vizio di motivazione, in quanto precluso per la presenza della doppia decisione conforme nel merito, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c..

Il giudice d’appello, peraltro, con riferimento all’anno di imposta 2004, ha reso una motivazione precisa, agganciata a dati di fatto presenti in giudizio (“in relazione all’avviso di accertamento per il 2004 la sentenza impugnata deve ritenersi corretta nella parte in cui espone in modo non censurabile l’ascrivibilità all’appellante delle relazioni formalmente intestate a Targum Familierstiftung Vaduz in merito alle cui risultanze portate dall’Agenzia l’appellante opponeva solo le affermazioni già dedotte in sede di accertamento con adesione con la conseguente corretta decisione del giudice di prime cure che ha ritenuto provata l’affermazione dell’Ufficio circa la titolarità sostanziale di tale relazione in capo al F. seppure per la diversa quantità dell’importo relativo al reddito imponibile accertato ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis, determinato in Euro 1.664.114,00, come dei redditi diversi determinati in Euro 433.824,00 anziché in Euro 660.000,00”.

Si chiede, dunque, una nuova ed inammissibile rivalutazione degli elementi istruttori, non consentita in questa sede.

10. Con il decimo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto, anche con riferimento all’anno di imposta 2005, l’Ufficio, pur applicando la presunzione legale relativa di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, ha omesso di tenere conto della prova contraria fornita dal contribuente, idonea a vincere la presunzione da essa prevista. In particolare, l’uso della presunzione legale relativa riguardava anche l’avvenuta stratificazione dei valori delle attività finanziarie estere del contribuente in periodi di imposta anteriori a quelli oggetto di accertamento. L’esistenza di una prova contraria alle contestazioni dell’Ufficio era presente già negli atti della guardia di finanza, per dimostrare che le consistenze delle relazioni bancarie si erano stratificate in anni precedenti a 2005. In particolare, con riferimento alla relazione bancaria (OMISSIS) per Euro 27.743,23, tale disponibilità risultava già in conto alla data del 31 dicembre 2004. Con riferimento alla relazione bancaria (OMISSIS), per Euro 65 1972,23, è agli atti la prova che la presente relazione è stata accesa in data 24 marzo 1999, come risulta dalla documentazione bancaria allegata al processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza elevato in data (OMISSIS). Con riferimento relazione bancaria (OMISSIS), per Euro 20.775.770,34, si evidenzia che il F. non è titolare, né intestatario di tale relazione, avendo unicamente un diritto di credito costituito da n. 400.000 azioni autostrade S.p.A. ora Atlantia S.p.A.. Le consistenze di detta relazione sono ancora oggetto di sequestro penale. La relazione (OMISSIS) è stata, poi, aperta nel 2002 e nel giugno del 2004 presentava un saldo attivo. Pertanto, le azioni di (OMISSIS) non derivano da investimenti effettuati nell’anno 2005, in quanto già in essere in annualità precedente, come risulta dalla documentazione in atti. Con riferimento alla relazione (OMISSIS) per Euro 1.087.825,34, il contribuente non è titolare, né intestatario di tale relazione. Inoltre, la consistenza di detta relazione non è da attribuirsi a redditi conseguiti nel 2005 e non dichiarati, in quanto la disponibilità proveniva da un bonifico effettuato in data 3 agosto 2004 come da avviso di addebito della banca del (OMISSIS). Con riferimento alla relazione (OMISSIS), per Euro 100.000,00, tale disponibilità proveniva da epoca precedente al 2005 e, pertanto non può essere legittimamente riconosciuta come reddito sottratto a tassazione.

10. Il motivo è inammssibile.

Anche in questo caso, come per i motivi precedenti, il contribuente non avrebbe potuto articolare un motivo di impugnazione per cassazione fondato sul vizio di motivazione, impedendolo l’art. 348-ter c.p.c., in presenza di una doppia decisione conforme nel merito.

Il giudice d’appello, con riferimento all’anno 2005 ha chiarito che “non hanno pregio le lagnanze dell’appellante atteso che la sentenza di prime cure oltre ad essere ben motivata e dettagliata ripercorre tutti i rapporti relativi alle relazioni di cui l’Agenzia ha ritenuto poter ascrivere al F. la titolarità sostanziale”.

Subito dopo, la Commissione regionale si è soffermata sulle singole relazioni bancarie, evidenziando che “dalle dichiarazioni di S.S. assunte in sede penale sia dalle dichiarazioni rese dallo stesso F.G. in sede di interrogatorio penale come attraverso un sistema di interposizioni fittizie e fiduciarie quest’ultimo fosse il reale titolare delle relazioni (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)”.

Il giudice d’appello anche precisato che “con riferimento al conto bancario intestato a Zachs engineering Corp. risulta dalle stesse dichiarazioni del F., come rilevato nella motivazione della sentenza, che non risulta sul punto censurabile, che lo stesso condivideva con Marmont la società Zachs i cui conti sono di qualche centinaia di migliaia di Euro”.

Conclude la decisione che “in sentenza si rende evidente che l’affermazione dell’appellante ribadita in udienza dal difensore circa il fatto di vantare unicamente un diritto di credito quantificato in 400.000 azioni Atlantia è risultato smentito dalle sue stesse dichiarazioni come rilevato correttamente nelle motivazioni la sentenza impugnata”.

Si chiede, quindi, anche in questo caso una nuova valutazione degli elementi istruttori, già compiuta in modo congruo, dal giudice di merito, con duplice decisione conforme, non consentita in questa sede.

11. Con l’undicesimo motivo il ricorrente si duole della “nullità della sentenza o del procedimento per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto il giudice d’appello si è limitato ad accertare la titolarità delle relazioni bancarie in capo al contribuente. Tuttavia, se la Commissione regionale avesse valutato accuratamente le allegazioni del F. avrebbe compreso, con riferimento alla relazione (OMISSIS), in relazione all’anno 2005, che il reddito attribuito dall’Ufficio alle attività finanziarie contenute nella stessa relazione, e rappresentate da azioni della società autostrade S.p.A., faceva riferimento al valore attuale al 2005, mentre il valore d’acquisto indicava che l’investimento risultava effettuato in anni precedenti al 2005. La Commissione regionale, dunque, aveva omesso di pronunciarsi in ordine al motivo di nullità dell’avviso di accertamento relativo all’anno 2005. Infatti, dall’estratto conto del patrimonio 31 dicembre 2005 emerge che l’Ufficio ha accertato come reddito diverso in capo ad entrambi i coniugi un valore complessivo superiore del 40% rispetto al valore originario della consistenza della relazione. Si è passati, da un valore delle n. 455.000 azioni, con corso medio di Euro 14,56, per un valore di acquisto medio di Euro 6.624.800, ad un valore corrente di Euro 9.291.100,00, con il corso attuale di Euro 20,42. In realtà, l’investimento risulta effettuato in anni precedenti a 2005.

11.1. Il motivo è inammissibile.

11.2. Invero, si chiede alla corte una rivalutazione delle istanze istruttorie, già compiuta in modo congruo è sufficiente dal giudice d’appello, non consentita in sede di legittimità.

Infatti, benché la rubrica del motivo si soffermi sul vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c., in realtà, dal corpo della motivazione della censura, è lampante il riferimento ad un nuovo esame dei dati istruttori presenti in atti.

12. Con il dodicesimo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “in via subordinata” la “violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il contribuente ha eccepito la non applicabilità delle sanzioni amministrative pecuniarie ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10. Il giudice d’appello ha ritenuto infondata l’eccezione, attraverso una falsa ed erronea applicazione di tale norma. L’eccezione si basava sulla violazione dell’affidamento del contribuente allo scudo fiscale, oltre che sulla incertezza interpretativa, che insorgeva a causa delle interpretazioni ed argomentazioni dell’Ufficio sulle cause ostative allo scudo fiscale. Erano presenti, dunque, le obiettive condizioni di incertezza tali da impedire l’applicazione delle sanzioni.

12.1. Il motivo è infondato.

12.2. Invero, il giudice d’appello ha correttamente ritenuto non sussistenti le obiettive situazioni di incertezza ed ha affermato che “non ha pregio neppure la lamentata erroneità della sentenza, che non è censurabile sul punto, in ordine alla richiesta idi non applicazione delle sanzioni considerato che correttamente rileva il giudice di prime cure la violazione delle norme tributarie non dipende da obiettive condizioni di incertezza e sull’ambito di applicazione della norma tributaria”.

Pertanto, il giudice d’appello, valutando la condotta del contribuente, che ha detenuto all’estero per numerosi anni somme di ingentissimo valore, senza dichiararle in Italia, procedendo, peraltro, ad una dichiarazione riservata di accesso allo scudo fiscale, quando già erano iniziati gli accertamenti nei suoi confronti, essendo stato destinatario del questionario, prima del deposito di tale dichiarazione, ha compiutamente argomentato la sua decisione.

13. Con il tredicesimo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “in via subordinata”, la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto l’Ufficio avrebbe dovuto operare il cumulo giuridico delle sanzioni anziché il cumulo materiale. Quanto affermato dal giudice d’appello, ossia il fatto che il cumulo giuridico risultava in un maggior carico di sanzioni rispetto al cumulo materiale, si riferiva gli avvisi di accertamento presi singolarmente, anziché cumulativamente come richiesto dal contribuente nei distinti ricorsi introduttivi.

13.3. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità.

Come chiarito dal giudice d’appello, attraverso un accertamento in fatto che non è possibile sindacare in questa sede in quanto congruamente motivato, le sanzioni devono “ritenersi correttamente applicate dall’Ufficio che ha spiegato nel dettaglio l’iter argomentativo in modo esauriente secondo la metodologia che ha dimostrato che il cumulo giuridico avrebbe comportato una sanzione complessiva superiore a quella ottenuta con il cumulo materiale”.

Invero, il ricorrente non censura in modo specifico la motivazione del giudice di appello, limitandosi ad articolare una doglianza senza spiegare in alcun modo la ragione per cui l’applicazione del cumulo giuridico avrebbe comportato “in concreto” l’irrogazione di una sanzione di minore importo rispetto a quella emessa nei suoi confronti. Sarebbe stato necessario esporre, con precisi dati numerici e con l’indicazione del calcolo matematico, almeno in modo embrionale, l’effetto più favorevole per il contribuente in caso di applicazione del cumulo giuridico.

14. Con il ricorso incidentale l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36 comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto l’Agenzia delle entrate era risultata parzialmente soccombente nel giudizio di primo grado, stante l’accoglimento parziale del ricorso da parte della Commissione tributaria provinciale, che aveva rideterminato le riprese in base alla misura della proposta formulata dall’Ufficio, in sede di procedimento di accertamento con adesione, poi non perfezionatosi. In tale fase, tuttavia, sono stati valorizzati, in un’ottica transattiva, atti e documenti dei quali il contribuente non avrebbe potuto giovarsi in giudizio. Nell’appello incidentale, quindi, l’Ufficio aveva censurato l’utilizzazione, da parte della CTP, di documenti che non erano stati prodotti dal contribuente nella fase amministrativa, nonostante la rituale richiesta comunicata dall’Agenzia e nonostante che questa avesse formulato l’avvertenza circa la successiva inutilizzabilità in giudizio dei documenti non esibiti. A fronte di tale specifico motivo di appello incidentale, la Commissione regionale si è limitata alla lapidaria affermazione “per le medesime ragioni deve ritenersi infondato l’appello incidentale dell’Ufficio”, sicché sì è in presenza di una assoluta inesistenza della motivazione sul punto.

14.1. Il motivo è fondato.

In effetti, ber ché la questione della utilizzazione dei documenti in giudizio da parte del contribuente, che non li aveva depositati dinanzi all’Agenzia delle entrate, fosse stata sollevata in sede di appello incidentale da parte dell’Agenzia, il giudice d’appello si è limitato ad una laconica affermazione contenuta nell’ultima risa della motivazione (“per le medesime ragioni deve ritenersi infondato l’appello incidentale dell’Ufficio”).

Pertanto, si è in presenza sostanzialmente di un omessa motivazione sullo specifico motivo di appello incidentale articolato dall’Agenzia delle entrate. Tutte le argomentazioni ed i ragionamenti precedenti, infatti, erano relativi all’impugnazione principale del contribuente ed all’esame analitico degli avvisi di accertamento degli anni 2003, 2004 e 2005.

Tali argomentazioni della decisione non avevano alcuna attinenza con la questione specifica della possibilità o meno, per il contribuente che non aveva prodotto la documentazione dinanzi all’Agenzia delle entrate, nonostante la specifica richiesta e l’avvertimento circa l’impossibilità di un successivo deposito, di produrre i documenti nel corso del giudizio, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32.

15. La sentenza deve, dunque, essere cassata, limitatamente al ricorso incidentale, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA