Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20547 del 19/07/2021

Cassazione civile sez. II, 19/07/2021, (ud. 17/12/2020, dep. 19/07/2021), n.20547

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20553/2018 R.G. proposto da:

C.S., rappresentata e difesa dall’Avv. Mario Rosati, con

procura speciale in calce al ricorso e con domicilio in Roma, piazza

Cavour n. 1, presso cancelleria Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

G.E., rappresentata e difesa dall’Avv. Gianluigi

Malandrino, con procura speciale in calce a foglio separato al

controricorso e con domicilio in Roma, viale delle Milizie n. 2,

presso il proprio studio;

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1956 depositata

il 27 marzo 2018.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 17 dicembre

2020 dal Consigliere Dott. Milena Falaschi.

 

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– il Tribunale di Roma, con sentenza n. 10538 del 2012, in accoglimento della domanda proposta da G.E., in qualità di promissaria acquirente, nei confronti di C.S., quale promittente venditrice, dichiarava la legittimità del suo recesso dal contratto preliminare di compravendita intercorso tra le parti, con condanna della convenuta alla restituzione del doppio della caparra confirmatoria ricevuta, pari ad Euro 260.000,00, oltre accessori, rigettata per l’effetto la riconvenzionale della convenuta volta ad accertare l’inadempimento della controparte, trattandosi pacificamente di immobile abusivo sottoposto a sequestro penale, non ottenuto dalla promittente venditrice il dissequestro dello stesso nei termini concordati, per cui il bene non era commerciabile, neanche a seguito del suo dissequestro disposto solo per effetto della prescrizione del reato, come da documentazione prodotta in sede di precisazione delle conclusioni;

– sul gravame interposto dalla C., la Corte di appello di Roma, costituita l’appellata, rigettava l’impugnazione confermando che la domanda di recesso dal contratto ex art. 1385 c.c., comma 2, si poteva desumere anche dall’atto di citazione con cui era stata domandata la legittimità della dichiarazione di recesso. Aggiungeva che l’obbligazione assunta dall’appellante con la scrittura intercorsa fra le parti in data 13.03.2008 non poteva ritenersi esclusivamente di mezzi non potendo essere trasferito un immobile non ancora regolarizzato sotto il profilo urbanistico, intervenuto, peraltro, il dissequestro solo a seguito della estinzione del reato e in un momento successivo alla intervenuta risoluzione del contratto per effetto del recesso della promissaria acquirente;

– per la cassazione del provvedimento della Corte d’appello di Roma ricorre la C., sulla base di cinque motivi;

– resiste con controricorso la G., oltre a depositare memoria ex art. 378 c.p.c., in prossimità dell’adunanza camerale.

Atteso che:

– con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218,1256 c.c., art. 1385 c.c., comma 2 e art. 1463 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere i giudici di merito considerato che il mancato ottenimento del dissequestro e del rilascio della sanatoria integrano entrambi fatti non imputabili al debitore con l’inevitabile conseguenza che ella non poteva essere ritenuta inadempiente.

Il motivo non merita accoglimento.

Costituisce principio consolidato di questa Corte che in tema di compravendita immobiliare il disposto della L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, consente la stipulazione del contratto di compravendita ove risulti presentata l’istanza di condono edilizio e pagate le prime due rate di oblazione.

La disciplina normativa esige che la domanda di sanatoria abbia i requisiti minimi per essere presa in considerazione dalla P.A., con probabilità di accoglimento, occorrendo, quindi, l’indicazione precisa della consistenza degli abusi sanabili, presupposto della somma dovuta a titolo di oblazione, nonché la congruità dei relativi versamenti (Cass. 22 novembre 2012 n. 20714).

Pertanto, la mancata consegna al compratore della certificazione amministrativa necessaria non determina, in via automatica, la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore, dovendo essere verificata in concreto la gravità dell’omissione in relazione al godimento e alla commerciabilità del bene.

Peraltro, la sanzione della nullità trova applicazione nei soli contratti con effetti traslativi e non anche con riguardo ai contratti con efficacia obbligatoria, quale il preliminare di vendita, ben potendo essere resa la dichiarazione o prodotta la documentazione relativa alla regolarità dell’edificazione, all’eventuale concessione in sanatoria o alla domanda di oblazione e ai relativi primi due versamenti, all’atto di stipulazione del contratto definitivo, ovvero in corso di giudizio, prima della sentenza ex art. 2932 c.c., che tiene luogo di tale contratto (in termini, Cass. n. 14489 del 2005; Cass. n. 13117 del 2010).

Nella specie, la Corte distrettuale ha accertato che il programma negoziale concordato dalle parti con la scrittura intercorsa in data 13 marzo 2008 era finalizzato “all’acquisto di un immobile che entrambe le parti sapevano essere “non commerciabile” perché abusivo” e per tale ragione sottoposto dal giudice penale a sequestro e parte promittente venditrice si era impegnata a richiedere e ad ottenere la sanatoria onde poter accedere al rogito del definitivo come emerge dallo stesso contratto preliminare, in particolare dalle clausole indicate come art. 2 e art. 3 dell’accordo. Tale pronunzia è stata basata su accertamento di fatto incensurabile, desunto da risultanze documentali (provvedimento del giudice penale che ha rigettato la richiesta di dissequestro), secondo cui la pratica di sanatoria edilizia presentata dalla C. era priva di requisiti essenziali (mancando il versamento della somma dovuta a titolo di oblazione), circostanza che si traduceva sia nell’impossibilità, per il notaio rogante, di procedere alla stipula dell’atto pubblico di compravendita, sia nella mancanza di un requisito essenziale della cosa promessa in vendita, ai fini della commerciabilità della stessa. Diversamente opinando, ritenendo sufficiente una qualsiasi istanza ed un qualsiasi pagamento, a discrezione dell’istante, la comminatoria di incommerciabilità degli immobili abusivi si presterebbe a facile elusione e risulterebbe vanificata.

Va, altresì, osservato che la circostanza che nel contratto fosse stato dichiarato dalle parti che l’immobile era abusivo e con sanatoria in corso, pur non comportando l’obbligo della promittente venditrice di portare a termine positivamente il relativo iter, presupponeva comunque che l’abuso edilizio fosse concretamente sanabile, in virtù della avviata pratica; tanto al fine non solo di rendere possibile la successiva valida stipulazione dell’atto pubblico, ma anche a quello di consentire la legittima fruibilità abitativa da parte della futura acquirente del bene compromesso. Pertanto correttamente ed in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 13231 del 2010 e Cass. n. 27129 del 2006) il giudice d’appello, in mancanza di tale essenziale condizione, che avrebbe dovuto sussistere alla data della prevista stipulazione del contratto definitivo (da fissarsi entro luglio 2008), difetto che è invece persistito ben dopo l’intervenuta risoluzione del contratto per effetto del recesso della promissaria acquirente esercitato con l’atto introduttivo del presente giudizio, ha ravvisato, in cospetto della mancata sanatoria dell’illegittima edificazione, intervenuto il dissequestro penale del bene per un’assoluzione per prescrizione del reato, non affatto significativo dell’avvenuta regolarizzazione dell’immobile promesso in vendita (e quindi della possibilità di un suo efficace trasferimento), l’inadempimento della promittente venditrice e pronunziato la risoluzione per sua colpa del contratto.

Correttamente, pertanto, il giudice di merito, sulla base di detti accertamenti, ha provveduto a dichiarare la legittimità del recesso esercitato dalla G. e una volta chiarito tale punto la dedotta natura di obbligazione come di mezzi assunta dalla C., prospettata alla luce dell’interpetazione delle clausole art. 3 e art. 5 del preliminare, costituisce una dissonanza meramente apparente e ciò a prescindere dal ribadire che in materia di sanatoria di immobili abusivi l’obbligazione del venditore non può che essere di risultato dal momento che non può essere venduto senza l’acquisito requisito della “commerciabilità”;

– con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1418 c.c., comma 1 e del D.L. n. 269 del 2003, art. 32, per avere la corte distrettuale operato una opinabile simultanea applicazione delle disposizioni di cui all’art. 1418 c.c., comma 1 e art. 1385 c.c., trattandosi di norme incompatibili fra loro. Aggiunge la ricorrente che, sotto diverso profilo, la pendenza della domanda di condono non poteva determinare l’incommerciabilità dell’immobile promesso in vendita.

Il motivo è inammissibile perché travisa la pronuncia laddove asserisce che il giudice del gravame avrebbe fatto applicazione dell’istituto della nullità e poi erroneamente riconosciuto la legittimità del recesso con condanna alla dazione del doppio della caparra confirmatoria consegnata dalla promissaria acquirente.

Infatti l’argomentare in ordine alla erroneità delle norme applicate inizia con un palese travisamento della motivazione della sentenza impugnata, perché le fa dire che “l’immobile compromesso fosse “non commerciabile”….non affatto significativo dell’avvenuta regolarizzazione dell’immobile promesso in vendita e quindi della possibilità di un suo efficace trasferimento”, mentre in detta motivazione l’espressione “non commerciabile” è chiaramente riferita all’intervenuto dissequestro dell’immobile in corso di causa che però era intervenuto non già per l’avvenuta regolarizzazione del bene ma per l’assoluzione per intervenuta prescrizione del reato e dunque per ipotesi affatto diversa, che per quanto sopra illustrato, non determina la trasferibilità dello stesso.

Ne discende che tutto l’argomentare risulta privo di fondamento ed il motivo, se non fosse inammissibile per la segnalata ragione, lo sarebbe perché non si correla alla motivazione della sentenza impugnata;

– con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e la falsa

applicazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 37 e della L.R. Lazio n. 12 del 2004, art. 6, comma 3, per avere fatto la corte di appello malgoverno delle norme sopra richiamate e ritenendo non regolare sotto il profilo urbanistico-edilizio il bene immobile promesso nonostante fosse stata consegnata alla promissaria acquirente già al momento della stipula del contratto preliminare copia della domanda di condono edilizio presentata il 19.03.2004 e copia dei bollettini pagati. Aggiunge che alla data di scadenza del termine contrattuale per la stipula del contratto definitivo di vendita (luglio 2008, prorogabile di tre mesi) previsto dall’art. 5 del contratto erano scaduti i termini di formazione del silenzio assenso di cui al D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 37 e comunque per la mancata adozione di qualsivoglia provvedimento negativo entro trentasei mesi dal versamento della terza rata relativa agli oneri concessori prevista dalla L.R. Lazio n. 12 del 2004, art. 7, comma 2, lett. b).

Anche il terzo motivo è inammissibile, muovendo, allo stesso modo del precedente, da un palese travisamento della motivazione addotta a sostegno della decisione impugnata, la quale, nel confermare l’accoglimento delle domande proposte dalla promissaria acquirente non ha affatto inteso ricondurre all’art. 40, comma 1, la dichiarazione di diniego di dissequestro dell’immobile, avendo anzi precisato che non poteva accedersi alla tesi dell’appellante circa la regolarità urbanistica dell’immobile promesso in vendita, per essere stata la documentazione ottenuta e prodotta solo in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado allorché il recesso era stato ormai legittimamente esercitato dall’originaria attrice con l’atto introduttivo del giudizio. La predetta distinzione è stata tenuta ben presente anche nella parte della motivazione concernente il motivo di appello con cui era stato fatto valere l’avvenuto compimento delle operazioni impugnate in epoca anteriore alla scadenza del termine fissato per la stipula del contratto definitivo: nel disattendere la predetta censura, la Corte distrettuale si è infatti astenuta dal prendere in considerazione il successivo completamento della procedura di sanatoria edilizia, la cui inefficacia rispetto al regolamento negoziale non era evidentemente in discussione, trattandosi di operazione che, in quanto posta in essere dopo l’esercizio del diritto di recesso è stata correttamente non validamente espletata;

– con il quarto ed il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e 1455 c.c., oltre a vizio di motivazione, insistendo che il giudice penale avrebbe negato il dissequestro per ragioni di ordine istruttorio e che lei si sarebbe obbligato al punto 3) del preliminare solo a chiedere il dissequestro all’udienza fissata nel mese di giugno 2008.

Anche siffatto motivo è doppiamente inammissibile perché non tiene conto delle argomentazioni spese dal giudice distrettuale il quale ha accertato la intrasmissibilità del bene in assenza di rilascio di autorizzazione in sanatoria e ciò a prescindere dal rilevare che il rigetto della istanza di dissequestro è stato motivato dalla mancanza di prova circa il pagamento dei ratei previsti per la procedura di condono.

Inoltre pone quale questione decisiva la interpretazione di una clausola contrattuale che certamente esula dal concetto di “fatto” decisivo.

Conclusivamente, il ricorso va respinto.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in cassazione, liquidate in complessivi Euro 7.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 17 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2021

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