Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20609 del 07/10/2011

Cassazione civile sez. III, 07/10/2011, (ud. 14/06/2011, dep. 07/10/2011), n.20609

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMATUCCI Alfonso – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15470/2009 proposto da:

P.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DARDANELLI 37, presso lo studio dell’avvocato TRALDI

STEFANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

PAGANELLI ENRICO giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

R.M. (OMISSIS), R.L.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLE

MEDAGLIE D’ORO 266, presso lo studio dell’avvocato D’ASCIA GIOVANNI

BATTISTA, rappresentati e difesi dall’avvocato DI VALENTINO GIOVANNI

giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1242/2008 della CORTE D’APPELLO di MILANO, 2^

SEZIONE CIVILE, emessa il 2/4/2008, depositata il 07/05/2008, R.G.N.

729/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/06/2011 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito l’Avvocato STEFANO TRALDI;

udito l’Avvocato CLAUDIA MARENZI per delega dell’Avvocato GIOVANNI DI

VALENTINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per l’accoglimento del 4^ motivo

assorbiti gli altri.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. P.S. propone ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, depositata il 7 maggio 2008, che – in relazione a controversia promossa per il risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo di una lettera inviata da R.A.P. alla Prefettura di Pavia – ha confermato la sentenza di primo grado, la quale aveva ritenuto prescritto il diritto all’indennizzo, osservando che: a. nella diffamazione, l’illecito istantaneo si perfeziona ed il danno alla reputazione si verifica nel momento in cui la comunicazione lesiva dell’altrui reputazione raggiunga un secondo soggetto, in tale momento sorgendo sia il diritto di querela per il reato che quello al risarcimento dei danni per l’illecito civile, sicchè il Tribunale aveva correttamente individuato il dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento in quello in cui la lettera del R., già lasciata in copia presso lo studio del geom. C. era pervenuta alla Prefettura (21.12.1993), restando irrilevante l’eventuale ulteriore propalazione della comunicazione diffamatoria;

nè assumeva rilievo che il P. ignorasse l’esistenza della lettera, posto che il danno alla reputazione, anche se da lui non conosciuto, si era già prodotto; b. nè poteva trovare applicazione l’art. 2947 c.c., comma 3, ed assumere rilievo la data di morte del R., posto che il termine quinquennale per l’esercizio del diritto al risarcimento si era già consumato all’atto della proposizione della denuncia querela e del conseguente avvio dell’azione penale, nè essi avrebbero potuto rimettere in termini il danneggiato facendo decorrere un nuovo periodo di prescrizione. Gli eredi del R. resistono con controricorso, chiedendo il rigetto del ricorso.

2. Col primo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 2935 e 2724 c.c., per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto che, ai fini dell’impossibilità dell’esercizio del diritto al risarcimento, rilevino solo le cause giuridiche che l’ostacolino, non gli impedimenti di mero fatto e, in genere, quelli relativi alla sfera soggettiva del titolare del diritto, senza tenere conto che avrebbe dovuto assumere, invece, rilievo il momento in cui la produzione del danno si fosse manifestata all’esterno divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile. Chiede alla Corte se “in caso di diritto al risarcimento del danno da fatto illecito altrui deve ritenersi indispensabile, ai fini della prescrizione quinquennale, che il danneggiato venga posto in condizione di conoscere e percepire l’esistenza e la gravità del danno prodotto dall’azione del terzo responsabile sia per dolo che per colpa, non potendo diversamente la prescrizione estintiva iniziare a decorrere legittimamente nei suoi confronti”.

3. Col secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 2947 c.c., comma 3, per non avere la Corte territoriale tenuto conto che la prescrizione avrebbe dovuto decorrere dalla morte del R. o dalla data della pronuncia di estinzione del reato per tale causa e chiede alla Corte se “in caso di estinzione del reato per causa diversa dalla prescrizione accertata in sede penale, il diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’indicata norma si prescriva nel termine di cinque anni con decorrenza dalla data di estinzione del reato, anche se dovesse eventualmente risultare nella causa civile risarcitoria che il reato si sia estinto per prescrizione”.

4. Col terzo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 92 c.p.c. e chiede alla Corte se “in materia di spese di lite debba essere valutata in favore della parte soccombente, oltre alla condotta moralmente apprezzabile dalla stessa tenuta, anche il comportamento processuale della parte vittoriosa che appaia in contrasto con i principi di lealtà, probità e correttezza previsti dall’art. 88 c.p.c. e tali da costituire, in caso di soccombenza, motivo di risarcimento del danno per responsabilità aggravata”.

5. La censura di cui al primo motivo è fondata, nei termini di seguito precisati.

5.1. La Corte territoriale ha affermato che “nella diffamazione, l’illecito istantaneo si perfeziona ed il danno alla reputazione si verifica nel momento in cui la comunicazione lesiva dell’altrui reputazione raggiunga un secondo soggetto, in tale momento sorgendo sia il diritto di querela per il reato che quello al risarcimento dei danni per l’illecito civile”. L’affermazione – che può condividersi quanto all’individuazione del momento in cui si consuma il reato di diffamazione – non è corretta per quanto riguarda il momento di verificazione del danno risarcibile civilmente, specie ove si ponga mente che nella fattispecie è controversa l’attribuzione del “danno morale” conseguito all’indicato reato (come da conclusioni ed esposizione in fatto della sentenza impugnata). Del pari, l’affermazione della Corte di merito non è condivisibile quanto alla decorrenza del termine per la proposizione della querela.

5.2. Questa Corte ha avuto modo di affrontare la questione dell’interpretazione del concetto di “verificazione del danno” ai sensi dell’art. 2947 c.c. in rapporto alla decorrenza del termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni patrimoniali. In argomento, ha affermato che è vero che l’art. 2947 c.c., comma 1, prevede che “il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato”, per cui, in base al tenore letterale di detta norma il dies a quo della prescrizione dovrebbe decorrere dalla data del fatto. Tuttavia, detta norma va coordinata con le norme cardini sulla responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) e sulla decorrenza della prescrizione in generale (art. 2935 c.c.). L’art. 2043 c.c. prevede che “qualunque fatto, doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Il diritto al risarcimento del danno sorge non per effetto della sola esistenza del fatto illecito, e quindi della condotta (commissiva o omissiva) dell’agente, ma per l’effetto del danno che questa condotta ha causato. Nel danno patrimoniale tipico (art. 2043) vi sono, quindi più componenti: il “comportamento”, ovvero l’atto in sè riconducibile alla volontà dell’agente, “l’evento naturalistico”, legato da un nesso causale al comportamento, e “le conseguenze dannose patrimoniali”, in senso proprio, a loro volta connesse con l’evento. Sono proprio le conseguenze dannose che vanno risarcite a norma dell’art. 2043. Pertanto, nella struttura della responsabilità civile, ai sensi di detta norma, non c’è risarcimento se non c’è perdita e, perchè vi sia perdita, occorre che essa sia conseguenza di una lesione giuridica soggettiva (Corte Cost. 27.10.1994, n. 372).

5.3. Secondo l’art. 2935 c.c. “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Ne consegue che: se non c’è (ancora) il danno, non c’è (ancora) il diritto al risarcimento e, di conseguenza, non decorre alcuna prescrizione, anche se l’agente abbia già compiuto il fatto illecito. Pertanto, allorchè la norma di cui all’art. 2947 prevede che il termine di prescrizione di cinque anni decorre dalla data del fatto, essa va intesa nel senso che detta prescrizione decorre dalla data del danno, per il necessario coordinamento con gli artt. 2043 e 2935 c.c. Solo in questa maniera si evita l’assurdo per cui se tra il fatto ed il danno intercorre un periodo superiore ai cinque anni, il danneggiato in effetti sarebbe privo di tutela, in quanto, prima del danno non avrebbe diritto a risarcimento, proprio per l’assenza del danno, nonostante il fatto illecito, e dopo l’insorgenza del danno, egli si troverebbe con il diritto al risarcimento già estinto per prescrizione (Cass. n. 5913 del 9.5.2000, in motivazione).

5.4. Ricollegato, quindi, il dies a quo della decorrenza della prescrizione, anche ai sensi dell’art. 2947, al momento in cui il diritto al risarcimento può essere esercitato, cioè al momento in cui si è verificato il “danno” (patrimoniale) nel senso sopra definito, va specificato cosa si intenda per il “verificarsi del danno”. Come è stato già osservato da questa Corte (Cass. 5.7.1989, n. 3206; Cass. 4.1.1993, n. 13; Cass. 12.8.1995, n. n. 8845; Cass. 28.7.2000 n. 9927), la legge riconnette il sorgere di una responsabilità extracontrattuale ad una modificazione dannosa della realtà esteriore in rapporto di causalità con l’azione del danneggi ante e che si renda causa, quale conseguenza immediata e diretta, di una diminuzione della sfera patrimoniale altrui. Non è quindi sufficiente una semplice oggettiva realizzazione del danno, ma è necessaria una sua esteriorizzazione, conoscibilità o percepibilità, nonchè acquisto di rilevanza giuridica, momento questo al quale l’ordinamento ricollega la nascita del diritto al risarcimento e quindi la facoltà di esercitare i poteri connessi.

Diverse, poi, possono essere le conseguenze del comportamento illecito, a seconda che questo perduri nel tempo o si esaurisca in un solo atto, con conseguenze che possono essere temporanee o permanenti. In ogni caso, è la manifestazione del danno che assume rilievo, non solo la sua ontologica esistenza, iniziandosi soltanto con essa la lesione della sfera giuridica altrui (Cass. 1716/1979;

Cass. 1442/1983; 3206/1989; 3691/1995; 12666/2003; 0493/2006;

12699/2010; si veda anche Cass. S.U. n. 576/08).

5.5. Questo principio deve essere, comunque, coordinato con quello – posto a base della sentenza impugnata – secondo cui la semplice ignoranza del proprio diritto non preclude il decorso della prescrizione nè l’interrompe (Cass. n. 2406/1975; 21496/2005;

14576/2007). Pertanto, secondo detto indirizzo, non è la semplice ignoranza del danneggiato sull’esistenza di un danno da lui subito a precludere il decorso della prescrizione, in quanto gli stati di ignoranza soggettiva in cui versi il titolare del diritto costituiscono un mero impedimento di fatto. Ma, sulla base di quanto si è osservato nei precedenti punti, ciò che impedisce che inizi a decorrere la prescrizione è, in rapporto ai danni materiali, l’oggettiva non percepibilità e riconoscibilità all’esterno del danno e cioè l’oggettiva sua mancata esteriorizzazione (Cass. n. 5913/2000, in motivazione, cit.).

5.6. Della fattispecie dell’illecito civile di cui all’art. 2043 c.c. – integrante una norma generale che pone principi non derogati in caso di non patrimonialità delle conseguenze pregiudizievoli patite dalla vittima (art. 2059 c.c.) – costituisce elemento strutturale il danno, sicchè il diritto al risarcimento non è configurabile se il danno non si sia verificato. Quando il danno di cui si chiede il risarcimento consista – come nella specie – nella sofferenza morale soggettiva conseguita alla lesione della reputazione (discredito), la consapevolezza del fatto lesivo da parte della vittima ne costituisce lo stesso presupposto. Invero, in tanto può sussistere un turbamento psichico da intervenuta lesione della propria reputazione, in quanto il diffamato abbia avuto contezza dell’atto diffamatorio.

5.7. Ne deriva che, ove il danno morale soggettivo si verifichi – come nella specie – solo a seguito della conoscenza della diffamazione acquisita dalla persona offesa, prima di detto momento il diritto al risarcimento neppure esisteva. E, non esistendo il diritto, ovviamente, neppure poteva iniziare a decorrere il termine di prescrizione, posto che un diritto (al risarcimento) può essere fatto valere solo dopo che sia sorto (e presupponendo il risarcimento la verificazione del danno).

5.8. In ordine alla risarcibilità del danno non patrimoniale da reato, è ormai consolidato l’orientamento che afferma il pieno potere del Giudice civile di accertare astrattamente la sussistenza degli estremi del reato al solo fine di quantificare la lesione subita Cass. n. 17980/07; 729/05). Per quanto concerne, in particolare, il danno non patrimoniale consistente nella sofferenza d’animo a seguito del reato di diffamazione, la giurisprudenza è costante nel ritenere che “il danno non patrimoniale, quale sofferenza patita dalla sfera morale del soggetto leso, si verifica nel momento in cui la parte lesa ne viene a conoscenza (Cass. 9 agosto 2001 n. 10980; Cass. 10 marzo 1993 n. 24919. Con la conseguenza che, per l’individuazione del momento a partire dal quale (sorga e) possa essere fatto valere il diritto al risarcimento del danno morale da diffamazione rileva la percepibilità, da parte del soggetto offeso, della lesione dell’onore e del relativo discredito della reputazione (non essendo sufficiente la “percepibilità oggettiva” di detta lesione).

5.9. Solo così, peraltro, può essere correttamente instaurato un parallelismo tra diritto a proporre querela ed esercitabilità del diritto al risarcimento del danno, restando altrimenti non giustificato un diverso trattamento nell’azionabilità della medesima pretesa risarcitoria in sede civile o in quella penale. Infatti, diversamente da quanto ha sostenuto impropriamente la Corte territoriale, il termine (di tre mesi) per la proposizione della querela decorre dal giorno della “notizia” del fatto che costituisce reato (art. 124 c.p.), e che tale momento, rispetto al reato di diffamazione, è inteso in sede penale da questa S.C. come “quello in cui il titolare ha conoscenza certa, sulla base di elementi seri, del fatto-reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva, conoscenza che può essere acquisita in modo completo soltanto se (e nel momento in cui) il soggetto passivo ha contezza dell’autore e possa, quindi, liberamente determinarsi” Cass. pen., sez. 5^, n. 14660 del 1999;

confermata, rispetto ad altri reati fino a Cass. pen., 5^, n. 33466 del 2008, secondo cui detto termine decorre dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa, sulla base di elementi seri, del fatto – reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva, conoscenza che può essere acquisita in modo completo soltanto se e quando il soggetto passivo abbia contezza dell’autore e possa, quindi, liberamente determinarsi”).

6.1. Pertanto, e per quello che qui rileva, va fissato il seguente principio “l’art. 2947, coordinato con gli artt. 2059 e 2935 c.c., va interpretato nel senso che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno morale da diffamazione (commessa, nell’ipotesi, a mezzo di corrispondenza epistolare) inizia a decorrere non dal momento in cui l’agente compie il fatto illecito, ma dal momento in cui la parte lesa ne viene a conoscenza”.

6.2. Nella fattispecie la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione di questo principio, osservando che, in caso di diffamazione, il danno alla reputazione si verifica nel momento in cui la comunicazione lesiva dell’altrui reputazione raggiunga un secondo soggetto. Invece, per quanto innanzi esposto, non rilevava in questo caso il momento consumativo del reato, ma la conoscenza della diffamazione acquisita dalla persona offesa, in quanto, prima di detto momento, il diritto al risarcimento neppure esisteva e non poteva, quindi, essere esercitato.

7. Il primo motivo va, pertanto, accolto e tale accoglimento assorbe ogni decisione in ordine al secondo – non essendo ulteriormente necessario, ai fini della tempestività dell’azione (sussistente già in base all’applicazione alla fattispecie dell’indicato principio di diritto), l’esame della prescrizione ai sensi dell’art. 2947 c.c., u.c. – ed al terzo, relativo al governo delle spese dei pregressi gradi, che dovrà comunque essere nuovamente condotto, in rapporto all’esito globale della controversia, una volta terminato il giudizio di rinvio.

8. Pertanto, accolto il primo motivo ed assorbiti gli altri, la sentenza va cassata e la causa rimessa, per nuovo esame del merito della domanda alla medesima Corte territoriale in diversa composizione, che provvederà in ordine alle spese anche del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo del ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2011

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