Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2047 del 27/01/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 27/01/2017, (ud. 22/07/2016, dep.27/01/2017),  n. 2047

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19084-2011 proposto da:

FALLIMENTO (OMISSIS) in persona del suo Curatore, elettivamente

domiciliato in ROMA PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio

dell’avvocato GIOVAN CANDIDO DI GIOIA, che lo rappresenta e difende

giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 228/2010 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di

FOGGIA, depositata il 31/05/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/07/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato DI GIOIA che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato ZERMAN che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla srl (OMISSIS) un avviso di accertamento, con il quale ha recuperato a tassazione costi portati in deduzione e non sufficientemente documentati, oneri anche essi dedotti ma ritenuti non inerenti, spese per ammortamento di impianti, indebitamente, secondo l’Agenzia utilizzati in deduzione, ed infine, interessi attivi non dichiarati (anno di imposta 1996).

L’accertamento dell’Agenzia faceva leva soprattutto sulla ritenuta fittizietà di alcune operazioni cui inerivano i costi e le spese portate dalla (OMISSIS) in deduzione, anche in ragione del fatto che l’azienda risultava posta sotto sequestro dall’Autorità giudiziaria, nel periodo in contestazione.

La società ha proposto ricorso avverso l’atto di accertamento eccependo tra l’altro la circostanza di essere stata autorizzata dalla stessa Procura della Repubblica a proseguire nell’attività di distillazione.

Il ricorso è stato accolto in primo grado. La Commissione Regionale, su appello dall’Agenzia, lo ha invece rigettato, assumendo da un lato, che l’autorizzazione a continuare l’esercizio riguardava la sola commercializzazione, attività che dunque non poteva giustificare i costi sostenuti; per altro verso che la documentazione prodotta non era sufficiente a documentare i costi dedotti.

Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione la società deducendo cinque motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia. Ha depositato memoria la contribuente.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la contribuente denuncia violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53; nonchè omessa o insufficiente motivazione. Sostiene che, a fronte di precisi argomenti, addotti dalla sentenza di primo grado ad accoglimento del ricorso, l’Agenzia ha proposto un appello generico, non rispettando l’onere di impugnazione specifica imposto dal citato art. 53.

A fronte di tale carenza dell’atto di appello, la CTR avrebbe poi omesso di motivare non spiegando quali sarebbero i motivi specifici di appello, che lo renderebbe ammissibile.

Il motivo è infondato.

Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di contenzioso tributario, la riproposizione, a supporto dell’appello proposto dal contribuente, delle ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 atteso il carattere devolutivo pieno, nel processo tributario, dell’appello, mezzo quest’ultimo non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito (sez. 6, ord n. 1200 del 2016; Sez. 5, n. 3064 del 2012).

Il che vale in generale anche quando l’appello sia proposto dall’Agenzia. Ed invero la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado – in quanto ritenute giuste e idonee al conseguimento della pretesa fatta valere – assolve l’onere di specificità dei motivi di impugnazione imposto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53 ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza (Sez. 6 n. 14908 del 2014).

Va comunque osservato che la stessa ricorrente sembra smentire questo primo motivo di appello attraverso il secondo, con il quale invece denuncia omessa pronuncia da parte del giudice di secondo grado proprio sui singoli motivi di appello dell’Agenzia, che dunque si danno come proposti specificatamente.

2.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c.. Ritiene che la decisione impugnata non ha pronunciato su motivi di appello proposti dall’Agenzia, che la stessa ricorrente specificamente individua.

Il motivo è inammissibile.

E’ inammissibile, per difetto d’interesse, il ricorso con il quale si deduca il vizio di omessa pronuncia relativamente ad una domanda proposta dalla controparte, in quanto non è configurabile al riguardo una soccombenza del ricorrente, che non può subire alcun concreto pregiudizio da una siffatta carenza di decisione (sez. 1 n. 11012 del 2013).

3.- Con il terzo motivo invece la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 c.c.. Ritiene che la sentenza impugnata ha erroneamente inteso la regola sulla distribuzione dell’onere della prova, in quanto ha accolto l’appello senza considerare che, a fronte della esibizione da parte del contribuente della documentazione relativa ai costi dedotti, era onere dell’Agenzia dimostrare il contrario, onere non soddisfatto dalla controparte.

Il motivo è infondato.

In generale, in tema di accertamento delle imposte sui redditi compete al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria della coerenza economica dei costi deducibili (Sez. 5, n. 21184 del 2014), e, nel caso il contribuente assolva l’onere, a suo carica, di provare il fatto costitutivo del diritto alla deduzione dei costi o alla detrazione dell’IVA mediante la produzione delle fatture, l’Amministrazione finanziaria ne può dimostrare l’inattendibilità anche mediante presunzioni, sicchè il giudice di merito deve prendere in considerazione il complessivo quadro probatorio al fine di verificare l’esistenza o meno delle operazioni fatturate, ivi compresi i fatti secondari indicati (sez. 5 n. 2935 del 2015).

Questo schema relativo alla ripartizione dell’onere della prova è stato rispettato. Infatti la decisione impugnata ha ritenuto provato da parte dell’Agenzia ciò che essa doveva provare, ossia l’insufficienza documentale delle asserzioni del contribuente. E del resto a ben vedere la ricorrente contesta piuttosto che l’Agenzia abbia effettivamente fornito la prova a suo carico, non che sia stato violato l’onere sulla ripartizione (“tale prova non è stata in alcun modo fornita dall’Amministrazione e, quindi, la sentenza impugnata non poteva dare rilievo a meri elementi presuntivi del tutto in conferenti”, p. 16). Peraltro la censura mira a produrre una nuova valutazione del materiale probatorio offerto dalla controparte.

4.- Con il quarto motivo si denuncia sia violazione di legge (D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 67 e 75) che difetto di motivazione.

Secondo la ricorrente la sentenza impugnata è erronea nel punto in cui ha ritenuto fondata la tesi dell’Agenzia sulla inverosimiglianza dei costi dedotti a partire dal 1993. I giudici, di appello hanno fatto leva sulla circostanza che nel 1993 l’azienda è stata posta sotto sequestro, can autorizzazione alla continuazione dell’attività, ma limitatamente al commercio, e non già alla produzione, attività peraltro cessata due anni dopo. La limitazione imposta dunque dal sequestro rende inverosimili costi cosi alti come quelli portati in deduzione – e giustifica la presunzione – di fittizietà fatta valere dall’Agenzia. Secondo la ricorrente la sentenza impugnata non ha invece tenuto conto del fatto che l’attività era continuata fino al 1995, data fino alla quale la società ha avuto bisogno di beni e servizi il cui costo ha poi dedotto dalla imposizione.

Il motivo è però inammissibile.

A prescindere dalla circostanza che esso si risolve in questioni di fatto e nella censura di una diversa ricostruzione del medesimo, quanto alla violazione di legge, non dice da un lato quale sia l’interpretazione errata che degli artt. 67 e 75 cit. la sentenza ha dato, e quale, per altro verso, quella corretta quanto al difetto di motivazione non illustra in quali punti la motivazione è omessa o insufficiente, indicando il fatto controverso ed, irrilevante, e rispetto ad esso, irò difetto di motivazione. Non dice quale fosse il fatto controverso e rilevante che la sentenza ha trascurato, e la circostanza che, prendendolo in considerazione, la decisione sarebbe stata diversa.

Tanto più che la sentenza impugnata ritiene fondato l’accertamento non solo facendo leva sull’argomento della prosecuzione effettiva dell’attività durante il sequestro, ma altresì su una serie di altri elementi, sia presuntivi che diretti, tra i quali il ricorso a società dello stesso gruppo per “contrapporre ai ricavi gli oneri e le spese descritte nei documenti suddetti, contabilizzando il risultato finale in una perdità di esercizio chiaramente inattendibile” (p.4 della sentenza). Cosi che, a fronte di plurimi elementi utilizzati per negare la deducibilità del costo, la ricorrente avrebbe dovuto argomentare la rilevanza di quello specifico elemento dedotto nel motivo di impugnazione. Piuttosto il motivo si risolve nella doglianza di una ricostruzione dei fatti (e delle prove) diversa da quella attesa dal contribuente.

5.- Con il quinto motivo, si denuncia sia violazione di legge (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75) che omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

In sintesi, l’Agenzia ha negato effettività ad un finanziamento fatto a favore di società operante nel medesimo settore, non avendo rinvenuto peraltro la documentazione relativa.

Il relativo contratto sarebbe stato esibito in sede contenziosa, e la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto di questa produzione, anzi, ne avrebbe disconosciuto il valore, ritenendola ormai tardiva alla luce del fatto che nessuna documentazione invece era stata prodotta durante il lungo periodo della ispezione presso la sede sociale.

Secondo la contribuente, il rifiuto di dare valore al documento prodotto in sede contenziosa viola del D.P.R. n. 633 del 1972, l’art. 75 cit. nonchè l’art. 52, in quanto quest’ultimo se correttamente inteso autorizza la produzione per la prima volta in sede contenziosa di documenti probatori del contribuente, quando risulti che L’Agenzia non gliene abbia mai fatto richiesta in precedenza, oppure quando, fattane richiesta, il contribuente si sia trovato nell’impossibilità di produrli ed è onere del Fisco dimostrare il contrario (ossia di averli richiesti in sede di accertamento).

Il motivo è infondato.

Invero, la ricorrente riporta solo una parte della motivazione (che è quella che censura) della sentenza di secondo grado sul punto, facendo intendere che la decisione impugnata non ha ritenuto ammissibile la produzione del documento perchè avvenuta per la prima volta in sede contenziosa, cosi basando su questo solo argomento la conclusione che il finanziamento, non provato documentalmente, doveva, come aveva ritenuto l’Agenzia, considerarsi fittizio.

Invece, la sentenza impugnata ha tenuto conto della scrittura privata (del 25.1.1993) e l’ha ritenuta irrilevante perchè non autenticata e non registrata e dunque priva altresì di data certa (” è una scrittura privata, datata 25.1.1993 indicante l’importo corrisposto a titolo di caparra confirmatoria, che non è nè autenticata nè registrata, e non avente conseguentemente data certa nè vincolante valore probatorio).

Conseguentemente la ratio della decisione non è tanto nella tardività della produzione della scrittura quanto nell’assenza di valore probatorio alla luce di quella formale carenza (non autentica e non registrata).

Il ricorso va pertanto respinto e le spese seguono o la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in complessive 6 mila Euro oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 22 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

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