Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20494 del 06/10/2011

Cassazione civile sez. II, 06/10/2011, (ud. 26/09/2011, dep. 06/10/2011), n.20494

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.S. e C.A., residenti in (OMISSIS),

rappresentati e difesi per procura in calce al ricorso dagli Avvocati

Samo Sanzin e Francesco Carlo Bianca, elettivamente domiciliati

presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale delle Milizie n. 9;

– ricorrenti –

contro

O.A., rappresentato e difeso per procura a margine del

controricorso dagli Avvocati Kobec Furio e prof. Paolo Viticci,

elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma,

via P. Mascagni n. 154;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 102 della Corte di appello di Trieste,

depositata il 16 febbraio 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26

settembre 2011 dal Consigliere relatore Dott. Mario Bertuzzi;

udite le difese svolte dall’Avvocato Samo Sanzin per i ricorrenti;

udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha chiesto che il ricorso

sia dichiarato inammissibile o, in subordine, rigettato.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 9 gennaio 1992, O.A. convenne dinanzi al tribunale di Gorizia C.S. e C.A. chiedendo che, stante il rifiuto dei convenuti, quali promittenti venditori, di addivenire alla stipula del contratto definitivo, fosse emessa sentenza costitutiva ex art. 2932 cod. civ., in relazione al contratto preliminare di compravendita stipulato dalle parti con scrittura privata del 16 giugno 1991.

I convenuti, opponendo che per la stipula del contratto definitivo era stata stabilita la data del 31 dicembre 1991 e che tale termine non era stato rispettato a causa del comportamento della controparte, chiesero in via riconvenzionale che il contratto fosse dichiarato risolto per inadempimento dell’ O., con sua condanna al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, esaurita l’istruttoria, rigettò la domanda dell’attore ed accolse quella di risoluzione dei convenuti, disattendendo però la loro richiesta risarcitoria.

Interposto gravame principale da parte dell’ O. e incidentale da parte dei C., con sentenza n. 102 del 16 febbraio 2005 la Corte di appello di Trieste riformò la decisione impugnata relativamente alla statuizione che aveva accolto la domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto avanzata dai convenuti, che rigettò, confermandola per il resto. In particolare, il giudice di appello motivò tale decisione, per quanto qui interessa, affermando che l’ O., quale promissorio acquirente, non poteva considerarsi inadempiente, atteso che, al momento della proposizione della sua domanda ex art. 2932 cod. civ., notificata il 9 gennaio 1992, con la quale egli aveva manifestato la propria intenzione di adempiere, il termine per la stipulazione del contratto definitivo non era ancora scaduto, tenuto conto, in applicazione del principio di buona fede contrattuale, che quello del 31 dicembre 1991 indicato nel contratto preliminare non poteva considerarsi essenziale e che, comunque, le controparti, con la diffida ad adempiere del 24 dicembre 1991, l’avevano di fatto prorogato fino al 15 gennaio 1992.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 19 gennaio 2006, ricorrono C.S. e C.A., affidandosi ad un unico motivo. Resiste con controricorso O. A..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’unico motivo di ricorso denunzia falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., assumendo che la Corte territoriale ha male applicato il principio di buona fede contrattuale sia laddove non ha valutato attentamente la missiva del 24 dicembre 1991, contenente la diffida ad adempiere inviata dai promettenti venditori, la quale in realtà, in forza anche del suo tenore letterale, confermava il termine della stipula del contratto definitivo al 31 dicembre 1991, indicando il termine di tolleranza di 15 giorni dal suo ricevimento unicamente per il pagamento del prezzo, sia con riferimento all’interesse fondamentale dei venditori di stipulare il definitivo entro tale data per non dover pagare ulteriori somme a titolo di INVIM. Il mezzo appare inammissibile e comunque infondato.

La Corte di appello ha motivato la propria conclusione di rigetto della domanda riconvenzionale dei convenuti di risoluzione del contratto per inadempimento del promissario acquirente sulla base del rilievo che quest’ultimo non poteva considerarsi inadempiente avendo avanzato domanda di adempimento del contratto preliminare ex art. 2932 cod. civ., in data 8 gennaio 1992, prima della scadenza del termine intimatogli dai promettenti venditori con la diffida ad adempiere del 24 dicembre 1991, sottolineando come essa, nonostante alcune imprecisioni, dovesse interpretarsi nel senso che la volontà dei promittenti venditori fosse quella di concludere il contratto entro il 15 gennaio 1992.

Tanto precisato, il motivo è inammissibile dal momento che con esso i ricorrenti non censurano l’applicazione da parte del giudice di merito del principio di buona fede contrattuale (art. 1375 cod. civ.), ma la corretta interpretazione della lettera del 24 dicembre 1991, doglianza che avrebbe dovuto essere proposta mediante denunzia specifica della violazione dei canoni ermeneutici che sovrintendono l’interpretazione degli atti di volontà (art. 1362 cod. civ., e segg.) e, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, mediante trascrizione integrale della missiva.

Costituisce diritto vivente della giurisprudenza di questa Corte il principio che l’erronea valutazione ed interpretazione dei contratti e degli atti di volontà può essere sindacata, in sede di legittimità, soltanto per violazione dei canoni ermenuetici e per vizio di motivazione e che la relativa deduzione impone al ricorrente di indicare in modo specifico i canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle ragioni per cui si assume che il giudice se ne è discostato, nonchè, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale dell’atto (Cass. n. 19044 del 2010; Cass. n. 4178 del 2007). Nessuna deduzione al riguardo viene svolta dal motivo e ciò è sufficiente a sancirne l’inammissibilità, non avendo questa Corte alcuna facoltà di sindacare, al di là dei motivi del ricorso, l’operazione interpretativa posta in essere dal giudice di merito.

Nè una conclusione diversa potrebbe giustificarsi interpretando la censura nel senso che oggetto di doglianza sarebbe il fatto che il giudice di merito avrebbe nella specie disapplicato il criterio di interpretazione testuale del contratto posto dall’art. 1362 cod. civ., a cui i ricorrenti, nel corpo del motivo, sembrano far cenno.

Tale censura, anche a ritenerla formulata, appare infatti infondata, avendo la Corte di merito fondato e motivato la propria soluzione interpretativa proprio sul criterio letterale, assumendo che dal tenore della missiva, cioè dalle espressioni in esso usate dal suo autore, emergeva con chiarezza che con essa “i venditori concedevano all’ O.” in ogni caso “il termine di quindici giorni dal ricevimento della diffida per adempiere al contratto, fatte salve le proprie ragioni di danno”. Nessun pregio d’altra parte può riconoscersi all’assunto dei ricorrenti secondo cui con la missiva in questione i promittenti venditori avrebbe lasciato fermo il termine di conclusione del contratto definitivo al 31 dicembre 1991, limitando il nuovo termine al solo pagamento del corrispettivo. Tale tesi non solo non incontra alcun appiglio letterale dal passo della missiva riprodotto nel ricorso, ma è smentita dalla considerazione del giudice a quo secondo cui la lettera formalizzava l’invito ad adempiere al contratto entro 15 giorni dal suo ricevimento, una volta tenuto conto che per adempimento del contratto preliminare non può che intendersi la stipula del contratto definitivo e non già il solo pagamento del corrispettivo convenuto.

Il ricorso va pertanto respinto.

I ricorrenti, per il principio di soccombenza, sono condannati al pagamento delle spese di giudizio, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e contributi di legge.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2011

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