Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20459 del 11/10/2016


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Cassazione civile sez. II, 11/10/2016, (ud. 20/07/2016, dep. 11/10/2016), n.20459

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15345-2012 proposto da:

Z.R., (OMISSIS), Z.A.R. (OMISSIS), ZI.RE.

(OMISSIS), elettivamente domiciliate in ROMA, VIA BALDO DEGLI UBALDI

226, presso lo studio dell’avvocato MAURILIO D’ANGELO, che le

rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

Z.S., (OMISSIS), Z.L. (OMISSIS), Z.A.

elettivamente domiciliati in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 19,

presso lo studio dell’avvocato GIAN ANTONIO MINGHELLI, che li

rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1956/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 04/05/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/07/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

udito l’Avvocato MINGHELLI Antonio, difensore dei resistenti, che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto di tutti i motivi del

ricorso, eccetto per l’accoglimento del 4^ motivo e per

l’assorbimento dell’ultimo di ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 24 luglio 1997 Z.S., L. e A. chiedevano di essere reintegrati del possesso di un fondo sito in (OMISSIS), località (OMISSIS), contraddistinto catastalmente al f. (OMISSIS), part. (OMISSIS). Gli istanti assumevano di essere stati spogliati del possesso del terreno da Zi.Re., R. e A.R., che ne erano proprietarie.

Le convenute resistevano in giudizio opponendo l’insussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della lamentata lesione possessoria e l’inammissibilità o improponibilità dell’azione, siccome proposta oltre un anno dal presunto spoglio.

Il provvedimento interdittale non era concesso e successivamente il Tribunale di Roma, con sentenza depositata il 3 marzo 2004, ordinava alle convenute di astenersi dal porre in essere qualsiasi condotta che potesse turbare o ostacolare l’esercizio del possesso da parte dei ricorrenti sul fondo in contesa.

La sentenza era impugnata da Re., R. e Z.A.R.; si costituivano in fase di gravame i ricorrenti vittoriosi in primo grado e spiegavano appello incidentale chiedendo la condanna degli appellanti al risarcimento dei danni provocati dalla turbativa del possesso.

Con sentenza pubblicata in data 4 maggio 2011, la Corte di appello di Roma rigettava l’appello principale e, in accoglimento di quello incidentale, condannava in solido le predette Re., R. e Z.A.R. al risarcimento del danno in favore della controparte quantificando il pregiudizio patrimoniale in ragione di Euro 1.500,00. Condannava poi le appellanti principali al pagamento delle spese di lite.

Contro tale sentenza Re., R. e Z.A.R. hanno proposto un ricorso per cassazione basato su sei motivi. Resistono con controricorso S., L. e A..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo le ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1168, 1170, 2697 e 2729 c.c., in relazione agli artt. 112 e 113 c.p.c. e art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. E’ dedotto che erroneamente la Corte di Roma aveva accolto la domanda di controparte, riconoscendo sussistenti i presupposti per la manutenzione del possesso. Assumono le istanti che Z.A., fino al (OMISSIS), aveva provveduto alla gestione di un più ampio compendio costituito da un terreno di circa 80 ettari di cui era proprietaria D.A.R.. Alla morte di quest’ultima si era proceduto alla ripartizione del compendio stesso in quattro quote, una delle quali era di pertinenza di Z.R., padre delle ricorrenti; altra quota spettava agli odierni controricorrenti. Prima della divisione la gestione delle quote era stata dunque affidata al coerede Z.A., il quale aveva continuato a svolgere tale attività anche a seguito della divisione del compendio ereditario. Alla morte di S.A., L. e Z.A. si erano sostituiti al defunto nella gestione dei fondi. Escluso, pertanto, che questi ultimi fossero possessori del terreno delle ricorrenti, incombeva ai medesimi dar prova dell’interversione, giacchè l’azione proposta presupponeva la titolarità, in capo ai soggetti che proponevano la domanda, della situazione possessoria. Le ricorrenti poi contestano che, essendo stata proposta la domanda di reintegrazione, potesse essere accolta quella di manutenzione nel possesso; tale accoglimento presupponeva la prova sia del possesso che della turbativa: quanto al primo la Corte di merito avrebbe dovuto accertare che i controricorrenti avevano la mera detenzione del fondo; con riguardo alla molestia, poi, non emergeva l’esistenza dell’animus turbandi, nè si comprendeva da quali elementi il giudice dell’impugnazione avesse potuto ritenerlo esistente. Il motivo censura la sentenza impugnata anche con riguardo alla ritenuta tempestività dell’azione di manutenzione rispetto al termine di decadenza posto dall’art. 1170 c.c., comma 1.

Evidenziano le ricorrenti che la Corte di merito aveva apprezzato il rispetto del termine avendo riguardo all’ultimo atto lesivo del possesso, laddove la considerazione di altre condotte, attuatesi a far data dal (OMISSIS), avrebbero dovuto indurre il giudice distrettuale ad affermare l’eccepita decadenza.

La Corte di appello di Roma, per quanto qui interessa, ha accertato che dalle dichiarazioni di Sp.Fa. era risultato che costui aveva lavorato l’appezzamento di terreno per cui è causa per conto di Z.L. fino al (OMISSIS) e che solo successivamente, allorquando A. e Z.R. procedettero alla delimitazione dei confini, egli fu contattato dalle predette sorelle Z. per seminare il terreno nel loro interesse: ne ha tratto la conclusione che alla data della proposizione del ricorso possessorio (in data 24 luglio 1997) la decadenza non si era prodotta. Con riferimento alla situazione possessoria, poi, la Corte capitolina ha osservato che nessuna prova era stata fornita dalle appellanti circa la “gestione comune” in cui era inserito il terreno per cui è causa: all’opposto, le deposizioni testimoniali confermavano che il fondo era stato coltivato sempre e solo dagli odierni appellati, i quali avevano provveduto all’acquisto delle sementi, dei concimi e dei diserbanti, oltre che ai pagamenti per i lavori di semina, aratura e trebbiatura.

Ciò posto, le censure in cui si articola il motivo non risultano fondate.

Anzitutto il motivo risulta carente di autosufficienza. Si rammenta che il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (per tutte: Cass. 15 luglio 2015, n. 14784; Cass. 9 aprile 2013, n. 8569). Nè può credersi che l’onere del ricorrente sia assolto mediante la riproduzione integrale di atti e documenti accorpati al ricorso, senza alcun preciso richiamo, nel testo del ricorso stesso, al singolo atto o documento che è ricompreso nel ponderoso materiale processuale oggetto di assemblaggio: giacchè non può pretendersi di riversare sulla Corte il compito di ricercare gli elementi processuali che assumano concreto rilievo con riguardo alle singole censure che sono svolte nell’atto di impugnazione.

Il motivo, con particolare riguardo alla prima delle censure svolte, appare inoltre preordinato a un nuovo accertamento della situazione possessoria: accertamento che non può che competere al giudice del merito. Infatti, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 9 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357).

Non può poi ritenersi che al giudice di merito richiesto della reintegrazione fosse precluso provvedere nel senso della manutenzione del possesso. Infatti non viola il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato il giudice che, nell’esercizio del potere di interpretazione della domanda, senza mutare gli elementi obiettivi fissati dall’attore, dispone la cessazione della turbativa anzichè la reintegrazione nel possesso, dato che la mera turbativa costituisce un minus rispetto allo spoglio e nella domanda di reintegrazione nel possesso è ricompresa o implicita quella di manutenzione dello stesso (Cass. 11 novembre 2011, n. 23718; Cass. 2 marzo 1998, n. 2262).

L’animus turbandi è stato, poi, chiaramente ritenuto insito nella condotta posta in atto: infatti nell’azione di manutenzione l’elemento psicologico della molestia possessoria consiste nella volontarietà del fatto, tale da comportare una diminuzione del godimento del bene da parte del possessore e nella consapevolezza della sua idoneità a determinare una modificazione o limitazione dell’esercizio di tale possesso, senza che sia, per converso, richiesta una specifica finalità di molestare il soggetto passivo, essendo sufficiente la coscienza e volontarietà del fatto compiuto a detrimento dell’altrui possesso, che pertanto si presume ove la turbativa sia oggettivamente dimostrata, a nulla rilevando anche l’eventuale convincimento di esercitare un proprio diritto (Cass. 29 novembre 2004, n. 22414; Cass. 15 ottobre 1994, n. 8417).

Per quel che concerne l’eccezione di decadenza, la Corte di merito ha motivato nei termini che si sono ricordati e, come sopra osservato, non è ammesso in questa sede un nuovo accertamento di fatto; anche sul punto, del resto, il motivo è carente di autosufficienza, non recando esso la trascrizione delle risultanze istruttorie che dovrebbero orientare il giudizio nel senso indicato dai ricorrenti; nè l’istante precisa quale sia la localizzazione dei correlativi atti processuali.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 1147 e 1170 c.c., in relazione agli artt. 112 e 115 c.p.c. e art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Deducono le ricorrenti che sull’interversione del possesso la Corte distrettuale avrebbe deciso sulla scorta di inesistenti deduzioni delle appellanti. Gli istanti richiamano una deposizione testimoniale di Z.M., proprietaria di un fondo confinante con quello per cui è causa, la quale aveva riferito che dal (OMISSIS) Z.L. si era continuato ad occupare del terreno nonostante la sua opposizione, e ciò fino al (OMISSIS): in realtà – precisano le ricorrenti – Z.M. aveva riferito di una situazione che non era riferibile al loro fondo. Le istanti richiamano altresì la testimonianza resa da Sp.Fa., dalla quale si doveva desumere che il terreno in contesa era posseduto dalle sorelle Z. fin dal (OMISSIS): tant’è che in quell’anno lo stesso Sp. si era dichiarato disposto a prestare in loro favore attività di lavoro autonomo (ciò che era avvenuto, come risultava da una fattura rilasciata a fronte del pagamento del compenso in data (OMISSIS)).

Con il terzo motivo è lamentata violazione e falsa applicazione dell’art. 1144 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Sostengono le ricorrenti che controparte aveva detenuto il fondo in forza di una permissio domini, successivamente revocata; a tale proposito invoca una sentenza del Tribunale penale di Roma da cui emergeva che i controricorrenti non avevano la disponibilità della particella n. (OMISSIS).

I due motivi possono esaminarsi congiuntamente.

La Corte distrettuale ha osservato che l’assunto della tolleranza era smentito “anche dalle stesse dichiarazioni della teste Z.M.” e che a prescindere dal disconoscimento di ogni altrui pretesa, il comportamento degli appellati, che continuativamente avevano coltivato in modo esclusivo del proprio interesse il terreno per cui è causa, escludeva che nella fattispecie potesse configurarsi una mera detenzione per tolleranza, atteso che gli atti di tolleranza sono solo quelli che implicano un elemento di transitorietà e saltuarietà e che comunque comportano un godimento di modesta incidenza e portata sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare.

Risulta così ridimensionata la portata della deposizione di Z.M., la quale, nel quadro della decisione assunta, non può rivestire il connotato della decisività: e ciò proprio in quanto il giudice dell’impugnazione ha inteso fondare l’esclusione della tolleranza anche sulla scorta di ulteriori elementi. Va osservato, infatti, che per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (ex plurimis: Cass. 24 ottobre 2013, n. 24092; Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 21 aprile 2006, n. 9368).

Nè appaiono dirimenti, ai fini che qui interessano, la deposizione del testimone Sp. e la fattura dallo stesso emessa il (OMISSIS), visto che la Corte di appello ha evidenziato, in proposito, che solo successivamente al (OMISSIS) il detto Sp. provvide a seminare il terreno su incarico delle odierne ricorrenti e queste ultime, nel presente giudizio di legittimità, non si sono mostrate in grado di smentire quanto affermato dalla Corte di merito: è anzi da osservare come il richiamo alla deposizione e alla fattura manchino di autosufficienza; il contenuto della testimonianza e del documento non sono stati infatti trascritti, nè è indicato quando la prima sia stata raccolta e quando il secondo sia stato prodotto.

Parimenti carente in punto di autosufficienza è il richiamo alla sentenza del Tribunale penale di Roma (che, a quanto è dato di comprendere, non costituisce pronuncia produttiva di un qualche effetto tra gli odierni contendenti, concernendo reati ascritti a Z.A.): la pronuncia non è riprodotta, nè è precisato quando essa fu versata in atti. Inoltre, qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove documentali, per il principio di autosufficienza ha l’onere non solo di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, pena l’irrilevanza giuridica della sola produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi, per il giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti stessi ai fini della decisione (Cass. 16 ottobre 2007, n. 21621; Cass. 25 agosto 2006, n. 18506).

Il quarto motivo censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., artt. 112, 278 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Si deduce che costituiva domanda nuova, inammissibile in appello, quella avente ad oggetto la liquidazione del danno: infatti in primo grado i ricorrenti si erano limitati a domandare la condanna al risarcimento del danno derivante dallo spoglio, nell’ammontare che sarebbe stato determinato in separato giudizio. Inoltre la Corte di merito aveva impropriamente ritenuto che il danno fosse in re ipsa e lo aveva liquidato in assenza della relativa prova.

Il motivo non è fondato.

Il Tribunale ha pronunciato un rigetto affermando che il danno era inesistente, con ciò attribuendo alla domanda risarcitoria proposta il contenuto di una pretesa estesa al quantum debeatur. Poichè non risulta che le ricorrenti, in appello, si siano dolute di tale esorbitanza della decisione, sollevando la questione afferente i limiti della domanda entro cui il Tribunale era tenuto a pronunciare, la statuizione resa dalla Corte di appello – che risulta in parte qua congruente con quella del Tribunale (reputando, con essa, che in giudizio avesse avuto regolare ingresso una domanda di condanna a un quantum determinato) – non può essere impugnata, sul punto, nella presente sede. La materia del quantum è infatti entrata a far parte del thema decidendum allorchè il Tribunale se ne è occupato e le odierne ricorrenti non hanno censurato in fase di gravame tale punto della decisione.

Per quel che concerne la liquidazione del danno, deve ritenersi che essa sia stata operata equitativamente, sul presupposto, senz’altro corretto, che la limitazione del godimento sofferta dal possessore del bene si traduce in un danno in re ipsa (cfr. Cass. 3 aprile 2012, n. 5334).

Col quinto motivo è lamentata violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 e all’art. 111 Cost.. Si dolgono le ricorrenti del fatto che la Corte di merito non avesse fondato la propria decisione su alcuni documenti prodotti in fase di gravame: con riferimento agli stessi il giudice dell’impugnazione non aveva infatti motivato il rigetto o l’accoglimento implicito dell’eccezione di inammissibilità controparte. D’altro canto, non proposta dalla esisteva alcuna preclusione alla produzione, visto che l’art. 345 c.p.c. farebbe riferimento alle prove costituende, non già a quelle precostituite.

Il motivo deve essere disatteso.

Per un verso esso è carente di autosufficienza, dal momento che il contenuto dei detti documenti non è riprodotto nel corpo del motivo, sicchè la Corte ne ignora il preciso contenuto. Per altro verso, con riferimento alla produzione dei documenti non è stata nemmeno resa una pronuncia di inammissibilità, come riconosciuto dalle ricorrenti: sicchè è escluso che le medesime possano dolersi della violazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3 (il quale consente, in particolari ipotesi, le nuove produzioni in fase di gravame). Per altro verso ancora, non ha consistenza la censura motivazionale ex art. 360 c.p.c., n. 5, visto che la mancata riproduzione degli scritti versati in atti impedisce di apprezzarne la portata sul piano della verifica della correttezza del percorso logico seguito dalla Corte di appello (la quale – va aggiunto – era comunque libera di attingere il proprio convincimento da quelle prove che riteneva più attendibili, senza essere tenuta a un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti: cfr. ad es. Cass. 7 gennaio 2009, n. 42 e Cass. 17 luglio 2001, n. 9662).

Da ultimo, con quello che è rubricato come sesto motivo, è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c.. Si sostiene, in buona sostanza, che la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata deve importare la condanna solidale del controricorrente al pagamento delle spese dei precedenti gradi di giudizio e al rimborso di quelle già versate ad essi da parte delle istanti.

Non si tratta di un vero e proprio motivo, in quanto le istanti invocano la caducazione della pronuncia sulle spese: caducazione che è determinata ex lege dall’effetto espansivo interno della cassazione della sentenza (art. 336 c.p.c., comma 1): effetto che nella fattispecie non può prodursi, stante la reiezione dell’impugnazione proposta.

In conclusione, il ricorso è respinto.

Le spese seguono la soccombenza.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente pagamento delle spese processuali, che liquida in 3.700,000, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 20 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2016

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