Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20609 del 19/07/2021

Cassazione civile sez. VI, 19/07/2021, (ud. 11/11/2020, dep. 19/07/2021), n.20609

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COSENTINO Antonello – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8344-2019 proposto da:

C.B.G., in proprio e nella qualità di legale

rappresentante pro tempore della PRATA PRODOTTI ALIMENTARI TIPICI

ABRUZZESI SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MICHELE

MERCATI n. 51, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RENZI, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati FABRIZIO MARINELLI,

MARIA CRISTINA CERVALE;

– ricorrente –

contro

GIADA 91 SRL, R.P. E C. SAS, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA,

PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE,

rappresentate e difese dagli avvocati MARIA LEONE, FRANCO LEONE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1689/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 17/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata dell’11/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA

FALASCHI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Con ricorso depositato il 22 settembre 2008, la Giada 91 s.r.l. e la R.P. s.a.s. proponevano nei confronti di C.B. e Prata s.r.l. domanda per la chiusura dell’apertura che questi ultimi avevano realizzato in un muro divisorio che dava l’accesso ad una scala, con vano scala e corridoio di accesso alle loro proprietà esclusive, separate da quella del C. da detto muro, che il Tribunale di L’Aquila adito, nella resistenza dei convenuti, con sentenza n. 504 del 2011, accoglieva ordinando il ripristino dello stato dei luoghi.

Adita dal C. in proprio e quale legale rappresentante della Prata, con sentenza n. 1689 depositata il 18.09.2018, la Corte d’appello di L’Aquila, nella resistenza degli appellati, ha rigettato l’impugnazione, per delimitare i titoli posti a base della servitù il passaggio nella sequenza dell’ingresso dal civico n. (OMISSIS) con l’apertura della porta, di cui era stata consegnata la chiave, e l’utilizzo della relativa scala, diversamente dal percorso con la nuova apertura che immetteva immediatamente nel vano scala della proprietà Prata – C., ponendo in comunicazione il vano scala con il civico di ingresso di detta proprietà, per cui debordava dai limiti previsti nel titolo convenzionale; aggiungeva che solo in ipotesi di dubbio circa l’estensione e le modalità di esercizio della servitù sarebbe stato necessario effettuare il bilanciamento ai sensi dell’art. 1065 c.c..

Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il C. anche quale legale rappresentante della Prada Prodotti Alimentari Tipici Abruzzesi s.r.l., sulla base di due motivi, cui resistono le originarie società attrici con controricorso. Ritenuto che il ricorso potesse essere rigettato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata ai difensori delle parti, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In prossimità dell’adunanza camerale parte ricorrente ha anche depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

ATTESO

che:

con il primo motivo il ricorrente lamenta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1065,1067 e 1068 c.c., in materia di esercizio del diritto di servitù. Ad avviso del C. il suo diritto troverebbe titolo oltre che nell’atto di acquisto, nella sentenza del Tribunale di L’Aquila del 2001 (confermata in appello) che ha riconosciuto l’esistenza della servitù in favore della sua proprietà di accedere ai tetti, servitù che attraverso l’apertura realizzata rende meno incomodo l’esercizio della servitù stessa.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione o la falsa applicazione dell’art. 1064 c.c., in materia di estensione del diritto di servitù, nonché dell’art. 1102 c.c., sull’uso delle cose comuni. Secondo il C. avendo egli acquistato una parte ulteriore dell’immobile dove si trova l’apertura de qua, questa consentirebbe un più agevole accesso nel vano scala, oltre a trattarsi di porta che già esisteva e che era stata richiusa con mattoni.

I due motivi – da trattare congiuntamente per la evidente connessione argomentativa – non possono trovare ingresso.

Il thema decidendum del giudizio tende a stabilire quali dovessero essere le concrete modalità di esercizio di tale servitù, in ragione del permanente contrasto tra le parti, circa la necessità o meno della porta, di recente realizzazione, attraverso la quale il C. poteva accedere alla parte superiore dell’immobile appartenente ai controricorrenti.

Nel contrasto tra le parti in ordine alle modalità di esercizio della suesposta servitù, in funzione della quale il ricorrente sostiene il proprio diritto a mantenere detto accesso e le società attrici che lo negano, era onere, ex art. 2697 c.c., comma 1, del convenuto provare che tale facoltà gli competesse, ai sensi dell’art. 1063 c.c., in base al titolo, tenuto conto della natura e dell’estensione della servitù come dallo stesso disciplinata, oppure, in difetto di espressa disciplina contenuta nel titolo costitutivo, in base alle modalità dell’esercitato possesso, tenuto conto di quanto previsto dall’art. 1065 c.c., comma 1. Fermi i restanti i principi, rispettivamente dettati dell’art. 1064 c.c., comma 1 e art. 1064 c.c., u.p., secondo i quali il diritto di servitù comprende tutto ciò che è necessario per usarne e, nel dubbio la servitù deve ritenersi costituita in modo tale da assicurare il bisogno del fondo dominante con il minore aggravio di quello servente, principi che vanno in concreto contemperati, nell’ambito di una equilibrata valutazione comparativa delle opposte esigenze delle parti, il divieto di innovazioni, comportanti l’aggravamento della servitù, nel quadro della disciplina delle servitù (su cosa aliena), la legittimità di un uso più intenso (consentito per le cose comuni nei limiti di cui all’art. 1102 c.c.), è sancito il divieto di innovazioni che rendano più gravosa la condizione del fondo servente (art. 1067 c.c.), e in tal senso la giurisprudenza della corte ha espresso il principio per cui l’ampliamento di finestre o la loro sostituzione con balconi in aggetto o altri manufatti può concretare un siffatto aggravamento di servitù (v. in generale Cass. 11 gennaio 2006 n. 209; Cass. 8 luglio 2014 n. 15538; ma già Cass. 13 ottobre 1979 n. 5362 e Cass. 17 aprile 1981 n. 2324). Giova, infatti, ribadire il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale l’aggravamento dell’esercizio della servitù, operata sul fondo dominante, va verificato accertando se l’innovazione abbia alterato l’originario rapporto con quello servente e se il sacrificio, con la stessa imposto, sia maggiore rispetto a quello originario, a tal riguardo valutandosi non solo la nuova opera in sé, ma anche con riferimento alle implicazioni che ne derivino a carico fondo servente, assumendo in proposito rilevanza non soltanto i pregiudizi attuali, ma anche quelli potenziali connessi e prevedibili, in considerazione dell’intensificazione dell’onere gravante sul fondo servente.

Le argomentazioni criticate risultano invero in piena sintonia con i principi sopra esposti giacché la realizzazione di un ulteriore accesso alla proprietà servente integra di per sé l’aggravamento, implicando una duplicazione degli ingressi.

Principio, questo valutato, con indagine di fatto riservata al giudice di merito, in relazione alla concreta incidenza che tale mutamento ha comportato sull’entità dell’onere gravante sul fondo servente, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente, quindi, la corte distrettuale ha preso in esame la questione.

In conclusione il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 2.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a nonna dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della VI-2 Sezione Civile, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2021

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