Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20492 del 06/09/2013


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 20492 Anno 2013
Presidente: CAPPABIANCA AURELIO
Relatore: VIRGILIO BIAGIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

PERONDI Giuliano e PERONDI Rosamaria, elettivamente domiciliati in
Roma, via degli Scipioni n. 268/A, presso l’avv. Alessio Petretti, che li
rappresenta e difende giusta delega in atti;
ricorrenti –

contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,
elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso
l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia
n. 56/11/07, depositata il 13 aprile 2007.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10 aprile

Data pubblicazione: 06/09/2013

2013 dal Relatore Cons. Biagio Virgilio;
uditi l’avv. Francesca Fegatelli (per delega) per i ricorrenti e l’avvocato
dello Stato Pietro Garofoli per la controricorrente;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Ennio
Attilio Sepe, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Ritenuto in fatto
1. Giuliano Perondi e Rosamaria Perondi propongono ricorso per

Lombardia indicata in epigrafe, con la quale, rigettando l’appello da loro
proposto in qualità di eredi di Cesare Perondi, è stata confermata la
legittimità dell’avviso di accertamento emesso nei confronti di quest’ultimo,
medico odontoiatra, per IRPEF ed IRAP relative all’anno 1999.
In particolare, il giudice di merito ha ritenuto, da un lato, che non
sussisteva il difetto di motivazione dell’avviso impugnato, essendo stato
notificato al contribuente il p.v.c. redatto dalla Guardia di finanza sul quale
l’atto impositivo si fondava, e, dall’altro, che la documentazione
extracontabile rinvenuta nella abitazione del Perondi era riconducibile, ai
sensi dell’art. 2729 cod. civ., alla sua attività professionale, senza che fosse
stata offerta alcuna prova contraria idonea a vincere la presunzione.
2. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo, i ricorrenti, denunciando violazione e falsa
applicazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 97 Cost. e
dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, censurano la sentenza impugnata per
avere il giudice a quo rigettato l’eccezione di difetto di motivazione
dell’avviso di accertamento sulla base del solo rilievo che esso faceva rinvio
al p.v.c. notificato al contribuente, ma che in realtà era privo
dell’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche poste a
fondamento dell’atto impositivo.
Il motivo è inammissibile, in base al consolidato orientamento secondo il
quale, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, qualora
il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale
sotto il profilo della legittimità e congruità del giudizio espresso in ordine
alla motivazione di un avviso di accertamento, è necessario, a pena di
inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente la motivazione di detto
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cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

atto che si assume erroneamente valutata dal giudice di merito, al fine di
consentire a questa Corte di esprimere il suo giudizio esclusivamente in base
al ricorso medesimo (da ult., Cass. nn. 8312 e 9536 del 2013) (peraltro, il
giudice di merito ha affermato che il contribuente “è stato compiutamente
edotto della pretesa tributaria, tanto è vero che ha potuto svolgere una
complessa difesa sia in primo che in secondo grado”).
2.1. Con il secondo motivo, è denunciata la violazione dell’art. 39 del

dell’accertamento induttivo in base ad una contabilità parallela non
organizzata né chiaramente imputabile all’attività del contribuente.
Con la terza censura, si deduce nuovamente la violazione del citato art.
39, nonché degli artt. 2727 e 2729 c.c., contestando la sussistenza, nella
specie, sia del fatto noto posto a base della presunzione di maggior reddito,
sia dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di tale presunzione.
Con il quarto motivo, è denunciata la violazione, oltre che, ancora,
dell’art. 39 del d.P.R. n. 600/73, anche degli artt. 7, 32, 58 e 59 del d.lgs. n.
546 del 1992, imputando al giudice di merito di aver omesso di esaminare la
documentazione contabile del contribuente, così venendo meno al proprio
dovere di verificare nel merito la fondatezza della pretesa tributaria.
Infine, con l’ultima censura, riferita a violazione degli artt. 39, 40 e 42
del d.P.R. n. 600/73 ed a vizio di motivazione, sono sostanzialmente
riproposte le doglianze contenute nei motivi precedenti.
2.2. I motivi, da esaminare congiuntamente per stretta connessione, sono
in parte inammissibili e in parte infondati.
Va, innanzitutto, ribadito il consolidato principio della giurisprudenza di
questa Corte secondo il quale, in tema di accertamento delle imposte sui
redditi (così come dell’IVA), la “contabilità in nero”, o “parallela”,
costituita da appunti personali (brogliacci, block notes, agende, ecc.) ed
informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario,
dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 39
del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (e, per l’IVA, dall’art. 54 del d.P.R. n.
633 del 1972), dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate
dagli artt. 2709 e ss. cod. civ. tutti i documenti che registrino, in termini
quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la
situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico
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d.P.R. n. 600 del 1973, sostenendo la tesi della inutilizzabilità

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dell’attività svolta; ne consegue che detta “contabilità in nero”, per il suo
valore probatorio, legittima di per sé, ed a prescindere dalla sussistenza di

qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo di cui al
citato art. 39 (e 54), incombendo al contribuente l’onere di fornire la prova
contraria, al fine di contestare l’atto impositivo notificatogli (cfr., tra le altre,
Cass. nn. 6949 e 25610 del 2006, 24051 del 2011, 8625 del 2012).
Ciò posto, il giudice a quo ha affermato, con accertamento di fatto
e inadeguato, che il contribuente non ha addotto alcun elemento probatorio
“che possa ricondurre quanto indicato nelle annotazioni reperite presso la
sua abitazione a spese di carattere personale”, laddove, anzi, i riscontri
operati dalla Guardia di finanza “lasciano chiaramente intendere che trattasi
di annotazioni afferenti compensi percepiti e non contabilizzati”; ha
aggiunto, quindi, che le dette annotazioni “sono riconducibili all’attività
professionale esercitata dal contribuente”, costituendo “elementi gravi,
precisi e concordanti ex art. 2729 c.c. su cui fondare l’accertamento”, a
fronte dei quali il contribuente stesso “non ha offerto prova alcuna” per
vincere la presunzione.
3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del presente
giudizio di cassazione, che liquida in €. 14000,00 per compensi, oltre alle
spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma il 10 aprile 2013.

congruamente motivato e, comunque, contestato in modo del tutto generico

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