Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20549 del 29/09/2020

Cassazione civile sez. II, 29/09/2020, (ud. 03/03/2020, dep. 29/09/2020), n.20549

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8388/2017 R.G., proposto da:

N.G., rappresentato e difeso dall’avv. Joseph Feroleto De

Maria, elettivamente domiciliato in Roma, Via Antonio Silvani n. 32;

– ricorrente –

contro

F.V. E N.A.R., rappresentate e difese dall’avv.

Antonio Stanizzi, elettivamente domiciliata in Roma, via Maresciallo

Pilsudski 118;

– controricorrenti –

N.M.G.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 405/2017,

depositata in data 24.1.2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3.3.2020 dal

Consigliere Fortunato Giuseppe.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

N.G. e N.M.G. hanno convenuto in giudizio N.A.R. e F.V. dinanzi al Tribunale di Roma, chiedendo di dichiarare la nullità dei testamenti do N.A., pubblicati in data 2.4.2008 ad opera della F., moglie del de cuius, e di accertare l’avvenuta distruzione di altra scheda testamentaria, redatta nel 2006, disponendo la divisione dell’eredità conformemente al contenuto del testamento distrutto. N.A.R. ha resistito alla domanda, mentre F.V. ha chiesto, in via riconvenzionale, la divisione della quota del 50% dei beni ricadenti nell’asse ereditario.

Il tribunale, pronunciata la cessazione della materia del contendere sulla domanda di nullità dei testamenti, ha dichiarato l’apertura della successione di N.A., ordinando a N.G., a N.M.G. e ad N.A.R. la collazione del 50% degli immobili siti in Vibo Valentia, dichiarando assorbita la domanda di riduzione per lesione di legittima e ponendo a carico di F.V. l’obbligo di reintegrare l’asse ereditario mediante il versamento di Euro 35.000,00.

Ha sciolto la comunione ereditaria sul 50% degli immobili facenti parte dell’asse ed ha assegnato a F.V. il 50% della nuda proprietà dell’appartamento sito in (OMISSIS), già gravato dal diritto di abitazione in favore dell’assegnataria, ad N.A.R. il 50% dell’immobile sito in (OMISSIS) e a N.G. e a N.M.G. il 50% dei terreni e dei fabbricati rurali siti in (OMISSIS), suddividendo tra i coeredi i saldi attivi dei conti bancari intestati al de cuius.

La sentenza è stata confermata in appello.

La Corte distrettuale di Roma, dopo aver richiamato i requisiti di ammissibilità dell’appello ai sensi della nuova formulazione dell’art. 342 c.p.c. (nel testo modificato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a), convertito con L. n. 134 del 2012), ha osservato, quanto alla dedotta violazione dell’art. 718 c.c., che l’appellante si era limitato a formulare una censura che non teneva conto di quanto il tribunale aveva esposto nella motivazione, e che il motivo difettava di specificità “poichè le carenze giuridiche che, a detta dell’appellante, viziavano il ragionamento del giudice di primo grado, sono state dedotte come errori di valutazione delle risultanze istruttorie, senza poi esporre specificamente come quegli errori avessero determinato la disapplicazione dell’art. 718 c.c.”.

La sentenza, esaminando anche nel merito i motivi di impugnazione, li ha dichiarati infondati, richiamando le motivazioni della sentenza di primo grado (di cui ha trascritto l’intero contenuto), evidenziando che le censure proposte in appello non tenevano in alcun conto “delle specifiche e puntuali argomentazioni del primo giudice riguardo alla natura dei diritti dei singoli condividenti in relazione ai principi giuridici in materia di attribuzione delle porzioni per quote diseguali ed in presenza di ragioni di fatto che giustificano l’assegnazione di un dato bene ad uno specifico condividente (come nel caso in cui questi si presenti già titolare in via autonoma di una quota del bene o abbia diritto al suo uso esclusivo in quanto titolare dell’usufrutto sull’intero)”.

La cassazione della sentenza è chiesta da N.G., con ricorso in tre motivi, (Ndr: testo originale non comprensibile).

N.V. e N.A.M., hanno resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell’art. 342 c.p.c., art. 718 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, sostenendo che, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, l’impugnazione era conforme ai requisiti di contenuto imposti dalla nuova formulazione dell’art. 342 c.p.c., avendo il ricorrente indicato le parti della sentenza di cui intendeva ottenere la riforma (riguardanti, in particolare, l’assegnazione alle convenute del 50% degli immobili siti in (OMISSIS), la mancata attribuzione al ricorrente di una porzione di detti cespiti e la quantificazione dei conguagli e delle somme oggetto di collazione), le modifiche richieste e le norme violate, evidenziando che la richiesta di assegnazione degli immobili siti in Vibo Valentia, da 4A, formulata, non valeva come rinuncia ai diritti sugli altri immobili, che andavano assegnati in applicazione dell’art. 718 c.c., attribuendo a ciascun avente diritto una porzione in natura dei beni.

Si lamenta inoltre che la Corte di merito – in violazione degli artt. 348 bis e ss. c.p.c., – abbia dichiarato l’inammissibilità del gravame con sentenza e dopo aver raccolto le precisazione delle conclusioni delle parti, definendo il processo anche nel merito ma con motivazioni del tutto generiche e non aderenti alla particolarità del caso concreto.

Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 342 c.p.c., e l’omessa ed apparente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 5, per aver la sentenza dichiarato l’inammissibilità dell’appello senza dare risposta nel merito alle censure formulate con l’atto di gravame, essendosi limitata ad affermare – del tutto erroneamente – che i motivi di impugnazione non tenevano conto delle argomentazioni espressa dal giudice di primo grado.

Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 342 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver la Corte d’appello adottato una motivazione per relationem, riportando l’integrale contenuto della decisione di primo grado, senza alcun riferimento alle censure proposte dall’appellante ed in modo da impedire ogni controllo sulla correttezza dell’iter argomentativo della sentenza impugnata.

2. I tre motivi, che possono esaminarsi per la loro stretta connessione, sono infondati.

Deve premettersi che, ove in sede di legittimità si censuri la pronuncia di inammissibilità del gravame per violazione dell’art. 342 c.p.c., quindi allegando un error in procedendo, il controllo di legittimità investe direttamente l’invalidità denunciata, mediante l’accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente dalla sufficienza e logicità della eventuale motivazione esibita al riguardo, dato che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto (Cass. 25308/2014; Cass. 16164/2015; Cass. 8069/2016).

Ciò posto, occorre considerare che il tribunale – nell’effettuare la divisione dell’asse ereditario – aveva assegnato a F.V. il 50% della nuda proprietà dell’immobile sito in (OMISSIS) (di cui quest’ultima era già comproprietaria al 50%, oltre che titolare del diritto di abitazione sull’intero), mentre le quote del 50% degli immobili siti in Vibo Valentia alla (OMISSIS) e in località (OMISSIS), erano state attribuite rispettivamente a N.A.R. e a G. e N.M.G., tenendo conto della comproprietà degli immobili (ricadenti nell’asse ereditario solo il 50%), del diritto di abitazione spettante al coniuge superstite e – non da ultimo – della congiunta richiesta di assegnazione della quota di proprietà sui terreni siti in Vibo Valentia formulata dal ricorrente e da N.M.G. (cfr., sentenza di primo grado, pag. 9).

La stessa sentenza di appello ha – peraltro – evidenziato come le soluzioni accolte dal tribunale trovassero giustificazione nell’esigenza di non operare un eccessivo frazionamento dei beni e di tener conto della quota già in proprietà della F. (cfr. sentenza di appello, pag. 11).

Su tali presupposti si giustificava – dunque – l’attribuzione a ciascun coerede non di una porzione in natura dei singoli immobili facenti parte dell’asse, ma dell’intera quota (50%) di proprietà di ciascun bene caduto in successione, posto che – come già affermato da questa Corte – il diritto dei coeredi ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti, dovendosi operare una divisione dei beni per genere, così da evitare un eccessivo frazionamento dei cespiti e da non pregiudicare il diritto dei condividenti di ottenere una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello del complesso da dividere (Cass. 8286/2019; Cass. 15105/2000).

La Corte d’appello, dopo un articolato esame della nuova formulazione dell’art. 342 c.p.c., introdotta con D.L. n. 84 del 2012 (applicabile ratione temporis), ha ritenuto che l’appello non rispettasse i requisiti previsti dalla norma (nè nella sua formulazione attuale, nè in quella precedente: sentenza pag. 4), quanto – in particolare alla dedotta violazione dell’art. 718 c.c., osservando che le argomentazioni proposte dall’appellante non si confrontavano con le ragioni che avevano indotto il tribunale a recepire il progetto predisposto dal consulente (cfr. sentenza, pag. 6) e che il motivo difettava di specificità poichè non risultavano indicati “quali errori avessero determinato la disapplicazione della norma” (cfr., sentenza pag. 6).

In effetti, l’appellante, nel censurare la decisione di primo grado, si era limitato a richiedere una diversa composizione delle porzioni, sostenendo di non aver inteso rinunciare ai diritti sui beni assegnati agli altri coeredi e che non era possibile derogare al disposto dell’art. 718 c.c., in presenza di più immobili da dividere (cfr., atto di appello, pagg. 9 e ss.), non facendosi – tuttavia – carico di sviluppare (e contrapporre) alcuna argomentazione volta a confutare la correttezza della sentenza, nel punto in cui aveva considerato decisiva – anche per derogare al criterio dell’art. 718 c.c., – l’esigenza di non frazionare ulteriormente i singoli beni (ricadenti nella successione solo per il 50%) e di tener conto delle richieste di assegnazione e dei diritti reali gravanti su parte dei beni.

Come affermato dalla Corte distrettuale, l’impugnazione si componeva essenzialmente di una parte volitiva ma non anche di una parte argomentativa adeguatamente sviluppata, risultando carente di una specifica critica alle osservazioni svolte sinteticamente ma in modo ugualmente puntuale – dal tribunale in merito ai criteri addotti per la formazione delle porzioni e la loro attribuzione ai singoli condividenti.

In particolare, il motivo di appello vertente sulla violazione dall’art. 718 c.c., appare formulato in modo del tutto generico ed avulso dalle particolarità del caso concreto e dal contenuto della sentenza di primo grado, pur costituendo la ragione centrale di doglianza.

Resta irrilevante che la Corte d’appello abbia dichiarato l’infondatezza – anche nel merito – dell’impugnazione – o che in dispositivo abbia respinto il gravame, anzichè dichiararlo inammissibile, poichè dalla congiunta lettura del dispositivo e della motivazione risulta innegabile che il giudizio sia stato definito in rito (sicchè la decisione sul merito appare assunta in carenza di potestas iudicandi ed è tale da non fondare alcun interesse del ricorrente ad impugnarla, anche considerando la definitività della pronuncia di inammissibilità d’appello che consegue al rigetto del presente ricorso), mentre l’errore sulla formula adottata in dispositivo si risolve in una mera irregolarità e non in una causa di nullità della decisione (Cass. 20124/2015).

Il ricorso è quindi respinto con aggravio di spese come da dispositivo. Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 6000,00 a titolo di compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario spese generali in misura del 15%.

Dà atto che il ricorrente è tenuto a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 3 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2020

 

 

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