Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 205 del 09/01/2020

Cassazione civile sez. I, 09/01/2020, (ud. 29/05/2019, dep. 09/01/2020), n.205

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 5985/2014 proposto da:

PROVINCIA REGIONALE DI CATANIA, in persona del Commissario

straordinario legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata

in Roma, in Via Antonio Mordini, 14 presso lo studio dell’avvocato

Antonino Spinoso e rappresentata e difesa dall’avvocato Antonio

Salemi per procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.P.P., B.S., elettivamente domiciliati in

Roma, Via Flaminia, 388 presso lo studio dell’avvocato Iolanda

Galeano e rappresentati e difesi dall’avvocato Bruno Di Stefano per

procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte di appello di Catania del 11/19/2013

n. 1760;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/05/2019 dal Cons. Dott. Laura Scalia.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. I signori C.P.P. e B.S. convenivano in giudizio dinanzi alla Corte di appello di Catania la Provincia Regionale di Catania per sentirla condannare al pagamento dell’indennità di espropriazione ed occupazione del terreno di loro proprietà sito in (OMISSIS) e censito in catasto al foglio (OMISSIS), di mq 3.050.

Gli istanti esponevano che la Provincia convenuta aveva loro notificato il decreto n. 33/2008 con cui aveva disposto l’esproprio del terreno per realizzarvi il parco urbano “(OMISSIS)” del Comune di (OMISSIS) ed un successivo decreto, n. 56/2008 integrativo del primo, contenente i nomi dei proprietari.

Lamentando il carattere incongruo dell’indennità provvisoria di stima, quantificata in Euro 4,30 al mq., ne chiedevano la stima commisurata al valore venale.

Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte di appello quantificava l’indennità dovuta in Euro 164.000 all’esito di disposta c.t.u. che, stimato come non edificabile il terreno espropriato, aveva tenuto conto delle possibili attività economiche realizzabili – un parcheggio di superficie a servizio dell’aree commerciali vicine -senza manufatti fissi o modifiche strutturali con necessità di autorizzazione amministrativa.

Avverso l’indicata sentenza ricorre in cassazione con unico articolato motivo la Provincia Regionale di Catania.

Resistono con controricorso C.P.P. e B.S., illustrato con memoria.

L’amministrazione ricorrente ha provveduto con distinte note di deposito a versare in atti la Determina commissariale di autorizzazione alla proposizione del ricorso, il Certificato di destinazione urbanistica del terreno e la Delib. 10 marzo 2015 della Commissione espropri di Catania determinativa dell’indennità definitiva in Euro 4,30 al mq, secondo proposta dell’ente espropriante, “in ragione della natura conformativa dell’area derivante dall’imposizione del vincolo archeologico”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con unico articolato motivo l’amministrazione ricorrente denuncia la violazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 40 omessa motivazione e la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La sentenza in adesione alle conclusioni del c.t.u. aveva ritenuto l’utilizzabilità dell’area per la realizzazione di attrezzature e servizi pubblici di quartiere, tra cui parcheggi per autoveicoli, dando per scontato che l’amministrazione avrebbe autorizzato una tale attività.

L’impugnata sentenza sarebbe stata carente di motivazione nella parte in cui non aveva affrontato in alcun modo la circostanza che l’area in questione era gravata da vincolo archeologico, vincolo conformativo idoneo a classificare il bene come non edificabile.

Il nominato c.t.u. rispondendo ai rilievi critici avanzati dall’amministrazione convenuta aveva concluso nel senso che l’ipotizzata fruibilità del terreno non contrastasse con i vincoli archeologici e la Corte di merito non aveva considerato che, per effettuare modifiche anche temporanee e con strutture mobili, come quelle ipotizzate dal c.t.u. per il ritenuto utilizzo del fondo, su zona gravata da vincolo archeologico sarebbe stato comunque necessario acquisire il parere favorevole della Soprintendenza ai Beni Culturali che mai sarebbe stato accordato.

La presenza dell’indicato vincolo agli evidenziati effetti avrebbe integrato il fatto decisivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 mancato nel suo esame nell’impugnata sentenza ed oggetto di una seconda relazione integrativa del nominato consulente d’ufficio.

2. Il motivo è incapace di sostenere la portata critica e come tale si rivela inammissibile per difetto di autosufficienza.

2.1. L’amministrazione ricorrente deduce di aver portato all’attenzione del nominato c.t.u. la circostanza che il terreno espropriato sarebbe stato ricompreso in area di interesse archeologico “l’odierna concludente, nel presentare rilievi alla ctu, tra l’altro faceva rilevare come da nota prot. n. 2262 del 22.5.1997 della Soprintendenza BB.CC.AA. di Catania” (p. 5 ricorso), esponendo quindi che il c.t.u., chiamato dalla Corte territoriale a rispondere ai rilievi indicati, avrebbe concluso in sede di chiarimenti, ulteriori e successivi a quelli già resi in data 8.8.2012, per la compatibilità tra le ipotesi di fruibilità sostenute (parcheggio di superficie a servizio di vicina area commerciale ed industriale secondo previsione dello strumento urbanistico) con la presenza dei vincoli archeologici.

La sentenza impugnata, nel definire in forza della decisione della Corte costituzionale n. 181 del 2011 il criterio del valore venale quale nuovo canone di stima della indennità di esproprio anche per i terreni non edificabili e a diversa loro eventuale destinazione, dà conto della relazione suppletiva a chiarimento resa dal c.t.u. il 17.12.2012 per poi attribuire alla stessa contenuti differenti, in risposta ai rilievi della Provincia che pure diversamente vengono ricostruiti rispetto ai contenuti riportati in ricorso.

Il riferimento in sentenza operato è infatti ai criteri di calcolo della indennità in ragione del ritenuto, dal c.t.u., utilizzo dell’area espropriata quale parcheggio a raso (p. 3).

Per i riportati contenuti il ricorso, che segnala ancora non meglio precisati rilievi critici contenuti nella comparsa conclusionale depositata in appello (p. 6), si mostra generico e non autosufficiente nell’allegazione.

Si denuncia infatti con il proposto mezzo, al fine di sostenere la lamentata omissione, che il c.t.u., in risposta ai rilievi di parte, avrebbe escluso il contrasto tra la fruibilità del terreno come area destinata a parcheggio a raso di veicoli ed il vincolo archeologico senza però evidenziarsi i contenuti di quella relazione e tanto a fronte di un loro richiamo operato nella sentenza impugnata per tutt’altro oggetto (p. 3 in cui si fa riferimento ad “argomenti ribaditi” che nel susseguirsi delle proposizioni argomentative utilizzate dai giudici di appello appaiono piuttosto di sostegno a criteri di calcolo sviluppati nella relazione di ufficio).

In tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione in termini di decisività e di rilevanza, atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell’elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità (Cass. 17/07/2014 n. 16368; Cass. 03/06/2016 n. 11482; Cass. 03/08/2017 n. 19427).

Si aggiunga, nell’indicata prospettiva di non autosufficienza del ricorso, l’assoluta irrilevanza della produzione operata nel corso del presente giudizio di legittimità dall’Amministrazione ricorrente con la nota di deposito, datata 19.6.2014, del certificato di destinazione urbanistica del Comune di (OMISSIS) in data 11.2.2014 che, successivo nella sua formazione alla pubblicazione della sentenza impugnata, intervenuta in data 11.10.2013, attesta, per l’appunto, la ricomprensione del terreno contraddistinto al f. (OMISSIS) in “area di interesse archeologico”.

Si tratta di evidenza documentale che dà conferma della inammissibilità della critica proposta in quanto avviata ad una diretta rivalutazione del merito in sede di legittimità.

2.2. Il formulato giudizio di inammissibilità resta altresì definito per un ulteriore contenuto del proposto motivo.

Come questa Corte di legittimità ha in altra occasione ritenuto, con valutazione che si apprezza qui come pienamente condivisibile nella sua ragionevolezza, il vincolo di inedificabilità e, per quanto nella specie rileva, di fruibilità per utilizzazioni intermedie (parcheggi e depositi) dell’area ablata connesso alla presenza di testimonianze archeologiche sul terreno espropriato, non è astrattamente qualificabile come assoluto.

Non può infatti teoricamente escludersi un’attività edificatoria che non snaturi nè pregiudichi la conservazione ed integrità dei reperti archeologici e tanto fermo restando il solo limite, secondo apprezzamento da condursi dal giudice di merito ed incensurabile in cassazione se congruamente motivato, che non debba ritenersi che in concreto l’interesse archeologico non sia circoscritto ad alcuni resti presenti nell’area, ma si correli al luogo nel suo complesso considerato che integra, come tale, un parco archeologico ovverosia una sede di una pluralità di reperti nel loro insieme testimonianti uno specifico assetto storico di insediamento (in termini: Cass. 21.5.1998, n. 5060, come riportata da Cass. 16/05/2014 n. 10785, in motivazione, p. 9).

Dell’indicata evidenza nessuna precisazione è contenuta in ricorso che invocando genericamente l’esistenza nel fondo in questione di un’area di interesse archeologico fa valere una imprecisata assoluta inedificabilità o impossibilità di diversa utilizzazione nel senso sopra precisato che non si lascia apprezzare con richiamo a quel peculiare assetto del territorio integrativo di un parco archeologico a diffusa impatto sul territorio.

3. Nella inammissibilità del mezzo proposto resta assorbita ogni ulteriore questione introdotta in ricorso in quanto non veicolata attraverso la denunciata omissione nella motivazione.

4. Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali come da dispositivo nei confronti dei resistenti con distrazione in favore dell’avvocato, dichiaratosi antistatario (così nella “Memoria per il resistente” versata in atti).

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, va dichiarata la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto e condanna la ricorrente al pagamento in favore di C.P.P. e B.S. della somma di Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge, con distrazione in favore dell’avvocato Bruno Di Stefano, dichiaratosi antistatario.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 29 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

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