Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20552 del 19/07/2021

Cassazione civile sez. II, 19/07/2021, (ud. 03/02/2021, dep. 19/07/2021), n.20552

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25980/2016 proposto da:

F.M., F.D., E F.A., rappresentati e

difesi dall’Avvocato PAOLA BALDINI, E ANTONELLA FIASCHI, per procura

speciale apposta a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI CORNO DI ROSAZZO, rappresentato e difeso dall’Avvocato

STEFANO MAURO, per procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 521/2016 della CORTE D’APPELLO DI TRIESTE,

depositata il 3/8/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 3/2/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

F.M., F.A. e F.D., con atto di citazione notificato in data 13/8/2012, hanno convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Udine, il Comune di Corno di Rosazzo chiedendo la sua condanna al pagamento della somma di Euro 74.084,40, di cui Euro 40.236,91 per rifusione di affitti percepiti dal Comune e di Euro 33.847,49 per rimborso di spese.

Gli attori, in qualità di eredi legittimi di A.R. ed I., hanno dedotto che: – B.D., con testamento del 10/6/1952, aveva stabilito che la nuda proprietà dei suoi numerosi beni fosse devoluta ad una fondazione “(OMISSIS)” e che l’usufrutto andasse alle sue domestiche, A.R. ed I., devolvendo altri beni al nipote B.G.; – il Comune di Corno di Rosazzo e le A., a fronte della mancata costituzione della fondazione, erano pervenuti ad un accordo, formalizzato in due atti: con il primo, in data 15/3/1990, venne riconosciuto al Comune l’acquisto per usucapione della nuda proprietà dei beni mentre, con il secondo, in pari data, le A. permutarono il loro diritto di usufrutto su parte dei beni con la metà della nuda proprietà dei beni stessi; – tale accordo è stato, tuttavia, impugnato dall’eredità giacente di B.D.; – dopo lunghe vicende processuali, le A. dovettero restituire agli aventi causa di B.G., nipote ed erede legittimo della de cuius, tutti i beni che, in base all’atto di permuta, avevano ricevuto in proprietà.

Gli attori, quindi, in qualità di eredi legittimi di A.R. ed I., hanno chiesto che il Comune restituisse loro i proventi che aveva ottenuto dai beni ricevuti in usufrutto, dalla data dell’atto di permuta fino all’estinzione dell’usufrutto, avvenuta con la morte dell’ultima usufruttuaria in data 30/9/2002, oltre alla restituzione delle spese sostenute per l’atto di permuta.

Il Comune si è costituito in giudizio ed ha eccepito, innanzitutto, la prescrizione del diritto alla restituzione, visto il decorso del termine di cinque anni dal deposito della sentenza di primo grado alla data della richiesta nonché del più ampio termine di dieci anni configurando l’azione come ripetizione dell’indebito, e, in secondo luogo, di essere al più tenuto, quale possessore di buona fede, alla restituzione dei frutti dalla domanda mentre nessun danno poteva essergli richiesto.

Il tribunale ha, in parte, accolto le domande proposte dagli attori ed ha condannato il Comune al pagamento della somma complessiva di Euro 27.732,55, oltre interessi dal 3/10/2007 al saldo.

Gli attori hanno proposto appello.

Il Comune ha resistito al gravame ed ha, a sua volta, proposto appello incidentale avverso la sentenza nella parte in cui il tribunale non aveva riconosciuto l’avvenuta prescrizione del diritto azionato ritenendo che “la declaratoria di inefficacia della permuta conclusa tra le parti ha implicato in sostanza un’evizione”. Il Comune, al riguardo, ha dedotto che la qualificazione così attribuita dal tribunale alla vicenda fosse erronea, dovendo la stessa essere sussunta nella diversa fattispecie della ripetizione dell’indebito, e che, di conseguenza, la pretesa azionata dagli attori dovesse essere dichiarata prescritta, stante il decorso del termine decennale dal momento della conclusione degli atti nulli. D’altra parte, ha ulteriormente sostenuto il Comune, la sentenza erroneamente non ha accolto l’eccezione di mutatio libelli formulata in primo grado a fronte dell’illegittima modifica della domanda avanzata dagli attori i quali, in citazione, avevano chiesto la restituzione dei frutti e il risarcimento del danno emergente, fondando tali domande sulla nullità del contratto, mentre, solo successivamente, avevano modificato tale domandi, come risarcimento del danno da evizione.

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha accolto l’appello incidentale del Comune, per intervenuta prescrizione del diritto alla restituzione, ed ha rigettato l’appello principale, riformando totalmente la sentenza impugnata.

La corte, in particolare, dopo aver premesso che: – la domanda proposta dagli attori in primo grado aveva ad oggetto la richiesta di restituzione delle somme introitate dal Comune per affitti, quantificati in Euro 40.236,91, e per spese, quantificate in Euro 33.847,49, per la somma complessiva di Euro 74.084,40; – tale domanda veniva fondata sul fatto che “il Comune.. non è mai stato proprietario dei beni oggetto dell’eredità e che l’atto di permuta è da ritenersi inefficace”; gli attori, in comparsa conclusionale, avevano qualificato la domanda come “risarcimento per evizione”, e tale qualificazione era stata fatta propria dal tribunale; ha ritenuto che, come emergeva dalla semplice lettura degli atti di primo grado, la domanda originariamente formulata era “diversa e distinta da quella poi specificata in sede di comparsa conclusionale”, sul rilievo che “la prima trovava il suo fondamento sull’asserita nullità degli atti e sul conseguente obbligo restitutorio; la seconda su una diversa disciplina attinente agli obblighi posti a carico del venditore e segnatamente sulla garanzia per evizione”, e che tale mutamento integrava, tanto più se svolta solo nella comparsa conclusionale, una non consentita mutatio libelli.

Peraltro, ha aggiunto la corte, la domanda proposta dagli attori non poteva essere qualificata, come invece aveva fatto il tribunale, come azione di “garanzia per evizione” neppure in via ufficiosa: l’azione di garanzia per evizione (cui la domanda restitutoria è consequenziale), infatti, ha per causa petendi il contratto ed il suo inadempimento colpevole, mentre l’azione di ripetizione dell’indebito ha per causa petendi l’esecuzione di un pagamento e l’inesistenza di una causa solvendi.

La corte, quindi, una volta stabilito che la domanda di garanzia per evizione aveva introdotto una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria e che la domanda proposta in primo grado dagli attori doveva essere qualificata come domanda di ripetizione di somme indebitamente percepite dal Comune a titolo di affitto e spese non dovute, ha affrontato la questione, sollevata dal Comune in via incidentale, della sua prescrizione.

Premesso che le somme richieste in restituzione riguardano gli affitti percepiti dal Comune sugli immobili permutati sui quali avevano il diritto di usufrutto le A. e le spese dalle stesse sostenute per i relativi atti, la corte ha ritenuto che, in caso clt nullità, annullamento, risoluzione o rescissione del contratto, con il venir meno del vincolo originariamente esistente, l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso, è quella di ripetizione dell’indebito oggettivo, che si configura non solo quando l’originaria causa di pagamento sia venuta meno, ma anche quando essa manchi sin dall’origine.

La prescrizione del diritto alla restituzione di quanto indebitamente pagato decorre, pertanto, ha proseguito la corte, dal giorno del pagamento e non della sentenza di nullità o di risoluzione, avendo tali decisioni efficacia retroattiva con caducazione fin dall’origine dell’atto o della modifica della situazione giuridica preesistente.

E poiché, ha aggiunto la corte, gli atti in questione risalgono al 19/3/1990, ogni diritto di restituzione deve essere dichiarato prescritto.

F.M., F.A. e F.D., con ricorso notificato il 16/11/2016, hanno chiesto, per due motivi, la cassazione della sentenza, dichiaratamente notificata in data 20/9/2016.

Il Comune di Corno di Rosazzo ha resistito con controricorso notificato il 20/12/2016.

I ricorrenti hanno depositato breve memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, i ricorrenti, denunciando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 163 c.p.c., nn. 3 e 4 e degli artt. 1553, 1483 e, più in generale, delle norme che disciplinano l’evizione, e dell’art. 2033 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, nonché l’omessa, insufficiente, errata e/o contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che gli attori, nell’atto introduttivo del giudizio, avevano proposto una domanda di ripetizione dell’indebito e che solo in comparsa conclusionale avevano invocato le garanzie dell’evizione.

1.2. Così facendo, infatti, hanno osservato i ricorrenti, la corte d’appello non ha considerato che, in realtà, gli attori, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, si erano limitati a descrivere dettagliatamente i fatti dai quali ritenevano che derivasse il loro diritto nei confronti del Comune alla restituzione dei frutti e alla refusione delle spese, senza dare alla domanda alcuna qualificazione giuridica né in termini di ripetizione dell’indebito, né di garanzia da evizione. Solo nella comparsa conclusionale, gli attori, senza allegare fatti nuovi o diversi e senza proporre alcuna nuova domanda, hanno fornito una esplicita qualificazione giuridica alla richiesta di risarcimento.

1.3. La corte d’appello, d’altra parte, per il solo fatto che nell’atto introduttivo la domanda proposta era stata collegata all’inefficacia dell’atto di permuta, ha ritenuto che la stessa dovesse essere qualificata come ripetizione dell’indebito e non come azione di garanzia per evizione, senza, tuttavia, considerare che, nel caso in esame, proprio la declaratoria d’inefficacia della permuta in conseguenza dell’accertato difetto di titolarità del diritto permutato concretizzava il fatto evizionale che giustifica la richiesta di risarcimento.

1.4. Pertanto, hanno osservato i ricorrenti, il riferimento, operato nell’atto di citazione, alla nullità (o meglio, all’inefficacia) dell’atto di permuta in quanto posto in essere dal Comune senza essere titolare del diritto ceduto, non esclude affatto, anzi giustifica, la configurabilità dell’evizione e la conseguente richiesta da parte degli attori, ai sensi degli artt. 1483,1479 e 1553 c.c., di restituzione (non della cosa permutata, e cioè il diritto di usufrutto, diventata impossibile in conseguenza della morte delle A., ma) dei frutti che il Comune aveva incassato al posto delle A. per effetto della permuta e della refusione delle spese sostenute dalle stesse per la stipula del contratto.

1.5. Del resto, il fatto che nell’atto introduttivo fosse stata richiesta la refusione delle spese per la stipula della permuta e che le somme erano state richieste con rivalutazione monetaria ed interessi e che la prescrizione sia stata fatta decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza, avrebbe dovuto indurre, come aveva fatto il tribunale, a propendere per la configurabilità dell’evizione.

1.6. Con il secondo motivo, i ricorrenti, denunciando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 101 e 112 c.p.c. e degli artt. 1553, 1483 e, più in generale, delle norme che disciplinano l’evizione, e degli artt. 2033 e 2934 c.c. e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, nonché l’omessa, insufficiente, errata e/o contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, partendo dall’errato presupposto che gli attori, pur avendo le loro danti causa innegabilmente subito un’evizione, avessero inteso proporre una domanda di ripetizione dell’indebito, ha ritenuto che la domanda di garanzia prospettata solo in comparsa conclusionale costituisse una vietata mutatio libelli.

1.7. Così facendo, infatti, hanno osservato i ricorrenti, la corte d’appello non ha considerato che, in realtà, la domanda proposta nell’atto introduttivo non era stata qualificata e che dalla lettura complessiva dell’atto non emergono elementi che facciano propendere per il suo inquadramento nella ripetizione dell’indebito piuttosto che nella garanzia per evizione. In realtà, gli attori avevano richiesto il risarcimento del danno consistente nella restituzione degli affitti e nel pagamento delle spese, ponendo alla base della richiesta una narrazione di fatti dalla quale si evince in modo incontrovertibile la sofferta evizione, per cui non vi era stata alcuna mutatio libelli.

1.8. D’altra parte, hanno aggiunto i ricorrenti, pur a voler ritenere che gli attori avessero voluto proporre una domanda di ripetizione dell’indebito, resta il fatto che il giudice può interpretare e qualificare la domanda senza essere condizionato alla formula adottata dalla parte, dovendo solo tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e del provvedimento concretamente richiesto.

1.9. La corte d’appello, inoltre, lì dove ha ritenuto che nell’azione di garanzia per evizione la causa petendi sia costituita dal contratto e dal suo inadempimento colpevole, non ha considerato che, in realtà, tale garanzia opera per il solo fatto obiettivo della perdita del diritto acquistato, indipendentemente dall’eventuale colpa del venditore e dalla conoscenza o dalla conoscibilità da parte sua della possibile causa di evizione, e che l’obbligo restitutorio che grava sul venditore dev’essere qualificato come indebito oggettivo scaturente da un vizio dell’oggetto e della causa del contratto. Ne consegue che l’azione proposta dagli attori, ove mai qualificata come ripetizione dell’indebito, non ha introdotto un tema di indagine nuovo poiché l’evizione, prescindendo dall’inadempimento colpevole, determina l’obbligo di restituire un pagamento non dovuto.

1.10. La corte d’appello, infine, hanno concluso i ricorrenti, ha errato anche nella parte in cui ha ritenuto che l’azione proposta dagli attori, dovendo essere qualificata come ripetizione dell’indebito derivante dalla nullità del contratto, si fosse prescritta, senza, tuttavia, considerare che gli attori non avevano agito per far dichiarare la nullità del contratto, che hanno invece subito, ma per ottenere il risarcimento derivante dalla nullità dichiarata per iniziativa di un terzo, e che tale diritto si prescrive, pertanto, con decorrenza non dall’atto ma dalla declaratoria giudiziale della nullità.

2.1. I motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

2.2. La corte d’appello, infatti, ha accolto l’appello incidentale proposto dal Comune sul rilievo per cui la domanda proposta dagli attori nell’atto introduttivo, in quanto fondata “sull’asserita nullità degli atti e sul conseguente obbligo restitutorio”, doveva essere qualificata come un’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo e non come un’azione di garanzia per evizione. I ricorrenti, pertanto, lì dove hanno affermato che gli attori avevano in realtà agito in giudizio con l’azione di garanzia per evizione e che la sentenza impugnata, qualificando invece tale azione come domanda di ripetizione dell’indebito per effetto della nullità del contratto di permuta, avrebbe, in sostanza, violato l’art. 112 c.p.c., per aver omesso di pronunciarsi sulla domanda dagli stessi effettivamente proposta, si sono, a ben vedere, doluti dell’interpretazione che la corte d’appello ha dato di tale domanda (o meglio, dell’atto di citazione, che la contiene) e, (solo) per l’effetto, della sua conseguente qualificazione come azione di ripezione dell’indebito.

2.3. Ora, non v’e’ dubbio che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il giudice di merito, nell’esercizio del potere d’interpretazione e qualificazione della domanda, ha il potere-dovere di accertare e valutare, senza essere condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata (Cass. n. 13602 del 2019).

2.4. L’interpretazione del contenuto della domanda costituisce, peraltro, un tipico accertamento in fatto, riservato come tale al giudice di merito e sindacabile in cassazione solo per violazione delle norme che regolano l’ermeneutica contrattuale previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg., la cui portata è generale, ovvero per vizio di omesso esame di un fatto a tal fine decisivo.

2.5. Il ricorrente che intenda utilmente censurare in sede di legittimità il significato attribuito dal giudice di merito ad un atto processuale, come l’atto di citazione, ha, dunque, l’onere (rimasto, nel caso di specie, inadempiuto) di invocare il vizio consistito o nell’omesso esame di fatti decisivi, indicandone la loro specifica deduzione in giudizio, ovvero nella violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg., indicando altresì, a pena d’inammissibilità, le considerazioni del giudice in contrasto con i criteri ermeneutici, nonché, e prima ancora, il testo dell’atto oggetto dell’interpretazione asseritamente erronea (cfr. Cass. n. 16057 del 2016; Cass. n. 6226 del 2014; Cass. n. 11343 del 2003; più di recente, Cass. n. 12574 del 2019).

2.6. Nel caso di specie, come detto, tale onere non è stato adempiuto. I ricorrenti, infatti, pur dolendosi dell’interpretazione che la corte d’appello ha fornito dell’atto di citazione, non hanno indicato né quali criteri ermeneutici sarebbero stati violati, nell’espletamento di tale accertamento, dalla corte territoriale e in che modo la stessa se ne sarebbe discostata, né i fatti sul punto decisivi che la stessa avrebbe del tutto omesso di esaminare, ma, prima ancora, non hanno provveduto a riprodurre in ricorso, neppure nei suoi dati essenziali, il testo dell’atto che la corte d’appello avrebbe malamente interpretato.

2.4. Per il resto, una volta che la domanda proposta dagli attori risulta (oramai definitivamente) quella di (mera) ripetizione dell’indebito fondata sulla nullità del contratto di permuta (delle attribuzioni a suo tempo prestate al Comune, e cioè del diritto di usufrutto di cui le A. erano titolari, e dei frutti maturati medio tempore), si sottrae, evidentemente, alle censure svolte dai ricorrenti la decisione che la corte d’appello ne ha conseguente tratto in ordine al decorso del relativo termine di prescrizione. In effetti, l’accertata nullità di un contratto, in esecuzione del quale sia stato eseguito un pagamento, dà luogo ad un’azione di ripetizione di indebito oggettivo, volta ad ottenere la condanna alla restituzione della prestazione eseguita in adempimento dell’atto nullo, il cui termine di prescrizione inizia a decorrere non già dalla data del passaggio in giudicato della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella del pagamento stesso (Cass. n. 15669 del 2011; Cass. n. 10250 del 2014; Cass. n. 24653 del 2016 per cui, in tema di termine di prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito, occorre distinguere il caso di nullità del contratto e, dunque, di mancanza originaria della causa solvendi, in cui il dies a quo comincia a decorrere dal giorno dell’intervenuta esecuzione della prestazione, da quelli in cui il difetto della causa solvendi sopravvenga al pagamento, nei quali il suddetto termine decorre dal giorno in cui l’accertamento dell’indebito è divenuto definitivo): come, del resto, gli stessi ricorrenti, nell’atto di citazione introduttivo del giudizio, avevano affermato, sia pur con riferimento all’inefficacia della permuta, deducendo, a sostegno del proprio diritto alla restituzione, che “un atto dichiarato inefficace, in quanto stipulato da un soggetto privo di potere, non produce i suoi effetti dal momento della stipula” e che, pertanto, “le sig.re A. dovevano rimanere usufruttuarie dei beni di cui avevano ceduto l’usufrutto e percepirne i proventi dal 15.03.1990 (data dell’atto di

Ric. 2016 n. 25980, Sez. 2, c.c. del 3 febbraio 2021 permuta) al 3.07.2002 (data della morte dell’ultima usufruttuaria)” (v. l’atto di citazione, p. 7).

3. Il ricorso, per l’infondatezza di tutti i suoi motivi, dev’essere, quindi, rigettato.

4. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

5. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 5.800,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2021

 

 

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