Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20597 del 07/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 07/10/2011, (ud. 15/06/2011, dep. 07/10/2011), n.20597

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – rel. Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16979/2006 proposto da:

CID SRL in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA GIUSEPPE FERRARI 2, presso lo

studio dell’avvocato STEFANORI ANGELO, che lo rappresenta e difende,

giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 32/2005 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

RIMINI, depositata il 19/04/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2011 dal Consigliere Dott. SERGIO BERNARDI;

udito per il ricorrente l’Avvocato STEFANORI, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’ufficio delle Entrate di Rimini contestava alla s.r.l. CID con sede legale in (OMISSIS) di aver costituito in Italia una stabile organizzazione articolata in venti società e ditte individuali che commercializzavano sul territorio nazionale i prodotti dell’impresa, esercitata in evasione di imposte. Con tre atti distinti, oggetto di autonomi ricorsi poi riuniti, erano accertati ricavi non dichiarati ai fini Iva per gli anni 1994 e 1995, e redditi non dichiarati ai fini Irpeg ed Ilor per l’anno 1994. CTP e CTR hanno respinto le impugnazioni della società, che ricorre con sei motivi per la cassazione della sentenza d’appello. L’Amministrazione finanziaria resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La CTR ha così ricostruito le premesse di fatto degli accertamenti impugnati:

“Gli studenti che intendevano avvalersi di un sistema di didattica breve per la preparazione degli esami universitari (brevetto CEPU) si recavano presso una sede della società C.I.D. presente sul territorio italiano e qui sottoscrivevano un contratto su modello prestampato uguale per tutte le sedi CEPU, nel quale, però, la controparte del negozio non era la società italiana con cui avevano preso contatto bensì la società sammarinese C.I.D. s.r.l. In seguito gli studenti pagavano la cifra prestabilita intestando i mezzi di pagamento alla società straniera. In tutte queste operazioni le singole società Italiane, non avevano altra funzione se non quella di recapito per la C.I.D., di ufficio attraverso il quale gli studenti stipulavano il contratto e ricevevano il materiale didattico sempre dalla C.I.D.. Di fatto le società italiane operavano semplicemente come promanazione della C.I.D. s.r.l.; nel contratto, poi, non si rinviene nessun obbligo, nè distinto nè solidale della società Italiana. Gli studenti, infatti, non si recavano a San Marino per ottenere il servizio richiesto, ma era la società sammarinese che attraverso personale italiano ed unità locali situate in varie città italiane forniva sul territorio nazionale il servizio cui esplicitamente e direttamente si era obbligata”.

Su tali premesse, la CTR ha motivato il rigetto dell’appello considerando:

“La pretesa indipendenza delle società italiane rispetto al C.I.D. S.r.l. non esiste, dato che queste altro non sono che gli organismi attraverso i quali quest’ultima mette a disposizione i propri servizi.

Non sono da considerare nè il volume di affari nè il fatto che alcune delle società italiane siano state poste in liquidazione o chiuse.

Inoltre le società italiane non dichiaravano i proventi dell’attività di assistenza didattica prestata con il metodo CEPU, ma solo delle provvigioni su vendite fatturate alla CID. S.r.l..

Nel p.v.c. del 31/5/2000 risulta, poi, la corrispondenza, avvenuta fra il commercialista B.M. ed il sig. P. F., intestatario del marchio registrato CEPU, nel quale si evince chiaramente come fosse interesse del sig. P. realizzare una struttura per la commercializzazione del servizio di assistenza didattica che, grazie alle licenze di marchio cedute alla società sammarinese C.i.d. s.r.l., avrebbe consentito di evitare l’assoggettamento ad Iva dei corrispettivi pagati dagli studenti alla società C.I.D. s.r.l. e la tassazione in Italia dei redditi ad essi relativi.

in tale lettera il commercialista spiega le condizioni necessarie per evitare l’assoggettamento ad imposta dei corrispettivi delle prestazioni e le accortezze necessarie affinchè non si possa configurare la stabile organizzazione in Italia.

L’Ufficio ha poi dimostrato e ricostruito i rapporti che legano M.S. e P.F. alla C.I.D. S.r.l., che oltre alla presenza di elementi oggettivi che portano ad individuare nelle società italiane del gruppo CEPU la stabile organizzazione della Società estera, esistono anche numerosi, ed assolutamente palesi, legami di natura soggettiva che rendono non credibili le affermazioni della parte secondo la quale ciascuna società opererebbe in maniera del tutto autonoma ed indipendente.

Pertanto la Commissione ritiene del tutto inconsistenti le eccezioni sollevate dall’appellante sia nei confronti dell’inesistenza della stabile organizzazione, sia nei confronti dell’esistenza di una unica stabile organizzazione.

Circa il luogo individuato dall’Ufficio quale domicilio fiscale della stabile organizzazione in Italia della C.I.D. S.r.l., deve applicarsi il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 5, mancando la sede legale o amministrativa è stato scelto il Comune dove erano presenti più sedi che operavano quale stabile organizzazione e dove erano stati sottoscritti il maggior numero di contratti intestatati alla C.I.D. S.r.l. La norma fa infatti riferimento al luogo in cui l’attività viene svolta in misura prevalente”.

Col primo motivo di ricorso denuncia “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 20, lett. e), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 7, comma 3, nonchè del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 162, (ius superveniens) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Si assume che le disposizioni richiamate delineano una nozione di stabile organizzazione diversa da quella adottata dalla CTR, e che i fatti accertati in sentenza non potrebbero esservi ricondotti. Si osserva che l’art. 162 del cit. T.U.I.R. precisa che “l’espressione stabile organizzazione designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato”; e che il settimo comma chiarisce che “non costituisce stabile organizzazione dell’impresa non residente il solo fatto che essa eserciti nel territorio dello Stato lo propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario generale, o di un altro intermediario che goda di uno status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell’ambito della loro ordinaria attività”. Nella specie non sarebbe stata accertata la esistenza di “una sede d’affari appartenente” alla società sammarinese, giacchè le imprese che operavano per essa in Italia erano non una ma molteplici, dotate ciascuna di propria organizzazione autonoma, ed operanti come agenti indipendenti”, i cui introiti non erano costituiti “dai proventi dell’attività di assistenza didattica prestata con il metodo CEPU, ma solo dalle provvigioni su vendite fatturate alla CID s.r.l”.

Il motivo è inammissibile, perchè si risolve in una censura del giudizio di fatto piuttosto che del canone giuridico alla stregua del quale è stato formulato. La CTR ha positivamente escluso che le società nelle quali era articolata la organizzazione in Italia della società estera costituissero unità indipendenti, nonostante la loro struttura giuridico – formale (“dato che queste altro non sono che gli organismi attraverso i quali quest’ultima mette a disposizione i propri servizi”), avendo evidenziato che operavano come “recapiti” della casa-madre, presso i quali erano conclusi contratti da quest’ultima predisposti e dove essa vi dava esecuzione mettendo a disposizione delle controparti il materiale didattico che era impegnata a fornire. I recapiti – ha accertato la CTR – costituivano nel loro complesso una organizzazione unitaria, mediante la quale la società estera realizzava in Italia il proprio scopo commerciale. La conclusione – non criticata sotto il profilo del vizio di motivazione – si sottrae alla censura di violazione di legge sviluppata col motivo, perchè muove da una nozione di “stabile organizzazione” che risponde pienamente a quella desumibile dalle numerose pronunce rese in argomento da questa suprema corte. La quale ha chiarito che “l’accertamento dei requisiti del centro di attività stabile, o stabile organizzazione, ivi compresi quello di dipendenza e quello di partecipazione alla conclusione di contratti – od alle sole trattative – in nome della società estera (anche al di fuori di un potere di rappresentanza in senso proprio), deve essere condotto non solo sul piano formale, ma anche – e soprattutto – su quello sostanziale” (10925/2002); e che “tale concetto di stabile organizzazione non è incompatibile con la personalità giuridica di cui la stessa sia eventualmente fornita, poichè l’autonoma soggettività giuridica non assume rilievo quanto alla imputazione dei rapporti fiscali” (6799/2004); e che “va escluso che la struttura organizzativa debba essere di per sè produttiva di reddito, ovvero dotata di autonomia gestionale o contabile” (7682/2002). Sicchè la particolarità della fattispecie (che la CTR correttamente non ha considerato preclusiva del fenomeno della stabile organizzazione) si riduce al fatto che la organizzazione produttiva in Italia della società estera – anzichè costituita da un unico soggetto giuridico – era articolata in una molteplicità di ditte: formalmente distinte, ma tuttavia economicamente integrate in una struttura unitaria, strumentale al raggiungimento dello scopo commerciale in Italia della “casa madre” non residente.

Le considerazioni svolte valgono a respingere anche gli altri motivi di ricorso.

Col secondo si deduce “omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”. La censura si rivolge alla affermazione della CTR secondo la quale la tesi della “indipendenza” delle singole articolazioni territoriali sarebbe confutata, oltre che da “numerosi ed assolutamente palesi, legami di natura soggettiva”, anche dalla “presenza di elementi oggettivi che portano ad individuare nelle società italiane del gruppo CEPU la stabile organizzazione della Società estera”. La CTR non avrebbe argomentato il proprio convincimento.

La doglianza è infondata. Gli “elementi oggettivi che portano ad individuare nelle società italiane del gruppo CEPU la stabile organizzazione della Società estera” sono diffusamente evidenziati dalla CTR nella descrizione delle concrete modalità operative delle società operanti in Italia quali articolazioni di una unica struttura organizzativa intesa alla realizzazione dello scopo commerciale della società sammarinese. I “legami di natura soggettiva” (idonei a corroborare un convincimento già sufficientemente motivato col richiamo delle caratteristiche oggettive della organizzazione) sono individuabili nelle premesse di fatto della motivazione, nelle quali sono richiamati “i rapporti che legano M.S. e P.F.” (intestatario del marchio registrato CEPU) ed il programma concordato da lui concordato col commercialista B., che “avrebbe consentito di evitare l’assoggettamento ad Iva dei corrispettivi pagati dagli studenti alla società e la tassazione in Italia dei redditi ad essi relativi”.

Col terzo motivo si deduce “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 4 e 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

La doglianza riproduce, con riferimento alla Imposta sul valore aggiunto, la critica al concetto di stabile organizzazione adottato dalla CTR. Va respinta per le considerazioni svolte in relazione al primo motivo, cui è sostanzialmente riconducibile, giacchè l’esigenza di una componente anche personale della organizzazione produttiva posta dalla normativa iva è ampiamente evidenziata nella pronuncia impugnata.

Col quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 59, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Si assume che le disposizioni richiamate “non consentono la individuazione di un nuovo soggetto passivo d’imposta, in luogo di altri già esistenti che svolgono la medesima attività, già risultanti all’anagrafe tributaria”, e che “non è chiarito se l’Amministrazione finanziaria abbia proceduto ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, oppure in virtù del seguente art. 59”.

La doglianza è inammissibile perchè critica non la sentenza impugnata ma il comportamento della P.A., oltrechè per difetto di autosufficienza. Osserva infatti che “nessuno di tali aspetti, già censurati nei ricorsi introduttivi del presente giudizio, è stato esaminato dai giudici d’appello”, ma non riproduce il tenore delle censure che sarebbero state disattese, che non hanno alcun riscontro in sentenza.

Col quinto motivo si deduce “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Si osserva che “l’erronea individuazione del soggetto passivo comporta altresì che l’Ufficio che ha proceduto è territorialmente incompetente”.

La censura si ricollega alla tesi del difetto di una stabile organizzazione della CID in Italia, e resta confutata dalle argomentazioni opposte al primo motivo di ricorso. E’ inoltre priva di autosufficienza perchè nè da essa dalla sentenza impugnata risulta che la contestazione della competenza territoriale dell’Agenzia fosse stata riproposta nel giudizio d’appello.

Col sesto motivo si deduce “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Si assume che “non può considerarsi corretta l’imputazione di ricavi facendo esclusivo riferimento alla data di sottoscrizione del contratto da parte degli allievi”.

La doglianza è inammissibile per novità o difetto di autosufficienza, perchè non riproduce i passi delle difese coi quali la questione sarebbe stata sollevata nei giudizi di merito, pur riconoscendo che “tale profilo di indagine” è stato “del tutto trascurato nella impugnata sentenza”.

Va dunque respinto il ricorso.

Le spese processuali devono seguire la soccombenza.

P.Q.M.

Respinge il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro. 15.000 per onorari, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2011

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