Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20466 del 28/09/2020

Cassazione civile sez. lav., 28/09/2020, (ud. 17/12/2019, dep. 28/09/2020), n.20466

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23737-2015 proposto da:

O.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE

AVEZZANA 2/B, presso lo studio dell’avvocato STEFANO LATELLA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato SIMONA GIANNONE;

– ricorrente –

contro

UNIVER S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso

lo studio dell’avvocato MARCO VINCENTI, rappresentata e difesa

dall’avvocato MASSIMO RICCIARDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 254/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/03/2015, R.G.N. 3049/2012.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

Il Tribunale di Milano accoglieva in parte le domande proposte da O.L. nei confronti di Univer s.p.a. e dichiarava l’illegittimità della collocazione in CIG per i periodi analiticamente indicati in ricorso (CIGO febbraio 2009-luglio 2010; CIG in deroga, dal luglio 2010 all’aprile 2011 e CIGS dal maggio 2011), condannando la società al pagamento delle somme corrispondenti alla differenza fra quanto spettante a titolo di retribuzioni per i periodi di sospensione in CIGO, CIGS e CIG in deroga, e quanto percepito nei medesimi periodi a titolo di indennità di cassa integrazione. Il Tribunale accertava altresì il demansionamento patito dalla lavoratrice nei periodi di lavoro prestato successivamente al 2/2/2009 allorchè non si trovava collocata in CIGO, CIGS e CIG in deroga, condannando la società al risarcimento del danno alla professionalità quantificato nella misura del 100%.

Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte distrettuale che, con sentenza resa pubblica il 27/3/2015, rigettava la domanda proposta dalla lavoratrice a titolo di risarcimento danni da demansionamento, e la condannava alla restituzione di quanto percepito in seguito alla esecuzione della sentenza di primo grado.

La cassazione di tale decisione è domandata da O.L. sulla base di unico motivo, illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c., al quale oppone difese la società intimata.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con unico motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 13 e dell’art. 2103 c.c..

Si duole che la Corte territoriale, con argomentare peraltro contraddittorio, abbia da un canto accertato che nei periodi di rotazione, la ricorrente non aveva ricevuto l’assegnazione di alcuna mansione poichè le attività da essa in precedenza svolte, erano state già redistribuite fra i colleghi, ponendo tale accertamento a fondamento della pronuncia di illegittimità della collocazione in CIGS; dall’altro, non abbia considerato il medesimo fatto, quale prova della dequalificazione professionale risentita.

Stigmatizza l’impugnata sentenza per aver denegato tutela al diritto azionato, argomentando – in assenza di alcuna coerenza logico-formale sulla esiguità dei periodi di inattività e sulla circostanza che la riconosciuta indennità per violazione delle norme in tema di rotazione CIGS, avrebbe dovuto assorbire l’eventuale indennizzo relativo alla dequalificazione professionale intervenuta.

Osserva per contro la ricorrente che la totale accertata privazione di mansioni ha concretizzato la violazione di due precetti normativi: il primo riguardante l’inosservanza della normativa contrattuale collettiva, relativa ai criteri di rotazione in CIGO, CIGS e CIG in deroga; il secondo, la violazione dell’art. 2103 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 13.

Rimarca al riguardo, che mentre il danno da illegittima sospensione in CIGS corrisponde alle precise differenze retributive fra l’indennizzo percepito dal lavoratore sospeso e quanto avrebbe percepito se avesse prestato la propria attività lavorativa, quello derivante da demansionamento può essere valutato anche in via presuntiva ed equitativa.

Argomenta, quindi, che la totale e prolungata privazione delle mansioni aveva sostanziato un comportamento oggettivamente grave della parte datoriale, idoneo a frustrare la specifica professionalità di essa ricorrente, legata all’azienda da un rapporto ultratrentennale e deprivata in favore di colleghi non soggetti ad alcun tipo di mobilità, “subendo l’estirpazione delle sue specifiche attività che maggiormente la rendevano visibile in ambito aziendale”.

2. Il motivo è fondato e va accolto per le ragioni di seguito esposte.

Occorre in via di premessa, richiamare taluni generali concetti in relazione al tema qui delibato, che rimandano a quella che è stata denominata in dottrina la tutela differenziata dei crediti in ragione del loro rilievo socioeconomico.

Detta tutela si rinviene – oltre che in un corpus di disposizioni processuali (le ordinanze anticipatorie di cui all’art. 423 c.p.c., l’esecutorietà della sentenza di primo grado ex art. 431 c.p.c., la rivalutazione dei crediti di lavoro ex art. 429 c.p.c., u.c.), in numerose disposizioni di diritto sostanziale, nel cui ambito vanno incluse, tra le espressioni più significative, le norme dettate a garanzia della “persona” del lavoratore dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, ed il disposto dell’art. 2087 c.c. secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio della impresa le misura che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

In altri termini nella disciplina del rapporto di lavoro si riscontra un reticolato di disposizioni specifiche volte ad assicurare una ampia e speciale tutela alla “persona” del lavoratore con il riconoscimento espresso dei diritti a copertura costituzionale (artt. 32 e 37 Cost.).

In siffatto contesto si è quindi, fondatamente ritenuto che la modifica in peius delle mansioni ascritte al lavoratore, è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti.

Infatti questa Corte, a Sezioni unite (vedi Cass. 11 novembre 2008 nn. 26972, 26973, 26974, 26975), dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, ha considerato che l’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

La dignità personale del lavoratore, in riferimento agli artt. 2,4 e 32 Cost., viene configurata come diritto inviolabile, la cui lesione si risolve in pregiudizio alla professionalità da dequalificazione, che si traduce nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità nell’ambito della formazione sociale costituita dall’impresa.

L’assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre conseguenze dannose, non solo di natura patrimoniale (mancata acquisizione di un maggior saper fare, pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali v. tra le altre v. Cass. n. 11045 del 10/6/2004), ma anche di natura non patrimoniale, dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore derivando il diritto fondamentale di quest’ultimo, al pieno ed effettivo dispiegamento della sua professionalità, espletando le mansioni che gli competono.

Orbene, nello specifico la Corte di merito è pervenuta alla reiezione della domanda di accertamento dell’intervenuto demansionamento e della consequenziale istanza risarcitoria, sul rilievo che la privazione di mansioni era stata circoscritta a limitati periodi di rotazione e risultava comunque “inserita nello specifico contesto dell’illegittima collocazione della lavoratrice in cassa integrazione, già sanzionata mediante la condanna al pagamento delle differenze retributive fra il relativo trattamento e le retribuzioni maturate nei rispettivi periodi”.

Gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito non appaiono coerenti coi ricordati insegnamenti, perchè finiscono per sovrapporre piani risarcitori che rimangono concettualmente distinti perchè riconducibili alla violazione di precetti normativi distinti (quelli attinenti all’osservanza dei criteri di rotazione in CIGO, CIGS e CIG in deroga, e quelli posti a tutela della professionalità e della personalità del lavoratore, consacrati dall’art. 2103 c.c. nella versione di testo pro tempore vigente, anteriore alla novella operata con il D.Lgs. n. 81 del 2015), oltre che risarcibili alla stregua di diversi parametri; infatti, secondo la elaborazione della giurisprudenza di legittimità, la non patrimonialità del diritto leso comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno vada determinato in base a valutazione equitativa, anche mediante il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l’unica fonte di convincimento del giudice (ancora Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.).

Non è, dunque, predicabile un principio, quale quello affermato dalla Corte distrettuale, in base al quale l’accertamento di un diritto scaturito dalla violazione di una norma possa assorbire anche quello derivante dalla violazione di altro precetto normativo; fermo restando che in linea generale, anche un’unica condotta contra legem – come anche fatto cenno in precedenza – possa essere fonte di una pluralità di eventi dannosi, autonomamente risarcibili, giacchè la lesione in sè della posizione giuridica soggettiva del lavoratore sotto il profilo della professionalità, ha attitudine generatrice di danni sia a contenuto patrimoniale, pregiudicando quel complesso di capacità e di attitudini che è di certo bene economicamente valutabile, sia a contenuto non patrimoniale, risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona.

Chiarita la potenzialità lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si è precisato che qualora questi lasci in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 c.c., ma lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonchè dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta la lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual’è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo (v. Cass. 18/5/2012 n. 7963) e tale lesione produce un danno suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa (vedi in proposito anche Cass. 20/04/2018 n. 9901 che ha ravvisato una violazione dell’art. 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico – determinabile in relazione alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale nella condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice alla quale, dopo il rientro dalla cassa integrazione, non erano stati, fra l’altro, assegnati compiti da svolgere).

Nella fattispecie qui scrutinata, la lavoratrice, per effetto della sospensione illegittima dal lavoro protrattasi dal 2/2/2009 al 2/5/2011 e dello stato di forzata inattività nel quale è stata mantenuta fra un periodo di sospensione e l’altro, è stata deprivata delle mansioni a lei ascritte, con evidente pregiudizio quanto alla posizione giuridica soggettiva, della normalità delle relazioni di cui era titolare nel contesto aziendale in cui operava.

La prospettazione del danno derivante dal demansionamento (idoneo “a frustrare la specifica professionalità della lavoratrice, fedele dipendente per più di 30 anni all’interno dell’azienda, quanto a toglierle autorevolezza e rispetto nell’ambito del suo stesso enturage lavorativo”, secondo quanto riferito in ricorso), ed immanente nella condizione stessa di inerzia nella quale la lavoratrice è stata illegittimamente collocata dalla parte datoriale, è, dunque, suscettibile di ristoro per equivalente ed alla stregua del criterio equitativo, secondo i principi generali acquisiti dalla giurisprudenza di questa Corte ai quali si è fatto richiamo.

La pronuncia della Corte distrettuale che, per quanto sinora detto, a detti principi non si è attenuta, va rimessa ad altro giudice di appello, designato come in dispositivo. Questi nel procedere al rinnovato scrutinio della controversia si atterrà ai principi innanzi esposti.

Al medesimo giudice va demandata la regolamentazione delle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 17 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2020

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