Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20555 del 29/09/2020

Cassazione civile sez. II, 29/09/2020, (ud. 04/03/2020, dep. 29/09/2020), n.20555

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9781-2016 proposto da:

D.W.M., F.G., F.S.R. e

F.S.R., rappresentati e difesi dall’Avvocato VALERIO TAVORMINA e

dall’Avvocato ALBERTO ROMANO ed elettivamente domiciliati a Roma,

via Cividale del Friuli 13, presso lo studio dell’Avvocato

ALESSANDRO TATARELLI, per procure speciali in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

F.M.M., rappresentata e difesa dall’Avvocato FELICE

TORZINI e dall’Avvocato CARLO MALINCONICO, presso il cui studio a

Roma, corso Vittorio Emanuele II 284, elettivamente domicilia per

procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

nonchè

F.M.V.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2177/2015 della CORTE D’APPELLO DI FIRENZE,

depositata il 28/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

4/3/2020 dal Consigliere DONGIACOMO GIUSEPPE;

sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto

Procuratore Generale della Repubblica PEPE ALESSANDRO, il quale ha

concluso per l’accoglimento del secondo, del terzo e del quarto

motivo e per il rigetto dei restanti motivi;

sentito, per i ricorrenti, l’Avvocato MICHELA NATALE;

sentito, per la controricorrente, l’Avvocato ALESSANDRO MANNOCCHI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.W.M., F.G., F.S.R. e F.S.R., hanno convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Arezzo, F.M.M. e F.M.V. chiedendo la divisione degli immobili di cui gli attori, al pari delle convenute, erano comproprietari in quanto eredi di F.R., deceduto il (OMISSIS).

F.M.V. si è costituita in giudizio senza svolgere alcuna attività difensiva.

F.M.M., invece, si è costituita in giudizio deducendo, innanzitutto, di aver speso, per la conservazione della cosa comune, la somma di Euro 96.238,00, poi ridotta, in corso di causa, ad Euro 43.700,00 in adesione alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio. La convenuta, inoltre, ha dedotto che: – nel 1984, aveva prestato al fratello R., e cioè il de cuius, la somma di Lire 50.000.000, da restituire con gli interessi; – nel 1992, insieme al fratello, avevano rifatto il conteggio del proprio credito, quantificandolo in Lire 250.000.000; – il (OMISSIS), infine, aveva stipulato con il fratello un altro accordo per l’aggiornamento dal 1992 della somma di Lire 250.000.000 “con riferimento ai redditi derivanti d investimenti in titoli di stato”.

La convenuta, quindi, ha, tra l’altro, chiesto: 1) la condanna degli attori, quali eredi di F.R., al pagamento di Euro 305.224,64 (e cioè la somma indicata nella consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del giudizio, che aveva calcolato fino al relativo deposito, e cioè al 30/4/2008, l’aggiornamento previsto dall’atto del (OMISSIS)), oltre agli interessi legali dal 30/4/2008; 2) l’assegnazione del compendio immobiliare.

Il tribunale, con sentenza del 2010, ha ritenuto, innanzitutto, che il credito di F.M.M. nei confronti del de cuius, asseritamente sorto nel 1984, come da riconoscimento di debito del 12/2/1992, si era prescritto, così come eccepito, per carenza di atti interruttivi dal 12/2/1992 e l’atto di citazione. Del resto, ha aggiunto il tribunale, anche in considerazione del disconoscimento da parte degli attori della scrittura privata prodotta dalla controparte, non era emersa la prova del prestito e del relativo importo.

Quanto, poi, alla divisione, il tribunale ha ritenuto che il complesso immobiliare, pacificamente non divisibile, doveva essere assegnato a F.M.M., in quanto titolare della quota maggiore, evidenziando che la stessa ne aveva sempre mantenuto il possesso e che si era preoccupata di effettuare opere di manutenzione straordinaria.

Il tribunale, quindi, dopo aver evidenziato che il complesso immobiliare era stato stimato in Euro 700.000,00 e che le spese di miglioria ammontavano ad Euro 43.700,00, ha provveduto ad assegnare ogni bene a F.M.M., condannandola al pagamento dei conguagli in favore degli altri coeredi secondo le rispettive quote di proprietà.

F.M.M. ha proposto appello avverso tale sentenza censurando la pronuncia impugnata, tra l’altro, nella parte in cui il tribunale aveva rigettato la domanda che la stessa, quale convenuta, aveva proposto per ottenere il pagamento del debito contratto dal de cuius. L’appellante, al riguardo, ha dedotto che tale domanda era stata proposta sulla base dell’esplicito riconoscimento del debito costituito dall’accordo del (OMISSIS) e che, rispetto a tale atto, non sussiste nè il disconoscimento nè la prescrizione.

L’appellante, quindi, ha chiesto la condanna degli attori al pagamento, in suo favore, ciascuno nei limiti di cui all’art. 752 c.c., della somma di Euro 305.224,64, oltre agli interessi legali dal 30/4/2008.

D.W.M., F.G., F.R.S. e F.R.S. si sono costituiti in giudizio e, dopo aver resistito all’appello principale, hanno proposto appello incidentale rilevando: 1) la violazione dell’art. 720 c.c., per avere gli stessi chiesto, in comparsa conclusionale, l’assegnazione congiunta dell’asse patrimoniale, complessivamente rappresentando, rispetto ad alcune particelle, una quota pari a diciotto trentaseiesimi e, rispetto ad altre particelle, una quota pari a centotrentacinque centottantesimi; 2) l’erronea stima, per difetto, dei beni oggetto di comunione, come emerge dalle risultanze della consulenza tecnica di parte attrice e dalla possibilità prevista dalla L. della Regione Toscana n. 24 del 2009 di ampliamenti volumetrici; 3) l’erronea determinazione in Euro 43.700,00 delle spese per migliorie sostenute da F.M.M..

Gli appellati, quindi, hanno chiesto l’assegnazione congiunta di tutti i beni ed, in subordine, la vendita degli stessi e l’accertamento, previa eventuale nuova consulenza tecnica d’ufficio, del maggior valore di tali beni, oltre al rigetto della domanda proposta dall’appellante avente quale petitum la somma di Euro 43.700,00.

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello incidentale ed, in parziale accoglimento dell’appello principale, ha condannato D.W.M., F.G., F.R.S. e F.R.S. al pagamento, ciascuno nei limiti di cui all’art. 752 c.c., della somma di Euro 305.222,64, oltre agli interessi dal 30/4/2008, confermando, per il resto, la sentenza impugnata.

La corte, in particolare, per quanto ancora interessa, ha ritenuto la fondatezza del motivo con il quale l’appellante principale aveva lamentato l’erroneo rigetto della domanda che la stessa aveva proposto per ottenere il pagamento del debito del de cuius.

La corte, al riguardo, ha rilevato che: a) la convenuta aveva dedotto che: – nel 1984, aveva prestato al fratello R. la somma di Lire 50.000.000, da restituire con i relativi interessi; – nel 1992, F.R. aveva sottoscritto una scrittura privata che quantificava in Lire 250.000.000 il debito corrispondente al prestito di Lire 50.000.0000 del 1984 quale maggiorato degli interessi maturati; – il (OMISSIS), la convenuta ed il fratello si erano accordati nel senso che il credito di Lire 250.000.000, così aggiornato al giugno del 1992, venisse ulteriormente aggiornato “con riferimento a possibili redditi derivanti da investimenti in titoli di stato”; b) la convenuta, quindi, aveva richiesto, con la comparsa di risposta tempestivamente depositata, il pagamento della somma di Lire 250.000.000, oltre all’aggiornamento pattuito il 23/6/2004, depositando, con la stessa comparsa di costituzione, la copia della scrittura privata asseritamente risalente al 1992 (doc. 2); c) gli attori, con la prima memoria depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., avevano, tra l’altro, disconosciuto la sottoscrizione di tale scrittura; d) la convenuta, con la seconda memoria prevista dall’art. 183 c.p.c., aveva eccepito la tardività di tale disconoscimento e prodotto, come doc. 7, copia della scrittura privata del (OMISSIS), evidenziandone la sottoscrizione da parte sia di F.R. che della stessa F.M.M.; e) gli attori, con la terza memoria prevista dall’art. 183 c.p.c., avevano testualmente affermato che “relativamente al doc. 7 datato 12.6.04 si fa presente che lo stesso è stato scritto presumibilmente da F.M.V. e lo stesso non può essere inteso come riconoscimento di debito o fonte di obbligazione a carico di F.R.”.

La corte, quindi, ha ritenuto che gli attori avevano, da un lato, dedotto una circostanza irrilevante (e cioè chi avesse compilato la scrittura) e, dall’altro lato, formulato un apodittico convincimento giuridico (e cioè l’impossibilità di considerare la scrittura in questione come un riconoscimento di debito o fonte di obbligazione): senza procedere, nella memoria in questione, al disconoscimento della sottoscrizione di F.R. “quale presente in calce al doc. 7”.

In forza di questo rilievo, la corte ha ritenuto che gli attori non si erano “tempestivamente attivati”, a norma dell’art. 214 c.p.c., comma 2, “rispetto alle sottoscrizioni di F.R. apposte sub docc. 2 e 7”, con la conseguente attribuzione a tali documenti dell’efficacia probatoria prevista dall’art. 2702 c.c..

Ciò detto, la corte ha esaminato il contenuto di tali documenti, vale a dire tanto il doc. 2 (che “ha un riquadro in alto a sx in cui: a) nella parte superiore è scritto “50.000.000”; b) nella parte centrale è scritto “30%” e “12%”..; c) nella parte più bassa è scritto “250”), quanto il doc. 7 (avente il seguente contenuto: “Tra i sottoscritti M. e R., con riferimento al credito di M. nei confronti di R. e aggiornato a Lire 250 milioni in data giugno 1992… si resta d’accordo che tale credito sarà ulteriormente aggiornato con riferimento a possibili redditi derivanti da investimenti in titoli di stato”), ed, all’esito, ha ritenuto che nell’atto del (OMISSIS) era rinvenibile, da un lato, la rinunzia da parte di F.R. all’eventuale prescrizione del diritto di F.M.M. quale nascente dall’aggiornamento (o meglio, dalla ricognizione di un debito di 250 milioni di Lire) del giugno del 1992, e, dall’altro lato, la pattuizione (e, comunque, l’ulteriore ricognizione di debito) secondo cui “il debito capitale” di Lire 250.000.000 doveva produrre, a partire dal mese di giugno del 1992, “interessi pari al rendimento dei titoli di stato”.

La corte, quindi, dopo aver escluso che, rispetto all’obbligazione complessivamente assunta da F.R. (per capitale e interessi) in data (OMISSIS), si ponesse un problema di prescrizione, ha condannato gli attori al pagamento, in conformità alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, della somma di Euro 305.222,64 (pari a Lire 590.993.432), oltre agli interessi legali dalla data della stessa relazione tecnica, ciascuno, come da domanda, nei limiti previsti dall’art. 752 c.c..

La corte, poi, ha provveduto ad esaminare il motivo dell’appello incidentale con il quale gli appellati avevano lamentato l’erroneità dell’assegnazione a F.M.M. di tutti i beni della comunione, e l’ha ritenuto infondato.

La corte, al riguardo, dopo aver evidenziato che il giudice, nell’esercizio del potere di attribuzione dell’immobile ritenuto non comodamente divisibile, non trova alcun limite nelle disposizioni dettate dall’art. 720 c.c., da cui gli deriva, al contrario, un potere prettamente discrezionale nella scelta del condividente cui assegnarlo, potere che trova il suo temperamento esclusivamente nell’obbligo di indicare i motivi in base ai quali ha ritenuto di dover dare la preferenza all’uno piuttosto che all’altro degli aspiranti all’assegnazione (così esaminando i contrapposti interessi dei condividenti in proposito), ha ritenuto che l’opzione del tribunale di assegnare all’appellante tutti i beni (dei quali non è contestata la non divisibilità) fosse condivisibile sul rilievo che la stessa aveva sempre mantenuto il possesso esclusivo di tali beni e che aveva provveduto lei sola alle relative spese: tali circostanze, ha aggiunto la corte, evidenziano “la sedimentazione nel tempo di uno stretto legame tra i detti beni e la detta F.M.M., ciò che invece non può dirsi per nessuno degli altri condividenti”.

La corte, infine, ha ritenuto che non vi fossero motivi per dissentire dalla stima, analitica ed esauriente, del consulente tecnico d’ufficio, il quale, del resto, risulta aver esaminato la diversa stima del consulente della parte attrice, e che non vi fosse motivo per divergere neppure dall’accertamento che lo stesso consulente tecnico d’ufficio aveva svolto per ciò che riguarda la determinazione delle spese sostenute dall’appellante per miglioramenti dei beni comuni.

D.W.M., F.G., F.R.S. e F.S.R., con ricorso notificato in data 12/4/2016, hanno chiesto, per cinque motivi, la cassazione della sentenza, dichiaratamente notificata il 15/2/2016.

F.M.M. ha resistito con controricorso notificato in data 20/5/2016. F.M.V. è rimasta intimata.

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, i ricorrenti, lamentando la nullità della sentenza e del procedimento, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, e la violazione degli artt. 214 e 215 c.p.c., anche in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che il doc. 7, prodotto dalla convenuta F.M.M., non era stato disconosciuto dagli attori.

1.2. La corte, infatti, hanno aggiunto i ricorrenti, ha ritenuto che gli attori, a fronte del deposito del doc. 7 da parte della convenuta, si erano limitati a dedurre una circostanza irrilevante (e cioè chi avesse compilato la scrittura) ed a formulare un apodittico convincimento giuridico (e cioè l’impossibilità di considerare la scrittura in questione come un riconoscimento di debito o fonte di obbligazione) ma non avevano proceduto al disconoscimento della sottoscrizione di F.R. quale presente in calce al doc. 7.

1.3. Così facendo, però, hanno osservato i ricorrenti, la corte non ha considerato che gli attori, con la memoria depositata il 2/5/2007 ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3, hanno tempestivamente disconosciuto il doc. 7 testualmente affermando che “che lo stesso è stato scritto presumibilmente da F.M.M.”.

1.4. La corte, quindi, hanno proseguito i ricorrenti, lì dove ha ritenuto che il doc. 7 non era stato disconosciuto dagli attori, è incorsa, in violazione degli artt. 214 e 215 c.p.c., in un palese error in procedendo, avendo qualificato come riconoscimento tacito quello che, invece, era un disconoscimento espresso.

1.5. Il disconoscimento di cui all’art. 214 c.p.c., infatti, hanno osservato i ricorrenti, non richiede formule sacramentali, potendo essere svolto con qualunque espressione idonea a manifestare dissenso rispetto all’attribuzione di paternità del documento, tanto più nel caso dei coeredi i quali, a norma dell’art. 214 c.p.c., comma 2, possono limitarsi a dichiarare di non conoscere la sottoscrizione del dante causa.

1.6. Nel caso di specie, hanno aggiunto i ricorrenti, la formula utilizzata dagli attori, lì dove hanno dichiarato che il documento è stato scritto presumibilmente da F.M.M. e contemporaneamente contestato che la sottoscrizione fosse di F.R., è sufficientemente univoca nell’esprimere, ai fini previsti dall’art. 214 c.p.c., comma 2, almeno un dubbio riguardo alla sottoscrizione attribuita al loro dante causa.

1.7. La corte, in effetti, hanno proseguito i ricorrenti, lungi dal cogliere la loro contestazione, ha ritenuto che gli attori, nel far presente che il documento era stato scritto presumibilmente da F.M.M., avevano inteso fare esclusivo riferimento alla redazione del testo e non anche alle due sottoscrizioni ivi apposte.

1.8. Tale interpretazione, tuttavia, hanno evidenziato i ricorrenti, è evidentemente errata: innanzitutto, per una ragione d’ordine letterale, avendo i ricorrenti fatto riferimento all’intero documento e ciò è sufficiente a negare sia la scrittura, sia la sottoscrizione da parte di F.R., essendo, viceversa, arbitrario ritenere che gli stessi avevano inteso fare riferimento solo al testo dell’atto e non anche alle sue sottoscrizioni; in secondo luogo, per una considerazione d’ordine logico, poichè gli attori, lì dove hanno affermato che il documento è stato scritto presumibilmente da F.M.M., non potevano che riferirsi proprio e soprattutto alla sottoscrizione del loro dante causa, non potendosi altrimenti spiegare l’avverbio “presumibilmente”, visto che non v’era dubbio e non c’era ragione utile per dubitare che il testo era stato scritto di pugno da M. e che la stessa lo aveva sottoscritto, laddove, al contrario, aveva senso logico manifestare dubbi solo sulla sottoscrizione del documento, attribuita dalla convenuta a F.R.;

1.9. Gli attori, quindi, hanno concluso i ricorrenti, hanno validamente, efficacemente e tempestivamente disconosciuto il doc. 7.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. Emerge, invero, dalla sentenza impugnata (p. 7) che: – la convenuta F.M.M., con la seconda memoria prevista dall’art. 183 c.p.c., ha prodotto in giudizio, come “doc. 7”, copia di una scrittura privata recante la data del (OMISSIS), evidenziandone la sottoscrizione (oltre che da parte della stessa convenuta, anche) da parte di F.R.; – gli attori, a fronte della produzione di tale documento, hanno testualmente affermato, con la terza memoria prevista dall’art. 183 c.p.c., che “relativamente al doc. 7 datato 12.6.04 si fa presente che lo stesso è stato scritto presumibilmente da F.M.V. e lo stesso non può essere inteso come riconoscimento di debito o fonte di obbligazione a carico di F.R.”.

2.3. La corte d’appello, come in precedenza evidenziato, ha ritenuto che gli attori, così facendo, si erano, in realtà, limitati, per un verso, a dedurre in giudizio una circostanza irrilevante (e cioè chi avesse compilato la scrittura) e, per altro verso, a formulare un apodittico convincimento giuridico (e cioè l’impossibilità di considerare la scrittura in questione come un riconoscimento di debito o fonte di obbligazione), ed ha, quindi, escluso, in forza di tali rilievi, che gli stessi, nella memoria in questione, avessero proceduto al tempestivo disconoscimento della sottoscrizione di F.R. “quale presente in calce al doc. 7”, negando anche che gli attori si fossero “tempestivamente attivati”, a norma dell’art. 214 c.p.c., comma 2, “rispetto alle sottoscrizioni di F.R., apposte sub docc. 2 e 7”, con la conseguente attribuzione a tali documenti dell’efficacia probatoria prevista dall’art. 2702 c.c..

2.4. Tali statuizioni si sottraggono alle censure espresse dai ricorrenti. La corte d’appello, invero, ha – implicitamente ma inequivocamente – ritenuto che le espressioni utilizzate dagli attori, in quanto riferite solo al testo della scrittura, non erano tali da costituire, ai fini previsti dall’art. 214 c.p.c., il disconoscimento della sottoscrizione di R. Finetti “quale presente in calce al doc. 7”. Il disconoscimento di una scrittura privata ai fini di cui all’art. 214 c.p.c., richiede, in effetti, la chiara ed univoca impugnazione della sua autenticità. Si tratta, invero, di un’eccezione in senso proprio la cui deduzione in giudizio, pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, postula pur sempre che la parte contro la quale la scrittura è prodotta in giudizio impugni chiaramente l’autenticità della stessa, nella sua interezza o limitatamente alla sottoscrizione, contestando formalmente tale autenticità, ove egli sia l’autore apparente del documento prodotto, ovvero, nel caso di erede o avente causa dall’apparente sottoscrittore, dichiarando di non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione di quest’ultimo (Cass. n. 9543 del 2002). Il disconoscimento della sottoscrizione deve, quindi, avvenire in modo formale ed inequivoco ed è, pertanto, inidonea a tal fine una contestazione generica oppure implicita (Cass. n. 12448 del 2012): nel senso, più precisamente, che è necessaria un’impugnazione specifica e determinata, da compiersi con atto processuale immediatamente successivo alla produzione in giudizio della scrittura, tale che se ne possa desumere con certezza la negazione dell’autenticità della scrittura e/o della relativa sottoscrizione (Cass. n. 2290 del 1996; Cass. n. 1591 del 2002; più di recente, Cass. n. 1537 del 2018).

2.5. L’idoneità delle espressioni utilizzate dalla parte a configurare un valido disconoscimento costituisce, peraltro, un giudizio di fatto ed è censurabile in sede di legittimità solo per vizio della motivazione (Cass. n. 1537 del 2018; Cass. n. 18042 del 2014; Cass. n. 11460 del 2007; Cass. n. 1591 del 2002), nei limiti in cui è consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, vale a dire, avendo riguardo al testo applicabile ratione temporis, solo per omesso esame circa un fatto decisivo. La sentenza impugnata è stata, infatti, depositata dopo l’11/9/2012 e trova, dunque, applicazione l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore successivamente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazioni con la L. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ed è noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 del 2014), la norma consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia (nella specie, neppure invocata) si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 7472 del 2017). Il ricorrente, pertanto, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, ha l’onere di indicare il fatto il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 20188 del 2017, in motiv.): ciò che, nel caso in esame, non è accaduto. I ricorrenti, infatti, non hanno dedotto, con la dovuta specificità, il fatto o i fatti che la corte d’appello, nella valutazione delle dichiarazioni rese dagli attori come in precedenza esposte, avrebbe del tutto omesso di esaminare.

2.6. Tali dichiarazioni, del resto, per come testualmente esposte (“relativamente al doc. 7 datato 12.6.04 si fa presente che lo stesso è stato scritto presumibilmente da F.M.V….”), non risultano affatto idonee nè ad integrare un vero e proprio disconoscimento della sottoscrizione ai fini di cui all’art. 214 c.p.c., comma 1, in difetto di una chiara deduzione con la quale gli stessi abbiano con certezza negato la relativa autenticità, nè ad esprimere la mancanza di conoscenza della scrittura o della relativa sottoscrizione da parte degli eredi di chi ne appaia l’autore, ai fini previsti dall’art. 214 c.p.c., comma 2, in difetto di qualsivoglia espressione in tal senso. Il disconoscimento da parte dell’erede della scrittura privata attribuita al de cuius postula, infatti, una dichiarazione di specifico ed univoco contenuto di non conoscere la scrittura del proprio autore, non bastando perciò una generica deduzione di mancanza di elementi atti alla individuazione dell’autore del documento (Cass. n. 11504 del 1992).

3.1. Con il secondo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e comunque la falsa ed omessa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1284 c.c., comma 3, artt. 1350,1418 e 1421 c.c., in relazione agli artt. 1815,1988 e 2720 c.c., hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto valida ed efficace una pattuizione di interessi in misura superiore a quella legale, pari a circa il 47% annuo per oltre vent’anni, in difetto di forma scritta.

3.2. La corte d’appello, infatti, hanno osservato i ricorrenti, accogliendo per intero la domanda ex mutuo proposta da F.M.M., ha omesso di rilevare, in violazione dell’art. 1284 c.c., comma 3, artt. 1350,1418 e 1421 c.c., che la pattuizione di interessi superiori alla misura legale avrebbe richiesto la forma scritta ad substantiam laddove, al contrario, nella specie, la pattuizione di interessi superiori alla misura legale, se mai effettivamente conclusa tra la convenuta ed il de cuius, lo è stata solo verbalmente.

3.3. Ed è noto, hanno proseguito i ricorrenti, che, a norma dell’art. 1284 c.c., comma 3, gli interessi possono essere determinati in misura superiore al tasso legale solo per iscritto e tale norma prescrive una forma scritta ad substantiam, il cui mancato rispetto determina la nullità, rilevabile d’ufficio in ogni grado e stato del giudizio, della relativa pattuizione, tanto più in caso di domanda di adempimento della stessa.

3.4. Peraltro, hanno aggiunto i ricorrenti, nel caso in cui la legge prescriva la forma scritta ad substantiam, la prova del rispetto di tale forma deve essere fornita con la produzione in giudizio del documento in originale, non potendo a tal fine rilevare un documento, formato successivamente, di riconoscimento o di ricognizione del debito.

3.5. Nel caso in esame, hanno osservato i ricorrenti, nè il doc. 2 nè il doc. 7, l’uno del 1992, l’altro del 2004, costituiscono una valida pattuizione in forma scritta di interessi in misura ultralegale, potendo al più essere considerati come un riconoscimento posteriore di accordi sugli interessi presi oralmente in epoca anteriore.

3.6. La corte d’appello, quindi, hanno concluso i ricorrenti, lì dove ha accolto la domanda della convenuta, omettendo di rilevare la nullità della pattuizione degli interessi ultralegali per difetto di forma scritta, ha violato l’art. 1284 c.c., comma 3, artt. 1350,1418 e 1421 c.c., in relazione agli artt. 1815,1988 e 2720 c.c..

4.1. Il motivo è non solo ammissibile ma anche fondato.

4.2. Emerge dalla sentenza impugnata che il tribunale ha rigettato la domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta sul rilievo che il credito ex mutuo vantato dalla stessa nei confronti del de cuius, in quanto dichiaratamente sorto nel 1984, come da riconoscimento di debito del 12/2/1992, si era prescritto, così come eccepito, per carenza di atti interruttivi dal 12/2/1992 e l’atto di citazione. Ed è noto che, ad onta di quanto eccepito dalla controricorrente, ove il giudice di primo grado rigetta la domanda di adempimento del contratto si forma il giudicato implicito sulla relativa validità a meno che come, appunto, si è verificato nel caso di specie – la decisione non risulti fondata sulla ragione cd. “più liquida”. L’adozione di una decisione (di rigetto della domanda) sulla base della ragione più liquida, come la prescrizione del diritto azionato, postula, in effetti, che il giudice non abbia in alcun modo scrutinato le questioni concernenti la validità del contratto, con la conseguenza che la relativa pronuncia non è idonea all’effetto di giudicato sulla non – nullità del contratto (Cass. SU n. 26242 del 2014, in motiv.).

4.3. La corte d’appello, dal suo canto, dopo aver premesso che: – la convenuta aveva dedotto che nel 1984 aveva prestato al fratello R. la somma di Lire 50.000.000, da restituire con i relativi interessi; – F.R., nel 1992, aveva sottoscritto una scrittura privata che quantificava in Lire 250.000.000 il debito corrispondente al prestito di Lire 50.000.0000 del 1984 quale maggiorato degli interessi maturati, ha valutato tanto il doc. 2 (che “ha un riquadro in alto a sx in cui: a) nella parte superiore è scritto 50.000.000; b) nella parte centrale è scritto “30%” e “12%”…; c) nella parte più bassa è scritto “250”), quanto il doc. 7 (avente il seguente contenuto: “Tra i sottoscritti M. e R., con riferimento al credito di M. nei confronti di R. e aggiornato a Lire 250 milioni in data giugno 1992… si resta d’accordo che tale credito sarà ulteriormente aggiornato con riferimento a possibili redditi derivanti da investimenti in titoli di stato”) ed ha ritenuto che, in tale atto, recante la data del (OMISSIS), era rinvenibile, per un verso, la rinunzia da parte di F.R. all’eventuale prescrizione del diritto della sorella F.M.M. quale nascente dalla ricognizione del debito di Lire 250.000.000 del giugno del 1992, e, per altro verso, la pattuizione (e, comunque, l’ulteriore ricognizione di debito) secondo cui il debito capitale di Lire 250.000.000 doveva produrre, dal mese di giugno del 1992, interessi pari al rendimento dei titoli di Stato. La corte, quindi, dopo aver evidenziato che rispetto all’obbligazione complessivamente assunta da F.R., per capitale e interessi, in data (OMISSIS), non si poneva alcun problema di prescrizione, ha ritenuto, in definitiva, che gli attori dovessero essere condannati, in conformità alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, al pagamento della somma di Euro 305.222,64, oltre agli interessi legali dalla data della stessa relazione tecnica.

4.4. La corte d’appello, quindi, dopo aver escluso che il credito (alla restituzione della somma di Lire 50.000.000 e dei relativi interessi) derivante dal mutuo stipulato nel 1984 tra la convenuta e F.R. si fosse prescritto, ha, poi, condannato gli attori, quali (co)eredi del mutuatario, al pagamento della somma a suo tempo prestata a quest’ultimo nella misura (pari a Lire 250.000.000) in cui lo stesso, nel 1992, l’aveva riconosciuta quale maggiorata degli interessi medio tempore maturati.

4.5. Risulta, però, evidente che, così facendo, la corte d’appello non ha in alcun modo considerato che il mutuo di una somma di denaro pari, nel 1984, a Lire 50.000.000, oltre interessi, non può comportare, dopo soli otto anni, e cioè nel 1992, l’obbligo del mutuatario di restituire, per capitale e interessi, una somma pari a Lire 250.000.000: se non, evidentemente, alla condizione che gli interessi maturati sulla somma prestata nel 1984 siano stati pattuiti dalle parti (e, come tali, riconosciuti dal mutuatario nel 1992) in misura superiore al tasso legale (così come incontestatamente esposto dai ricorrenti a p. 21 del ricorso). Solo che, com’è noto, ai sensi dell’art. 1284 c.c., comma 3, (richiamato in materia di mutuo dall’art. 1815 c.c., comma 1, in fine), che è norma imperativa, la costituzione dell’obbligo di pagare interessi in misura superiore a quella legale richiede la forma scritta ad substantiam (Cass. n. 3017 del 2014, la quale ha escluso che, in caso di mancata sottoscrizione del relativo patto da parte di entrambi i contraenti, un accordo siffatto potesse ritenersi concluso per facta concludentia) e deve contenere l’indicazione della percentuale del tasso di interesse in ragione di un periodo predeterminato (Cass. n. 2072 del 2013). E non solo: una volta che la costituzione dell’obbligo di corrispondere interessi in misura superiore a quella legale richieda, come detto, la forma scritta ad substantiam, con la conseguenza che la sua mancanza comporta la nullità della clausola stessa e l’automatica sostituzione della misura convenzionale con quella legale, l’eventuale richiamo alla clausola contenente la pattuizione di interessi in misura ultralegale in altro documento successivo equivale ad un riconoscimento di debito ed è, come tale, inidoneo a porre tale obbligo a carico del debitore, in quanto l’atto scritto concernente la pattuizione degli interessi ha natura costitutiva e non dichiarativa (Cass. n. 266 del 2006; conf., Cass. n. 280 del 1997; Cass. n. 15643 del 2003).

5.1. Con il terzo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e comunque la falsa ed omessa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1284 c.c., comma 2, artt. 1346,1418 e 1421 c.c., in relazione all’art. 1815 c.c., hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto valida ed efficace, in quanto determinata, la pattuizione di interessi convenzionali “con riferimento a possibili redditi derivanti da investimenti in titoli di stato”.

5.2. La corte d’appello, infatti, hanno osservato i ricorrenti, accogliendo per intero la domanda riconvenzionale proposta da F.M.M., ha omesso di rilevare che il doc. 7, lì dove ha stabilito il saggio convenzionale degli interessi ipoteticamente dovuti da de cuius alla sorella, è radicalmente ed insanabilmente nullo per indeterminatezza ed indeterminabilità dell’oggetto.

5.3. Il predetto documento, infatti, hanno proseguito i ricorrenti, ha stabilito che “con riferimento al credito di M. nei confronti di R. e aggiornato a Lire 250 milioni in data giugno 1992… si resta daccordo (sic) che tale credito sarà ulteriormente aggiornato con riferimento a possibili redditi derivanti da investimenti in titoli di stato”.

5.4. Si tratta, hanno osservato i ricorrenti, di un’espressione alla quale potrebbero corrispondere tassi anche molto diversi tra loro e, quindi, “riempita” in modi diversi a seconda dei titoli di Stato che si assumano quali parametri di riferimento. L’espressione in esame, quindi, è indeterminata e, di conseguenza, il tasso d’interesse ivi riconosciuto è indeterminabile e, come tale, nullo ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c..

5.5. La corte d’appello, pertanto, hanno concluso i ricorrenti, lì dove ha accolto la domanda della convenuta, omettendo di rilevare la nullità della pattuizione degli interessi convenzionali per insufficiente determinatezza, ha violato l’art. 1284 c.c., comma 2, artt. 1346,1418 e 1421 c.c., in relazione all’art. 1815 c.c..

6.1. Il motivo, oltre che ammissibile per le ragioni esposte al punto 4.2., è fondato.

6.2. La corte d’appello, in effetti, dopo aver escluso come in precedenza visto – che il credito (alla restituzione della somma di Lire 50.000.000 e dei relativi interessi) derivante dal mutuo stipulato nel 1984 tra la convenuta e F.R. si fosse prescritto, ha, innanzitutto, determinato la somma a suo tempo prestata a quest’ultimo nella misura (pari a Lire 250.000.000) in cui lo stesso, nel 1992, l’aveva riconosciuta quale maggiorata degli interessi medio tempore maturati, ed ha, poi, calcolato su tale “debito capitale” – in forza del doc. 7 (avente il seguente contenuto: “Tra i sottoscritti M. e R., con riferimento al credito di M. nei confronti di R. e aggiornato a Lire 250 milioni in data giugno 1992… si resta d’accordo che tale credito sarà ulteriormente aggiornato con riferimento a possibili redditi derivanti da investimenti in titoli di stato”) – gli interessi nella misura corrispondente “al rendimento dei titoli di stato”, a partire dal mese di giugno del 1992, condannando, quindi, gli attori al pagamento, in conformità alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, della somma di Euro 305.222,64 (pari a Lire 590.993.432), oltre agli ulteriori interessi legali dalla data della stessa relazione tecnica.

6.3. Risulta, tuttavia, evidente che, così giudicando, la corte d’appello non ha in alcun modo considerato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di contratti di mutuo, la convenzione relativa agli interessi, per essere validamente stipulata ai sensi dell’art. 1284 c.c., comma 3, che è norma imperativa, deve avere un contenuto assolutamente univoco e contenere la puntuale specificazione del tasso di interesse. Si è, infatti, ripetutamente affermato che la clausola di determinazione degli interessi corrispettivi dovuti dal mutuatario è validamente stipulata ai sensi dell’art. 1346 c.c. anche se la stessa si limita al mero richiamo di criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, a condizione, però, che gli stessi, in quanto funzionali alla concreta determinazione del saggio di interesse, siano obiettivamente individuabili (Cass. n. 8028 del 2018; Cass. n. 25205 del 2014). Il requisito della forma scritta per la determinazione degli interessi extralegali (art. 1284 c.c., u.c.), in effetti, non postula necessariamente che la convenzione medesima contenga una puntuale indicazione in cifre del tasso così stabilito, ben potendo essere soddisfatto, secondo i principi generali sulla determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto, contenuto nell’art. 1349 c.c., anche per relationem, attraverso cioè il richiamo – operato per iscritto – a criteri prestabiliti ovvero ad elementi estrinseci al documento negoziale, purchè obiettivamente e sicuramente individuabili, che consentano la concreta determinazione del relativo saggio di interesse, la quale, pur nella previsione di variazioni nel tempo e lungo la durata del rapporto, risulti capace di venire assicurata con certezza al di fuori di ogni margine di discrezionalità (cfr. Cass. n. 9080 del 2002; Cass. n. 6113 del 1994; Cass. n. 2765 del 1992).

7. Con il quarto motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e comunque la falsa ed omessa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1283 c.c., hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, accogliendo la domanda riconvenzionale ex mutuo della convenuta, ha ritenuto che gli attori, pur in assenza di una convenzione espressa posteriore alla loro scadenza, erano tenuti al pagamento degli interessi anatocistici.

8. Con il quinto motivo, i ricorrenti, lamentando l’omesso esame di fatti decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha provveduto ad assegnare alla convenuta F.M.M. l’intero compendio immobiliare, omettendo, tuttavia, di esaminare alcuni fatti al riguardo decisivi, e cioè le molto maggiori quote di comproprietà di cui gli attori sono congiuntamente titolari, il cattivo stato in cui la convenuta ha tenuto l’immobile e la doverosa comparazione dei contrapposti interessi di tutti i condividenti.

9. Il quarto ed il quinto motivo restano assorbiti dall’accoglimento del secondo e del terzo.

10. Il ricorso, per il secondo ed il terzo motivo, dev’essere, quindi, accolto e la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, per l’effetto, cassata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Firenze che, in differente composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte così provvede: accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso; rigetta il primo, assorbiti gli altri; cassa, in relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Firenze che, in differente composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2020

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