Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20466 del 02/08/2018


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Civile Ord. Sez. L Num. 20466 Anno 2018
Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE
Relatore: BLASUTTO DANIELA

ORDINANZA
sul ricorso 18321-2013 proposto da:
CANNAS AGOSTINO C.F. CNNGTN42P18L628W, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIALE CASTRENSE 7, presso lo
studio dell’avvocato GIOVANNI TAGLIALATELA, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato MONICA
TAGLIALATELA, giusta delega in atti;
– ricorrente contro
2018
1674

COMUNE ORVIETO, in persona del Sindaco pro tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI PORTA
PINCIANA 6, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI
CRISOSTOMO SCIACCA, rappresentato e difeso
dall’avvocato CRISTINA URSOLEO, giusta delega in

Data pubblicazione: 02/08/2018

atti;

kr,

– controricorrente avverso la sentenza n. 191/2012 della CORTE D’APPELLO
di PERUGIA, depositata il 29/08/2012, R. G. N.

103/2011.

R.G. 18321/2013
RILEVATO CHE
dott. Agostino Cannas, già dipendente del Comune di Orvieto dal 20 ottobre 1982 al 28
uglio 2000, epoca in cui rassegnò le dimissioni, stipulava con il predetto Ente in data 3
ottobre 2000 un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato per lo svolgimento
dell’incarico di dirigente del settore finanza, cassa e bilancio e successivamente un secondo
contratto a tempo determinato che prorogava gli effetti del primo contratto fino al 30
settembre 2006. In data 10 ottobre 2006 il Cannas, su sua domanda, veniva posto in
quiescenza per pensionamento di anzianità e in data 26 ottobre 2006 stipulava con il

medesimo incarico di dirigente.
2. Con decreto sindacale n.4 del 5 febbraio 2007 del Comune decideva di revocare i decreti
sindacali di assunzione e di conferimento dell’incarico dirigenziale di cui al contratto
stipulato il 26 ottobre 2006, ritenendo che questi fossero stati adottati in violazione dell’art.
25 della legge n. 724 del 1994, così come interpretato dalla Corte dei Conti, Sezione
giurisdizionale dell’Umbria con sentenza n. 235 del 2006, depositata il 27 luglio 2006.
3. La risoluzione del rapporto veniva impugnata dal Cannas, che chiedeva al Giudice del
lavoro: a) di accertare l’illegittimità del provvedimento di revoca adottato con decreto
sindacale n.4/2007; b) di accertare e dichiarare l’inadempimento, da parte del Comune di
Orvieto, dell’obbligo di eseguire il contratto di lavoro stipulato il 26 ottobre 2006; c) di
condannare l’Ente locale al pagamento delle retribuzioni e di ogni altra competenza
economica relativa al periodo di mancata esecuzione del contratto di lavoro (febbraio 2007/
giugno 2009); d) di condannare il Comune al risarcimento dei danni subiti in dipendenza
della ingiusta ed illegittima revoca del 5 febbraio 2007, “relativi alla negativa esposizione
mediatica del ricorrente in correlazione al buco di bilancio comunale”.
4. Il Tribunale di Orvieto, ritenuta la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro,
riconosceva al Cannas l’indennità di preavviso prevista dal contratto individuale di lavoro
per il caso di recesso di una delle parti e rigettava nel resto la domanda. Tale sentenza
veniva impugnata dal Cannas che insisteva per l’accoglimento della domanda principale.
5. La Corte di appello di Perugia rigettava il gravame, ponendo a fondamento del decisum i
seguenti argomenti:
5.1. la decisione del Comune di revocare il precedente decreto sindacale n. 19 del 26
settembre 2006, con cui era stata deliberata la costituzione del rapporto di lavoro a tempo
determinato e il cui contenuto era stato poi integralmente trasfuso nel contratto individuale
di lavoro del 26 ottobre 2006, era conseguente all’interpretazione fornita dalla Corte dei
Conti dell’art. 25 legge 23 dicembre 1994 n. 724, norma che tende ad arginare il fenomeno
delle dimissioni accompagnate da incarichi ad ex dipendenti ed è diretta a garantire piena
ed effettiva trasparenza e imparzialità all’azione amministrativa, evitando gli abusi
intrinsecamente presenti nel conferimento di incarichi a chi, già dipendente

Comune un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato per assumere nuovamente il

,

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l’amministrazione che gli incarichi stessi attribuisce, ha volontariamente posto fine al suo
rapporto di servizio con la Pubblica Amministrazione, così manifestando un chiaro
disinteresse all’espletamento di ulteriore attività lavorativa;
5.2. il divieto di cui all’art. 25 legge n. 724 del 1994 si estende a ogni forma di incarico,
compreso il contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, e quindi legittimamente il
Comune di Orvieto aveva risolto con effetto immediato il rapporto instaurato col dr. Cannas,
incarico ritenuto appunto in contrasto con quel divieto;

espressamente previsto la facoltà delle parti di recedere dal rapporto con comunicazione
scritta, salvo il periodo di preavviso di un mese (preavviso riconosciuto con la sentenza di
primo grado);
5.4. il recesso era stato evidentemente determinato dalla presa d’atto dell’illegittimità del
contratto di lavoro stipulato tra le parti e dalla necessità di ripristinare la correttezza
dell’azione amministrativa, peraltro in conformità alla clausola contenuta contratto stesso,
liberamente sottoscritto dalle parti.
6. Per la cassazione di tale sentenza il Cannas propone ricorso affidato a tre motivi.
7. Resiste con controricorso il Comune di Orvieto.
8. Il ricorrente altresì depositato memoria e art. 380-bis.1 cod. proc. civ..
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 25 legge
724 del 1994 per avere la Corte territoriale omesso di considerare che nella fattispecie non
ricorreva il presupposto della cessazione del precedente rapporto di lavoro per dimissioni,
poiché l’ultimo contratto stipulato con l’Ente locale era cessato (il 30 settembre 2006) per
scadenza del termine di durata, mentre le dimissioni dal rapporto di lavoro a tempo
indeterminato risalivano al 30 settembre 2000. Si denuncia, inoltre, l’errata interpretazione
(estensiva) del divieto di cui all’art. 25 fornita dalla Corte dei Conti, tale da comprendere
nella locuzione “incarichi di consulenza, collaborazione, studio o ricerca”, altresì i contratti
relativi a rapporti lavorativi di natura subordinata.
2. Il secondo motivo denuncia violazione, falsa o erronea applicazione e interpretazione
dell’art. 25 legge n. 724 del 1994, della normativa e dei principi in materia di pubblico
impiego e di dirigenza pubblica e del principio di autotutela, nonché omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio. Si sostiene che la risoluzione del rapporto di lavoro non poteva
fondarsi sulla presunta necessità di “ripristinare la correttezza dell’azione amministrativa”,
poiché nessuna illegittimità relativa al contratto di lavoro stipulato con l’esponente si era
mai verificata in relazione alla normativa di cui all’art. 25 sopra citato; che, in ogni caso,
non era consentito al Comune di Orvieto agire con poteri autoritativi esercitando una revoca
in autotutela, atteso che le Pubbliche Amministrazioni non esercitano più, relativamente ai

2

5.3. d’altra parte, lo stesso contratto individuale di lavoro stipulato il 26 ottobre 2006 aveva

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porti di lavoro, a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, poteri di supremazia
eciale, ma operano con la capacità del datore di lavoro privato nell’ambito di un rapporto
contrattuale paritario.
3. Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione del medesimo art. 25 legge n. 724 del
1994, nonché violazione degli artt. 1362 e segg. cod. civ., del d.lgs. n. 267 del 2000 e del
d.lgs. 165 del 2001, dello statuto comunale e del regolamento sugli uffici e servizi nonché
dei principi in materia di pubblico impiego, di dirigenza pubblica e del principio di autotutela.

negoziale (art. 1362 e segg. cod. civ.), poiché la clausola contrattuale (“le parti si danno
atto che il presente rapporto di lavoro potrà cessare in caso di recesso di una delle parti con
comunicazione scritta da inoltrare almeno un mese prima”) non poteva essere interpretata
come riconoscimento della libera recedibilità, ma come volontà delle parti di concordare le
modalità da rispettare qualora una di esse avesse voluto esercitare la facoltà di recesso.
Con lo stesso motivo si denuncia violazione di norme e principi applicabili al pubblico
impiego e alla dirigenza pubblica, in quanto gli incarichi sono revocabili in caso di
inosservanza delle direttive del sindaco, della giunta o dell’assessore di riferimento, in caso
di mancato raggiungimento di obiettivi assegnati, per responsabilità particolarmente gravi o
reiterate e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. Si deduce che, anche
alla luce della sentenza n. 313 del 1996 della Corte costituzionale, il rapporto di lavoro dei
dipendenti pubblici è sottratto all’area della libera recedibilità; l’esclusione della facoltà di
recesso unilaterale è poi da individuare come principio inderogabile e imperativo in relazione
a quanto disposto dall’art. 1 d.lgs. n. 267/2000 e dall’art. 2 d.lgs. n. 165/01. Di
conseguenza anche a voler supporre che ci sia una clausola contrattuale che prevede la
facoltà di recesso ad nutum, si tratterebbe di una clausola nulla, sostituita di diritto ai sensi
dell’art. 1419 cod. civ.. Si assume che il provvedimento comunale del 5 maggio 2007 era
stato adottato al di fuori delle ipotesi consentite e in ogni caso senza la necessaria
motivazione, visto che quella resa era da considerare contra legem.
4. Il ricorso è fondato nei limiti che seguono.

5. La sentenza. impugnata ricostruisce la fattispecie come un’ipotesi di “rapporto di lavoro a
tempo determinato” e non un’ipotesi di conferimento di incarico di Collaborazione autonoma.
E’ pure riportata in sentenza la parte del contratto individuale ‘secondo cui si tratterebbe di
un rapporto di lavoro dirigenziale’a tempo determinato. Anche la sentenza della Corte dei
Conti, che la Corte di appello ha dichiarato di condividere (Corte dei Conti, Sez. Umbria n.
235 del 2006), fonda il decisum sulla estensione del divieto di cui all’art. 25 della legge
n.724/1994 agli incarichi “che riflettono un lavoro subordinato”,

ritenuti assimilabili ai

rapporti di collaborazione autonoma, in quanto entrambi rientranti nella comune categoria
del conferimento di “incarichi dirigenziali”.

3

Si sostiene la violazione delle disposizioni in materia di interpretazione della volontà

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6i’;` el contesto di tale premessa fattuale, va innanzitutto osservato che la clausola

ontrattuale relativa alla facoltà di recesso ad nutum è da ritenere nulla. Secondo la
giurisprudenza di questa Corte, espressa in fattispecie analoga da Cass. n. 5516 del 2015,
in materia di pubblico impiego, al rapporto di lavoro dei dirigenti assunti dagli enti locali con
contratto a tempo determinato si applicano – in forza del richiamo di cui all’art. 110 del
testo unico degli enti locali e tenuto conto del divieto di trattamento differenziato del
lavoratore a termine che non sia giustificato da obbiettive ragioni, di cui alla clausola 4

1999/70/CE – le garanzie previste, in favore dei dirigenti a tempo indeterminato, dalla
contrattazione collettiva e dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (quali, in particolare quelle
relative alle motivazioni del provvedimento di licenziamento, all’obbligatorietà del parere del
comitato dei garanti per i provvedimenti di responsabilità dirigenziale, nonché alla
contestazione ed alla procedura diretta ad affermare la responsabilità disciplinare), le cui
disposizioni, ai sensi dell’art. 1, comma 3, del medesimo d.lgs., costituiscono principi
fondamentali ex art. 117 Cost., restando esclusa l’applicazione delle sole norme
incompatibili con il termine apposto al rapporto.
6.1. Si è osservato che in presenza di un rapporto dirigenziale a termine, nel quale dunque
incarico dirigenziale e rapporto di impiego coesistono per scelta delle parti, che hanno dato
luogo al rapporto con contratto individuale di lavoro, il fondamento normativo del rapporto
va individuato nell’art. 110 del t.u.e.I., che consente – tra l’altro – la possibilità di
costituzione di un rapporto di lavoro dipendente a termine per lo svolgimento di incarichi
dirigenziali. Tale genere di rapporto non ha una specifica disciplina, se non per le regole contenute nel richiamato art. 110 del t.u.e.l. – che ne prevedono la costituzíone (distinte da
quelle che presiedono alla costituzione di rapporto di impiego a tempo indeterminato con
l’attribuzione di incarichi dirigenziali) e per quelle (implicite) che riguardano la cessazione
per decorso del termine apposto al contratto. Come questa Corte aveva già in precedenza
affermato (Cass. n. 478 del 2014), sono applicabili anche ai dirigenti a termine presso gli
enti locali le norme del testo unico del pubblico impiego, in quanto, ex art. 1, comma 3,
d.lgs. n. 165 del 2001, tali norme costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’art. 117
Cost.. Conformemente, le disposizioni del T.U. sul pubblico impiego sono richiamate dagli
artt. 88 e 111 del T.U. degli Enti locali, i quali rispettivamente prevedono che ai dirigenti
sono applicate le disposizioni del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni ed
integrazioni, e che gli enti locali, nell’esercizio della potestà regolamentare e statutaria,
devono adeguare i propri statuti e regolamenti ai principi del Capo 2^ dello stesso decreto
legislativo. In conclusione, il dirigente pubblico ha posizione giuridica diversa da quella del
dirigente privato e non è licenziabile ad nutum (v. sent. citate, nonché Cass. n. 8077 del
2014 e n. 18198 del 2013).

4

dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, attuato con la direttiva 28 giugno

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7f Tutto ciò premesso, occorre tuttavia rilevare che la questione relativa alla operatività
ella clausola di recesso risulta trattata nella sentenza impugnata in termini di obiter dictum
o, al più, quale seconda

ratio decidendi,

comunque non risolutiva, essendo stato

argomentato principalmente sull’esercizio, da parte datoriale, dell’esercizio di una facoltà di
revoca dell’atto nullo. Al riguardo, va chiarito che il secondo motivo di ricorso, che muove
dalla premessa per cui la revoca dell’atto (di conferimento dell’incarico) costituirebbe
esercizio di potere di autotutela, è infondato.

di lavoro, pur non potendo esercitare poteri autoritativi, è tenuto ad assicurare il rispetto
della legge e, conseguentemente, non può dare esecuzione ad atti nulli (da ultimo, v Cass.
n. 25018 del 2017). La natura privatistica degli atti di gestione dei rapporti di lavoro di cui
all’art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 non consente alle Pubbliche Amministrazioni di esercitare
il potere di autotutela, che presuppone la natura amministrativa del provvedimento e
l’esercizio di poteri autoritativi; tuttavia, qualora l’atto adottato risulti in contrasto con
norma imperativa, l’ente pubblico, che è tenuto a conformare la propria condotta alla legge,
nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 Cost., ben può sottrarsi unilateralmente
all’adempimento delle obbligazioni che trovano titolo nell’atto illegittimo ed in tal caso, al di
là dello strumento formalmente utilizzato e dell’autoqualificazione, la condotta della P.A. è
equiparabile a quella del contraente che non osservi il contratto stipulato, ritenendolo
inefficace perché affetto da nullità (Cass. n. 3826 del 2016, n. 19626 del 2015, n. 8328 del
2010 e Cass. n. 25761 del 2008). Dalla natura privatistica degli atti di gestione del rapporto
discende inoltre che, qualora il dipendente intenda reagire all’atto unilaterale adottato dalla
P.A., deve fare valere in giudizio il diritto soggettivo che da quell’atto è stato ingiustamente
mortificato e non limitarsi a sostenere l’illegittimo esercizio di poteri di autotutela, perché il
giudice «ordinario è giudice non dell’atto ma del rapporto e dei diritti/doveri che dallo stesso
scaturiscono. Ciò comporta che il thema decidendum necessariamente si estende alla
sussistenza o meno della ragione di nullità fatta valere dall’Amministrazione, essendo
incontestabile che nel sistema privatistico l’atto nullo, in quanto improduttivo di effetti
giuridici, non può essere posto dal dipendente a fondamento del diritto soggettivo azionato.
8. La questione della revoca di atto nullo è investita dal primo motivo di ricorso, che
contesta la ratio decidendi sulla quale la sentenza si fonda, che muove da un’interpretazione
estensiva (o meglio inclusiva) dei rapporti di lavoro dirigenziale a termine nell’alveo
applicativo dell’art. 25 legge 23 dicembre 1994, n. 724 (misure di razionalizzazione della
finanza pubblica). Tale norma (art. 25 – Incarichi di consulenza), nel testo vigente ratione
temporis, così dispone al primo comma: “1.

Al fine di garantire la piena e effettiva

trasparenza e imparzialita’ dell’azione amministrativa, al personale delle amministrazioni di
cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, che cessa

5

7.1. Più volte questa Corte ha chiarito che, nel pubblico impiego contrattualizzato, il datore

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ontariamente dal servizio pur non avendo il requisito previsto per il pensionamento di
vecchiaia dai rispettivi ordinamenti previdenziali ma che ha tuttavia il requisito contributivo
per l’ottenimento della pensione anticipata di anzianita’ previsto dai rispettivi ordinamenti,
non possono essere conferiti incarichi di consulenza, collaborazione, studio e ricerca da
parte dell’amministrazione di provenienza o di amministrazioni con le quali ha avuto rapporti
di lavoro o impiego nei cinque anni precedenti a quello della cessazione dal servizio”.
9. Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi in merito all’alveo applicativo dell’art. 25

specificamente riferibile a tutte le attività aventi natura di lavoro autonomo, connotate dalla
prestazione di un’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, e, quindi,
riconducibile alla nozione di collaborazione prevista dalla norma. E’ stato osservato con tale
sentenza che la rubrica dell’articolo – il cui ruolo nell’interpretazione della norma è per
comune consenso assai limitato – menziona gli incarichi di consulenza, ma il testo della
disposizione contempla oltre ad essi anche quelli di collaborazione, studio e ricerca.
Pertanto, rientra nell’ambito applicativo della norma ogni attività avente natura di lavoro
autonomo, connotata dalla prestazione di un’opera continuativa e coordinata,
prevalentemente personale, e, quindi, riconducibile alla nozione di collaborazione. La ratio
della disposizione va ravvisato nell’obiettivo della trasparenza nel conferimento degli
incarichi e nell’ulteriore fine di garantire risparmi di spesa impedendo il cumulo tra pensione
e retribuzione.
9.1. Tale sentenza ha dunque affermato il principio per cui il divieto di cumulo tra pensione
anticipata di anzianità e lo svolgimento di incarichi di consulenza per l’amministrazione di
provenienza previsto dall’art. 25 della legge n. 724 del 1994 riguarda tutti gli incarichi, nei
termini sopra chiariti, conferiti dall’Amministrazione dopo l’entrata in vigore della legge,
assumendo rilevanza anche il successivo verificarsi della situazione di incompatibilità, con
eccezione solo degli incarichi che siano anteriori all’entrata in vigore del divieto, che – ai
sensi dell’art. 25, comma 2, della citata legge – possono proseguire fino alla scadenza o,
comunque, alla cessazione.
10. Deve concludersi che un’ipotesi di contratto di lavoro subordinato (anche se a tempo
determinato) non rientra nel novero dei contratti cui si riferisce l’art. 25, comma 1, della
legge 724/1994. Resta assorbito l’esame della questione relativa all’applicabilità della norma
a fattispecie in cui l’atto di dimissioni risale ad epoca anteriore al quinquennio.
11. Non risulta dagli atti del giudizio di cassazione che siano state dibattute nella fase di
merito questioni relative al cumulo tra trattamento di pensione e remunerazione per attività
di servizio in rapporto di derivazione dal rapporto originario (cfr. art. 19, comma 3, del D.L.
112/2008, poi convertito con L. 133/2008, in relazione al divieto di cumulo per le ipotesi di
cui all’art. 4 del D.P.R. 758/1965).

6

citato con la sentenza n. 20523 del 2008, secondo cui il divieto contenuto nella norma è

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Per tali motivi, la sentenza va cassata con rinvio per il riesame del merito alla luce dei
rincipi sopra esposti. Si designa quale giudice di rinvio la Corte di appello di Perugia in
diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione e conseguentemente cassa la
sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Perugia in diversa composizione, che
provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

Il Presidente
Giuseppe Napol tqn
CAN

Maria P

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Roma, così deciso nella camera di consiglio del 17 aprile – 10 maggio 2018

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