Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20505 del 29/09/2020

Cassazione civile sez. II, 29/09/2020, (ud. 19/12/2019, dep. 29/09/2020), n.20505

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19697/2015 proposto da:

L.M., S.E., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA ARNO 47, presso lo studio dell’avvocato BRUNO BOTTA,

rappresentati e difesi dall’avvocato ANNA LISA COLLU;

– ricorrenti –

contro

C.M.A., rappresentata e difesa dagli avvocati

ELIO DE MONTIS, ALDO DE MONTIS, ANNA MARIA DE MONTIS;

A.E., rappresentato e difeso dall’avvocato CARLO PILIA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 367/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 06/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/12/2019 dal Consigliere Dott. ELISA PICARONI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2001 i coniugi S.E. e L.M. agirono in giudizio nei confronti di A.E., e poi anche della coniuge C.M.A., chiamata in causa, per il rilascio di una porzione del fondo da essi acquistato nel 1998 in Comune di (OMISSIS), in assunto usurpato dai convenuti.

1.1. Il Tribunale, con la sentenza n. 1373 del 2009, accolse la domanda attorea e rigettò la riconvenzionale di usucapione proposta dalla C..

2. Proposto gravame con autonomi atti di appello dall’ A. e dalla C., i due procedimenti, inizialmente riuniti, sono stati separati dalla Corte d’appello.

2.1. Con la sentenza n. 367/2014, pubblicata il 6 giugno 2014 e oggetto dell’odierno ricorso, la Corte territoriale ha rigettato la domanda di rivendica proposta nei confronti dell’ A., definendo il relativo giudizio (n. 308/2010 RAC), ed ha rigettato la domanda di rivendica proposta nei confronti della C., disponendo la prosecuzione del relativo giudizio (n. 307/2010 RAC) per la trattazione della domanda riconvenzionale di usucapione proposta dalla medesima C..

3. S.E. e L.M. ricorrono per la cassazione della sentenza sulla base di tre motivi, ai quali resistono, con separati atti di controricorso, A.E. e C.M.A..

3.1. Il ricorso (RG. 19697/2015), già chiamato in decisione nell’adunanza camerale del 13 settembre 2019, è stato rinviato su istanza dei ricorrenti all’odierna adunanza per essere deciso contestualmente al ricorso (RG 6631/2017) avente ad oggetto la sentenza con cui la Corte d’appello ha definito il giudizio pendente tra i coniugi S. – L. e C.M.A..

I ricorrenti e la controricorrente C. hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo, articolato motivo di ricorso è denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 948 c.c., art. 115 c.p.c., artt. 2697,2727 c.c., art. 112 c.p.c., nonchè omessa, carente e contraddittoria motivazione, e si censura il rigetto della domanda proposta nei confronti di A.E.. I ricorrenti contestano, nell’ordine: che non sarebbe stata fornita la prova che l’ A. detenesse il terreno per conto della coniuge C.; che era provata la presenza costante dell’ A. sui luoghi, mentre il predetto neppure aveva dedotto di detenere per conto della coniuge, sicchè erroneamente la Corte d’appello aveva fatto ricorso a presunzioni per inferire l’esistenza di un rapporto di collaborazione dell’ A. con la coniuge; che, ancora più radicalmente, l’ A. avrebbe impugnato la sentenza di primo grado limitatamente all’accertamento svolto nei confronti della coniuge, senza nulla eccepire in ordine alla propria posizione processuale e sostanziale, sicchè la Corte d’appello avrebbe pronunciato ultra petita.

2. Le doglianze prospettate sotto il profilo della violazione di legge sono infondate.

2.1. La Corte d’appello ha ritenuto sussistente la legittimazione passiva di A.E. in considerazione della natura dell’azione esercitata dai coniugi S. – L. essendo la rivendica proponibile nei confronti di chiunque sia indicato come detentore della res – ed ha poi rigettato la domanda nel merito sul rilievo che la considerazione che la presenza dell’ A. nei luoghi in contestazione non fosse sufficiente a dimostrarne la qualità di detentore, tenuto conto del contesto nel quale si situava detta presenza. Era pacifico, infatti, che il terreno oggetto di rivendica era stato inglobato nell’azienda agricola di proprietà della C., coniuge dell’ A., sicchè la presenza del predetto si giustificava in ragione della collaborazione dallo stesso prestata alla conduzione dell’attività aziendale.

La valutazione così espressa dalla Corte d’appello è frutto dell’apprezzamento della situazione di fatto e come tale rientra nel novero dei giudizi riservati al giudice di merito, che si sottraggono al sindacato di legittimità se – come nella specie motivati congruamente ed immuni da errori di diritto (ex plurimis, Cass. 25/10/2019, n. 27411; Cass. 02/04/2009, n. 8023; Cass. 01/08/2007, n. 16933). E del resto, benchè formulate con riferimento a pretesi errori di diritto, le obiezioni dei ricorrenti investono il modo nel quale la Corte territoriale ha apprezzato le risultanze istruttorie del processo, risolvendosi in censure di merito non proponibili in questa sede.

2.2. Non sussiste neppure la denunciata ultrapetizione giacchè A.E. aveva contestato sin dal principio di non avere alcun rapporto giuridicamente rilevante con la res rivendicata, formulando eccezione di carenza di legittimazione processuale.

3. Risulta inammissibile, infine, la doglianza prospettata in termini di omessa, carente e contraddittoria motivazione, trattandosi di vizio non più sussumibile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo riformulato nel 2012, applicabile ratione temporis al presente ricorso. Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (a partire da Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053), assurta a diritto vivente, l’art. 360 c.p.c., n. 5 introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). La motivazione in sè è invece censurabile soltanto se ed in quanto dia luogo alla violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, il che si realizza in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sè, rimanendo esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.

4. Con i successivi due motivi, i ricorrenti censurano la sentenza d’appello nella parte in cui ha rigettato la domanda di rivendica proposta nei confronti di C.M.A..

5. Con il primo motivo è denunciata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione agli artt. 244 e 132 c.p.c., nonchè violazione dell’art. 111 Cost., artt. 175 e 184 c.p.c..

5.1. I ricorrenti si dolgono della revoca dell’ordinanza 21 marzo 2004, con la quale il Tribunale aveva ammesso la prova testimoniale, e dell’ordinanza 1 dicembre 2004; contestano che la Corte d’appello si sarebbe limitata a condividere le eccezioni formulate dalla C., peraltro tardive, senza fornire una motivazione che consentisse di comprendere l’iter logico argomentativo; assumono che la revoca integrale dell’ordinanza 21 marzo 2004 aveva travolto anche la prova contraria, ritualmente ammessa ed immune da vizi, con conseguente pregiudizio della difesa; lamentano che la revoca dell’ordinanza 1 dicembre 2004 sarebbe priva di motivazione e comunque erronea, poichè la Corte d’appello aveva considerato prova nuova la sola precisazione dell’oggetto della causa.

6. Le doglianze sono prive di fondamento ove non inammissibili. Ribaditi i limiti di deducibilità del vizio di motivazione come precisati al paragrafo 3.1., e rilevata la carenza di specificità del motivo, che non riporta il contenuto degli atti processuali richiamati, si osserva quanto segue.

6.1. La Corte territoriale ha indicato chiaramente le ragioni di inammissibilità della prova testimoniale nella genericità e nella natura valutativa del relativo capitolato (pag. 14 della sentenza), previa precisazione che la C. aveva assolto gli oneri richiesti ai fini della contestazione dell’ammissione della suddetta prova.

6.2. Risulta motivata anche la revoca del provvedimento 1 dicembre 2004, con riferimento alla quale la Corte d’appello ha rilevato la tardività della riformulazione dei capitoli di prova, effettuata dopo che erano scaduti i termini di cui all’art. 184 c.p.c., termini perentori per le integrazioni istruttorie già nel testo introdotto dalla L. n. 353 del 1990.

6.3. Non è configurabile la contraddizione tra il giudizio di genericità della prova, espresso con riferimento alla mancata identificazione del terreno in contesa, ed il rigetto dell’eccezione di nullità dell’atto di citazione per indeterminatezza dell’oggetto, trattandosi (valutazioni che hanno oggetto diverso e che, pertanto, non sono comparabili.

6.4 E’ inammissibile per carenza di specificità la denuncia di violazione dell’art. 244 c.p.c. e art. 111 Cost., riferita “all’annullamento della prova contraria”, in quanto il ricorso non contiene alcun riferimento agli atti processuali richiamati, sicchè questa Corte non è messa in condizione di verificare se la revoca abbia riguardato anche la prova contraria, e quale fosse il contenuto della stessa, onde inferirne la decisività (ex plurimis, Cass. 04/04/2018, n. 8204).

7. Con il secondo motivo è denunciata violazione degli artt. 948 e 1158 c.c., nonchè contraddittorietà della motivazione, avuto riguardo ad un fatto controverso e decisivo.

I ricorrenti contestano il rigetto della domanda di rivendica sotto il profilo probatorio, assumendo che erroneamente la Corte d’appello li ha ritenuti onerati della probatio diabolica.

7.1. La doglianza è inammissibile quanto al vizio di motivazione, per le stesse ragioni indicate nel paragrafo 3.1., ed è priva di fondamento nella restante parte.

7.2. La Corte d’appello ha rilevato che non era stato individuato un unico originario proprietario del terreno (il dante causa degli attori era Ca.An., e il dante causa della convenuta Ca.Cl.), ed ha escluso, pertanto, che l’onere probatorio a carico degli attori fosse attenuato.

Secondo l’orientamento largamente maggioritario di questa Corte regolatrice, il rigore della prova nel giudizio di rivendica si attenua allorquando il convenuto non contesti l’originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa o ad uno dei danti causa dell’attore, e contrapponga l’esistenza di un suo titolo derivativo di proprietà che abbia per presupposto l’originaria appartenenza del cespite al dante causa indicato dal rivendicante. In tal caso, al rivendicante è sufficiente dimostrare che il bene medesimo ha formato oggetto del proprio titolo d’acquisto (ex plurimis, Cass. 05/11/2010, n. 22598; Cass. 17/10/2007, n. 21829; Cass. 22/07/2005, n. 15388).

Ma ciò non è accaduto nel caso in esame nel quale, come ben evidenziato dalla Corte d’appello, la convenuta si è limitata ad allegare il possesso ininterrotto suo e del suo dante causa a far tempo dal 1979, e gli attori non hanno dimostrato l’appartenenza del terreno al loro dante causa da una data anteriore a quella di inizio del possesso ad usucapionem.

Trova quindi applicazione il principio secondo cui, qualora il convenuto sostenga, in via riconvenzionale, di aver acquistato per usucapione la proprietà del bene rivendicato, l’attore in rivendica deve dare prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell’appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere, nonchè la prova che quell’appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto (ex plurimis, Cass. 18/01/2016, n. 694; Cass. 23/07/2015, n. 15539; Cass. 10/03/2006, n. 5161).

8. Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti alle spese, nella misura indicata in dispositivo. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2020

 

 

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