Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2059 del 30/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 2059 Anno 2014
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: PAGETTA ANTONELLA

SENTENZA

sul ricorso 25275-2010 proposto da:
LUONGO FRANCESCO C.F. LGNFNC46B18F839M, domiciliato in
ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli
avvocati QUATTROMINI PAOLA e QUATTROMINI GIULIANA,
giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

3407

UNILEVER ITALIA S.R.L. C.F. 00846710150;
– intimata –

Nonché da:

Data pubblicazione: 30/01/2014

UNILEVER ITALIA MANUFACTURING S.R.L., già SAGIT
S.R.L., incorporata nella UNILEVER ITALIA S.P.A. C.F.
00846710150, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE
TUPINI 133, presso lo studio dell’avvocato BRAGAGLIA

D’AYALA GIULIO, giusta delega in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale contro

LUONGO FRANCESCO C.F. LGNFNC46B18F839M;

intimato

avverso la sentenza n. 4338/2010 della CORTE D’APPELLO
di NAPOLI, depositata il 16/06/2010 r.g.n. 1708/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. ANTONELLA
PAGETTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO, che ha concluso
per il rigetto di entrambi in subordine alle S.U.

ROBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato GOMEZ

Svolgimento del processo

Francesco Luongo ha dedotto di aver lavorato alle dipendenze della società SAGIT come
addetto alla lavorazione di gelati e surgelati, obbligato ad indossare una tuta, scarpe
antinfortunistiche copricapo e indumenti intimi forniti dall’azienda, e a presentarsi al lavoro 15/20
minuti prima dell’inizio dell’orario di lavoro aziendale; solo dopo aver indossato tali abiti ed essere
passato da un tornello con marcatura del badge poteva entrare nel luogo di lavoro accedendo al

termine dell’orario di lavoro per dismettere gli indumenti indossati.
Il ricorrente ha chiesto il pagamento delle differenze retributive dovute per il tempo di tali
prestazioni, a titolo di compenso per lavoro straordinario e in via subordinata come compenso per
lavoro ordinario.
Costituitosi il contraddittorio con la Unilever Italia s.r.1., (già SAGIT s.r.1.) il Tribunale di
Napoli ha rigettato la domanda. Con la sentenza oggi impugnata la Corte di Appello di Napoli ha
riformato tale decisione, condannando la società datrice di lavoro al pagamento di € 4.910,90 oltre
accessori.
Il giudice dell’appello ha riconosciuto il diritto del dipendente alla retribuzione per il tempo
impiegato nelle operazioni di vestizione e svestizione, considerandone il carattere necessario e
obbligatorio per l’espletamento dell’attività lavorativa, e lo svolgimento sotto la direzione del
datore di lavoro. Una diversa regolamentazione di tale attività non poteva essere ravvisata, sul piano
della disciplina collettiva, dal “silenzio” delle organizzazioni sindacali sul problema del “tempo
tuta”, né da accordi aziendali intervenuti per la disciplina delle pause fisiologiche.
La sentenza impugnata ha determinato il tempo di tali attività, facendo ricorso a nozioni di
comune esperienza, in dieci minuti per ognuna delle due operazioni giornaliere (vestizione e
svestizione), commisurando quindi il compenso dovuto alla retribuzione oraria fissata dal contratto
collettivo applicabile.
Il giudice di appello ha accolto l’eccezione di parziale prescrizione (quinquennale) sollevata
da parte convenuta, tenuto conto della interruzione della prescrizione operata con lettera di messa in
mora ricevuta il 28 maggio 2003 . Non poteva invece essere valutata a tal fine, secondo la Corte di
Appello, la richiesta di tentativo di conciliazione presentata anteriormente alla Direzione
Provinciale del Lavoro, che non risultava inoltrata alla società datrice di lavoro.
Avverso questa sentenza Francesco Luongo ha proposto ricorso per cassazione affidato a
quattro motivi. La società Unilever Italia Manufacturing s.r.l. resiste con controricorso e ricorso
incidentale con quattro motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. .
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reparto dove una macchina bollatrice rilevava l’orario di ingresso. Tali operazioni si ripetevano al

Motivi della decisione
1.Preliminamente va disposta, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ. , la riunione del ricorso
principale e del ricorso incidentale.
1.2 Nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. la

società Unilever Italia

sindacale verbale di conciliazione con il quale avevano definito la controversia oggetto del ricorso
ha chiesto dichiararsi cessata la materia del contendere Allegato alla memoria ha depositato atto di
notifica a controparte, nel domicilio eletto, del verbale di conciliazione sindacale . .La richiesta
non merita accoglimento. Questa Corte ha ripetutamente affermato che la cessazione della materia
del contendere, quale riflesso processuale del venir meno della ragion d’essere sostanziale della lite
per la sopravvenienza di un fatto suscettibile di privare le parti di ogni interesse a proseguire il
giudizio, deve essere dichiarata dal giudice allorquando i contendenti si diano reciprocamente atto
dell’intervenuto mutamento – ovvero della sopravvenuta caducazione – della situazione sostanziale
oggetto della controversia e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice ( v. ,tra le
altre, Cass. 5 dicembre 2005 n. 26351, Cass. n. 22 maggio 2006 n 11931) . E’ stato in particolare
precisato che la cessazione della materia del contendere presuppone che: a) sopravvengano, nel
corso del giudizio, eventi di natura fattuale o atti volontari delle parti idonei a determinare la totale
eliminazione di ogni posizione di contrasto; b) vi sia accordo tra le parti sulla portata delle vicende
sopraggiunte e sull’essere venuto meno ogni residuo motivo di contrasto; c) vi sia la dichiarazione
di non voler proseguire la causa proveniente dalla parte personalmente ovvero dal suo difensore
munito di procura ad hoc. ( Cass. 8 novembre 2003 n. 16785 ) .
Nel caso di specie tali presupposti non si sono verificati in quanto il verbale di conciliazione in sede

sindacale risulta redatto in epoca — 30 marzo 2009 — t3± :t:etliiffert anteriore al deposito del ricorso per
cassazione — il 27 ottobre 2010 ; difettano inoltre dichiarazioni successive delle parti di rinunciare al
giudizio in corso.
2.1. Il ricorso principale investe la sola statuizione relativa alla decorrenza della
prescrizione, censurata perché non considera valido atto interruttivo la mera presentazione della
richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione rivolta alla Direzione Provinciale del Lavoro.
Con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 2943 cod.civ. e 410 cod.proc.civ.,
richiamando la giurisprudenza di questa Corte che connette gli effetti di interruzione della

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Manufacturing s.r.l. , premesso che in data 30 marzo 2009 le parti avevano sottoscritto in sede

prescrizione e di sospensione dei termini di decadenza ex art. 410 co.2 cod.proc.civ. alla mera
instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione.
2.2. Con il secondo motivo dello stesso ricorso principale, mediante la denuncia di
violazione dell’art. 2729 cod.proc.civ., si lamenta che la sentenza impugnata non ha esaminato la
possibilità di desumere una prova presuntiva dell’inoltro della comunicazione della suddetta
richiesta al datore di lavoro dalla circostanza che richieste del genere vengono generalmente

ricevuto la comunicazione.
2.3. La stessa censura viene proposta con il successivo terzo motivo sotto il profilo del
difetto di motivazione della sentenza impugnata.
2.4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione degli artt. 421 co.2 cod.proc.civ., 115
cod.proc.civ., rilevandosi che il lavoratore resta in possesso soltanto dell’istanza diretta alla D.P.L.
con cui promuove il tentativo di conciliazione e non della conseguente comunicazione inoltrata al
datore di lavoro dalla D.P.L., che rimane in possesso della prova della spedizione e ricezione
dell’avviso. Il lavoratore si trova nella impossibilità di documentare la circostanza, sicché sarebbe
stato doveroso per la Corte di Appello esercitare i poteri officiosi ex art. 421 cod.proc.civ. per
accertare la ricezione della convocazione da parte della società.
In via subordinata, si solleva questione di legittimità costituzionale dell’art.410 co.2
cod.proc.civ., in relazione agli artt.24, 36 e 111 Cost. nella parte in cui connette l’interruzione della
prescrizione alla ricezione da parte del datore di lavoro della comunicazione da parte della D.P.L.
dell’avvenuta instaurazione del tentativo di conciliazione anziché alla mera proposizione di tale
richiesta da parte del lavoratore.
3.1. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia una violazione della disciplina
dei CCNL del settore industria alimentare e degli accordi aziendali del 16.11.1999, in relazione agli
artt. 2099 cod.civ. e 36 Cost., nonché delle regole di cui all’art.1362 ss. cod.civ., e difetto di
motivazione.
La sentenza impugnata viene censurata per non aver valutato l’incidenza sull’assetto
negoziale del rapporto della contrattazione collettiva, che secondo la parte esclude il pagamento di
una retribuzione ulteriore del tempo impiegato sia per raggiungere i reparti, sia per indossare e
togliere gli indumenti di lavoro, correlando la retribuzione dovuta al solo tempo della prestazione
lavorativa effettiva.
La società, premesso che la determinazione quantitativa della retribuzione risulta soprattutto
dalla disciplina collettiva, trae argomenti a sostegno della propria tesi dalle norme contrattuali in
tema di durata e distribuzione dell’orario di lavoro e di riduzione dello stesso (correlata al
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inoltrate dalla D.P.L. ; e ciò anche perché neppure la società UNILEVER aveva obiettato di aver

godimento di riposi individuali) nonché dalla clausola del CCNL applicabile che, imponendo
all’azienda di destinare un locale a spogliatoio, dispone che questo debba rimanere chiuso durante
l’orario di lavoro; tale previsione escluderebbe che il tempo da destinare alla vestizione possa
rientrare nella prestazione lavorativa.
3.2. Con il secondo motivo si denunciano ancora un vizio di motivazione in ordine all’esame
del contenuto della disciplina collettiva e la violazione delle regole di interpretazione dei contratti,

imperativa che vieta l’assorbimento del tempo non lavorato destinato a pause fisiologiche, mentre
l’accordo sindacale prevedeva per la fruizione delle pause proprio l’arco temporale intercorrente tra
“l’avviamento e messa a regime della linea produttiva” (corrispondente all’inizio del turno) e la
“predisposizione turno seguente” (corrispondente alla fine del turno) secondo uno schema di
fruizione delle pause: si assume che tale regolamentazione assegna al personale un trattamento di
miglior favore rispetto a quello previsto dal paradigma legale.
3.3. Con il terzo motivo, con la denuncia di violazione degli artt.414 e 432 cod.proc.civ.,
1226 e 2697 cod.civ.. in relazione all’art. 360 nn.3 e 5 cod.proc.civ., si censura la determinazione,
ai fini dell’accoglimento della domanda, della durata delle operazioni di vestizione e svestizione.
Tale statuizione, ad avviso della parte, è sostanzialmente immotivata, priva di una determinazione
obiettiva e ragionevole, in assenza di insufficiente documentazione delle allegazioni del lavoratore,
ed anche di qualsiasi dimostrazione della quotidiana presenza al lavoro. Si è ignorato che il rapporto
di lavoro è stato interessato da assenze per malattie, infortuni, permessi ed altre vicende sospensive
della prestazione.
3.4. Con il quarto motivo si denuncia di violazione di plurime norme di diritto, sostenendosi
che secondo la disciplina di legge deve intendersi per orario di lavoro quello di effettivo
svolgimento delle mansioni, “al netto di quello che il lavoratore impiega nello svolgimento di
attività preparatorie”, in cui deve includersi il tempo che il lavoratore impiega per preparare se
stesso e i propri strumenti allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si fa riferimento a questo fine
anche alla definizione di orario di lavoro dettata dal D.L.G.S. 66/2003, di attuazione della
disciplina comunitaria, come “qualsiasi periodo in cui al lavoratore sia al lavoro, a disposizione del
datore e nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni” , per sostenere che nella fattispecie non
potrebbe ravvisarsi un esercizio delle funzioni in assenza di una effettiva prestazione.
Si afferma poi che gli obblighi normativamente imposti al lavoratore (specie per il personale
delle industrie alimentari) di indossare indumenti adeguati e se del caso protettivi, derivano dalla
legge e non possono rientrare nell’ambito delle prerogative datoriali, gravando direttamente sul
lavoratore; inoltre, che le operazioni in questione non erano predeterminate oggettivamente dal
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sostenendosi che la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato l’esistenza di una norma

datore di lavoro, perché il personale poteva effettuarle in un arco temporale di massima ovviamente
collocato in un momento precedente l’inizio dell’orario di lavoro, ma sulla base di scelte del tutto
personali da parte dei dipendenti.
I lavoratori avevano facoltà di accedere in azienda fino a 29 minuti prima dell’inizio del
turno lavorativo, e potevano impiegare a loro piacimento questo intervallo temporale, come di
gestire tempi e modi della vestizione. Si tratta, secondo la parte, della cosiddetta diligenza

sinallagma contrattuale.
4.1. Per ragioni di priorità logica devono essere esaminate in primo luogo le censure svolte
nel ricorso incidentale, che investono con il primo, secondo e quarto motivo la questione del diritto
alla retribuzione per il tempo occorrente ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro, con
riferimento sia alla disciplina legale dell’orario di lavoro, sia alla regolamentazione collettiva
applicabile. Tali motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono
infondati.
4.2. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, in relazione alla regola
fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo cui “è considerato lavoro effettivo ogni
lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa”- il principio secondo cui tale
disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro
effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il
quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere
strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa: così, Cass. 14
aprile 1998 n. 3763, Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n. 19273, Cass. 10
settembre 2010 n.19358 (che riguarda una fattispecie analoga a quella del caso oggi in esame); v.
anche Cass. 7 giugno 2012 n.9215. E’ stato anche precisato (v. Cass. 25 giugno 2009 nn.14919 e
15492) che i principi così enunciati non possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal
D.L.G.S. . 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale
all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a
disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”; e nel
sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona
sostanza invariati – come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per
l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo,
come tale retribuibile, stante il carattere generico della definizione testé riportata. Criteri che
riecheggiano, invero, nella stessa giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per
valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre
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preparatoria in cui rientrano comportamenti che esulano di fatto dalla stretta funzionalità del

stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad
essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte
Giust. Com. eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, pan. 58 ss.).
Tale orientamento (come osserva la citata Cass. n.19358/2010) consente di distinguere nel
rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una
fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito

lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di
conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a
quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.
Il giudice dell’appello si è attenuto a questi principi, avendo accertato che le operazioni di
vestizione e svestizione si svolgevano nei locali aziendali prefissati e nei tempi delimitati non solo
dal passaggio nel tornello azionabile con il badge e quindi dalla marcatura del successivo orologio,
ma anche dal limite di 29 minuti prima dell’inizio del turno, secondo obblighi e divieti sanzionati
disciplinarmente, stabiliti dal datore di lavoro e riferibili all’interesse aziendale, senza alcuno
spazio di discrezionalità per i dipendenti.
4.3. La sentenza ha anche negato l’esistenza di una disciplina contrattuale collettiva tale da
escludere dal tempo dell’ orario di lavoro quello impiegato per le operazioni in questione. Questa
statuizione risulta fondata su una compiuta ricognizione della disciplina collettiva richiamata, nella
quale non si rinviene alcuna specifica regola con il contenuto indicato dalla ricorrente incidentale,
e sfugge alle censure mosse sotto i profili sia del vizio di motivazione che di violazione delle
regole ermeneutiche negoziali; in particolare, con riguardo al regime delle pause fisiologiche (che
non può essere riferito al tempo di quella che viene definita come “fase preparatoria” della
prestazione) e alla destinazione di locali a spogliatoio, da cui nulla è dato desumere in ordine alle
modalità della stessa prestazione.
5. Il terzo motivo del ricorso incidentale va disatteso, perché la determinazione della durata
del tempo in questione (e conseguentemente della correlativa controprestazione retributiva) è stata
operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con
precisione il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che
gli attribuisce la norma processuale dell’art.432 cod.proc.civ. , con apprezzamento in fatto
– incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato. Appare del resto del tutto infondato
il rilievo in ordine alla mancata valutazione dei periodi di assenza dal lavoro (dedotti in modo
assolutamente generico) posto che il parametro di misura del compenso è riferito ad un periodo
complessivo di diverse annualità.
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della disciplina d’impresa (art. 2104 comma 2 cod.civ. ) ed autonomamente esigibili dal datore di

6.1. Il ricorso principale non merita accoglimento.
Con il primo motivo il ricorrente invoca inutilmente a sostegno della propria tesi ( secondo
cui l’effetto interruttivo della prescrizione ex art. 410 2° co. cod.proc.civ. dovrebbe essere
connesso alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione, con la richiesta del
lavoratore, indipendentemente dalla successiva comunicazione indirizzata dalla D.P.L. al datore di
lavoro) la giurisprudenza di questa Corte relativa alla decadenza dalla impugnazione del
Si deve infatti osservare che la norma richiamata, conservata anche nella formulazione
dell’art.31 1. n.183/2010 (“la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di
conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e
per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”) fa
riferimento a due istituti profondamente diversi. Mentre il fondamento della prescrizione consiste
nella presunzione di abbandono di un diritto per inerzia del titolare, il fondamento della decadenza
si coglie nell’esigenza obiettiva del compimento di particolari atti entro un termine perentorio
stabilito dalla legge, oltre il quale l’atto è inefficace, senza che abbiano rilievo le situazioni
soggettive che hanno determinato l’inutile decorso del termine o l’inerzia del titolare, e senza
possibilità di applicare alla decadenza le norme relative all’interruzione della prescrizione.
Come questa Corte ha già avuto occasione di osservare (v. Cass. 1 giugno 2006 n.13046) la
disposizione intende chiaramente distinguere gli effetti che il tentativo obbligatorio di conciliazione
ha ai fini della interruzione della prescrizione dalle conseguenze che da esso derivano con
riferimento ai termini decadenziali. Con riguardo alla decadenza dal potere di impugnazione del
licenziamento, la sospensione del termine opera a partire dal deposito dell’istanza di espletamento
della procedura di conciliazione (contenente l’impugnativa del licenziamento) essendo irrilevante,
in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provvede a
comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (v. in tal senso la
giurisprudenza consolidata a partire da Cass. 19 giugno 2006 n.14087).
Invece, solo con la comunicazione al creditore della richiesta di espletamento del tentativo di
conciliazione si verifica l’effetto di interruzione della prescrizione con effetto permanente fino al
termine di venti giorni successivi alla conclusione della procedura conciliativa (Cass. 24 novembre
2008 n.27882, 16 marzo 2009 n.6336).
Nella specie, il giudice dell’appello si è attenuto a tale principio di diritto- che va qui
riaffermato- escludendo l’interruzione della prescrizione in assenza di prova della suddetta
comunicazione alla società datrice di lavoro.
6.2. Il secondo e il terzo motivo del ricorso principale devono essere disattesi perché la
valutazione in ordine all’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a
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licenziamento.

fondamento del relativo processo logico e stabilirne la rispondenza ai requisiti di legge, è riservata
all’apprezzamento di fatto del giudice di merito. Dunque, l’utilizzazione o meno del ragionamento
presuntivo può essere criticata in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione,
ma tale censura non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal
giudice di merito, dovendo far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento
decisorio; resta peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario (nella
decisivo (v. per tutte Cass. 21 ottobre 2003 n.15737, 11 maggio 2007 n.10847).
6.3. Il quarto motivo dello stesso ricorso principale appare infondato, essendo sufficiente
rilevare in proposito che il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421
cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio
fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia
investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi
istruttori. D’altro canto, non è neppure prospettabile una impossibilità del lavoratore di fornire la
prova della avvenuta trasmissione al datore di lavoro, ad opera della D.P.L., della richiesta di
espletamento del tentativo di conciliazione; prova che può essere certamente acquisita con l’accesso
alla documentazione presso l’ufficio.
Per la stessa ragione, risulta manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 410 secondo comma cod.proc.civ., prospettata per la violazione degli artt.
24, 36 111 Cost. in relazione alla prova dell’atto interruttivo della prescrizione.
7. Entrambi i ricorsi devono essere quindi respinti. In considerazione della reciproca
soccombenza, si ravvisano giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del
presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi . Rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Compensa le
spese.

Così deciso in Roma il 26 novembre 2013

Il Consigliere estensore

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specie, neppure specificamente dedotto) possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto

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