Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20569 del 29/09/2020

Cassazione civile sez. II, 29/09/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 29/09/2020), n.20569

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20186-2019 proposto da:

A.S., elettivamente domiciliato in Mazzarino, via Bivona n.

37, presso lo studio dell’avv.to ANTONINO FICARRA che lo rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CALTANISSETTA, depositata il

20/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/01/2020 dal Consigliere Dott. VARRONE LUCA.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. Il Tribunale di Caltanissetta, con decreto pubblicato il 20 maggio 2019, respingeva il ricorso proposto da A.S., cittadino del Pakistan, avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva, a sua volta, rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria);

2. Il Tribunale, per quel che qui interessa, riteneva non credibile quanto dichiarato dal ricorrente circa il fatto di aver sposato una ragazza unnita, di essere stato per questo motivo perseguitato dai familiari che erano wahabiti e di essersi dovuto trasferire a Karachi, di aver avuto un figlio che era stato rapito mentre lui era al lavoro e la moglie ed un cugino venivano uccisi dai suoi familiari e di essere fuggito dal Pakistan per timore di essere ucciso dopo aver denunciato l’omicidio.

Il Tribunale riteneva contraddittorio il racconto sotto plurimi profili e, peraltro, evidenziava che il ricorrente non si era neanche presentato all’udienza fissata per l’audizione in ottemperanza all’onere di collaborazione. Peraltro, la situazione nel suo paese di origine in particolare nel distretto di Sheikhupura nel Punjab non era tale da determinare una situazione di conflitto armato in presenza del quale valutare un possibile rischio di un danno grave alla persona derivante da una situazione di violenza indiscriminata. Infine, mancavano anche le condizioni di vulnerabilità tali da giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria, essendo genericamente dedotta la violazione dei diritti umani fondamentali in Pakistan. A tal fine non rilevava lo svolgimento di attività lavorativa e il percorso di integrazione se comparate con le condizioni nel paese di origine.

3. A.S. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di quattro motivi di ricorso.

4. Il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13 comma 7, art. 6, comma 3, CEDU 14, comma 3, lett. a) patto internazionale diritti civili e politici, art. 132 c.p.c..

Il ricorrente eccepisce la mancata traduzione nella sua lingua di origine della motivazione della decisione della commissione territoriale del decreto impugnato. In ogni caso eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 122 c.p.c., per contrasto con gli artt. 6 e 10 Cost., nella parte in cui non prevede l’obbligo della traduzione degli atti per il cittadino straniero in relazione quantomeno ai procedimenti aventi ad oggetto il riconoscimento del diritto di asilo o lo status di rifugiato.

1.1 Il primo motivo è inammissibile (vedi per tutte, in tal senso: Cass. 13 agosto 2019, n. 21375);

Va, infatti, ricordato che, come risulta da un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, il giudizio introdotto dal ricorso dell’interessato avverso il rigetto dell’istanza di protezione internazionale da parte dell’apposita Commissione territoriale, non ha ad oggetto il provvedimento amministrativo negativo emesso dalla Commissione stessa, ma il diritto soggettivo dell’istante alla protezione invocata (vedi, per tutte: Cass. 9 dicembre 2011, n. 26480; Cass. 22 marzo 2017, n. 7385; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23472). Pertanto, eventuali nullità riscontrabili nel suindicato provvedimento – come quella derivante dalla mancata traduzione integrale del suddetto provvedimento nella lingua indicata dallo straniero richiedente o, se non sia possibile, in una delle quattro lingue veicolari (inglese, francese, spagnolo o arabo, secondo l’indicazione di preferenza), ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 10, commi 4 e 5, – da un lato, non esonerano il giudice adito dall’obbligo di esaminare il merito della domanda sulla quale comunque il giudice deve statuire e dall’altro possono essere fatte valere in sede giudiziaria dall’interessato solo indicando in modo specifico quali siano le ricadute concrete delle suddette nullità sull’esercizio del proprio diritto di difesa (fra le tante: Cass. 9 dicembre 2011, n. 26480; Cass. 13 gennaio 2012, n. 420; Cass. 3 settembre 2014, n. 18632);

In particolare, con riguardo al mancato rispetto dell’obbligo di traduzione – cui si riferisce il primo motivo – è necessario che vengano precisati quali siano stati, in concreto, gli effetti negativi della mancata traduzione rispetto alla finalità perseguita dal legislatore di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione e che non ci si limiti a dedurre sic et simpliciter la violazione del suddetto obbligo (Cass. 27 maggio 2014, n. 11871; Cass. 24 aprile 2019, n. 11271; Cass. 26 aprile 2019, n. 11295. Nella specie il ricorrente ha soltanto dedotto in modo generico e senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti o atti processuali (e non) è tenuto ad assolvere il duplice onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e all’art. 369 c.p.c., n. 4, (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726) – la violazione dell’obbligo di traduzione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, ma non ha lamentato un’effettiva compressione del diritto di difesa, che peraltro sembra smentita dal fatto che, anche senza la traduzione in lingua straniera della parte motiva del provvedimento della Commissione, il difensore del richiedente è stato in grado di articolare una compiuta e tempestiva difesa;

Da ultimo deve essere rilevata l’erronea evocazione dell’art. 122 c.p.c. e la manifesta infondatezza della relativa questione di incostituzionalità eccepita.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, violazione di legge in riferimento agli artt. 6 e 13 della convenzione e dunque, l’art. 47 della carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea e all’art. 46 della direttiva Europea n. 32 del 2013.

Secondo il ricorrente la motivazione del decreto sarebbe perplessa e incomprensibile non potendo il Tribunale censurare una valutazione personale del ricorrente e porla a motivo di non credibilità mentre il caso di specie come narrato rientrava propriamente negli atti persecutori per motivi religiosi.

In definitiva il giudice non avrebbe correttamente valutato il materiale probatorio offerto, peraltro, anche tenuto conto della coerenza delle dichiarazioni al fine di affermare la veridicità delle stesse.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3,D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, violazione di legge in riferimento agli artt. 6 e 13 della CEDU, all’art. 47 della carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea e all’art. 46 della direttiva Europea n. 32 del 2013.

Il ricorrente censura in particolare la motivazione del decreto circa la mancanza di un rischio grave per l’incolumità del ricorrente anche avuto riguardo al contesto sociopolitico che caratterizza il Pakistan e segnatamente la zona del Punjab con crescenti fenomeni di guerra di religione e di corruzione del sistema di polizia.

3.1 Il secondo e terzo motivo di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili.

Qualora le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili secondo i parametri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), ed in applicazione dei canoni di ragionevolezza e dei criteri generali di ordine presuntivo, l’accertamento così compiuto dal giudice di merito integra un apprezzamento di fatto, a lui riservato, censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. (v. ex multis Cass., 21/11/2018, n. 30105, Cass. 12-11-2019, n. 29279).

La critica formulata nel motivo costituisce una mera contrapposizione alla valutazione che La Corte d’Appello ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata mediante allegazione di fatti decisivi emersi nel giudizio che sarebbero stati ignorati dal giudice di merito.

In presenza di dichiarazioni che siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri probatori.

Quanto al mancato riconoscimento della protezione sussidiaria, stante la situazione di violenza imperversante in Pakistan va rilevato che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale va accertata in conformità della giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), secondo cui tale conflitto armato rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver, pertanto, raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia.

Nel provvedimento impugnato, il collegio giudicante ha puntualmente scongiurato questa eventualità, ed, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ha verificato, sulla scorta dei menzionati reports, l’assenza di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica del ricorrente nella sua Regione di provenienza (Punjab).

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato violazione falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, art. 5, comma 6, e 19 art. 3 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

Il ricorrente censura il decreto circa la valutazione di non veridicità del racconto sulla base di due giudizi contraddittori e di errori di sussunzione del fatto in relazione alla schiavitù lavorativa esistente in Pakistan in rapporto al buon grado di integrazione raggiunta dal ricorrente nel paese.

Il giudice non avrebbe esaminato la sfera personale e umana del ricorrente, il rischio di compromissione in caso di ritorno nel paese di origine del diritto alla salute e del diritto all’alimentazione che avrebbero determinato l’accoglimento della domanda di concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

4.1 Il quarto motivo di ricorso è infondato.

Il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento della protezione umanitaria stante la situazione di insicurezza del Pakistan e la sua impossibilità di godere dei propri diritti umani fondamentali.

Il racconto del richiedente non è stato ritenuto credibile ed egli non ha allegato ulteriori situazioni di vulnerabilità tali da giustificare la protezione umanitaria qui invocata.

La pronuncia risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

In conclusione il decreto del tribunale risulta puntualmente motivato in fatto circa l’inattendibilità del racconto, e tanto è dirimente per escludere ogni conseguenza in ordine al paventato (e qui ulteriormente insistito) rischio di compromissione dei diritti umani in conseguenza della vicenda dedotta; difatti il suaccennato rischio è stato allegato non come endemico rispetto a una situazione di violenza indiscriminata che è stata altresì esclusa in relazione alla domanda di protezione sussidiaria, ma come giustappunto consequenziale alla vicenda specifica, la quale vicenda è stata ritenuta dal Tribunale inverosimile.

5. Il ricorso è rigettato.

6. Le spese del giudizio non devono essere liquidate perchè il Ministero dell’Interno pur costituito non ha sostanzialmente svolto difese.

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2 Sezione civile, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2020

 

 

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