Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20449 del 28/09/2020

Cassazione civile sez. II, 28/09/2020, (ud. 17/01/2020, dep. 28/09/2020), n.20449

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15435/2016 proposto da:

D.P.V., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE

185, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE VERSACE, rappresentato

e difeso dall’avvocato VINCENZO DI PALMA;

– ricorrente –

contro

D.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE 21 APRILE,

presso lo studio dell’avvocato LEONARDO DINNELLA, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANTONIO CIMMINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 778/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 24/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/01/2020 dal Consigliere Dott. ROSSANA GIANNACCARI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– D.P. citò in giudizio innanzi al Tribunale di Nola, con citazione del 26.1.2008, D.P.V., per chiedere la risoluzione del contratto preliminare con il quale aveva promesso di acquistare un capannone, lamentando che l’immobile non poteva essere destinato ad attività industriale, perchè avente destinazione agricola; chiedeva, inoltre, la restituzione del doppio della caparra versata, pari ad Euro 30.000,00.

– Si costituì D.P.V. per resistere alla domanda, deducendo che l’immobile era in regola con le prescrizioni amministrative e, in via riconvenzionale chiese dichiararsi la risoluzione del contratto per inadempimento del D., oltre al risarcimento del danno per le modifiche apportate dal promittente acquirente e per l’illegittima occupazione del bene, con ogni consegquenziale provvedimento in ordine alla caparra;

– il Tribunale di Nola rigettò la domanda di risoluzione proposta dal D., in quanto l’inadempimento era addebitabile al promittente compratore e lo condannò al risarcimento dei danni nella misura di Euro 5.000,00; dispose, quindi, la restituzione in suo favore della somma di Euro 25.000,00, considerando che aveva versato la somma di Euro 30.000.00 a titolo di caparra;

– la Corte di appello di Napoli, con sentenza del 24.2.2018, rigettò il gravame proposto dal D.P.; qualificò la domanda proposta dal D.P. come azione di azione di risoluzione per inadempimento e non come esercizio del diritto di recesso ex art. 1385 c.c.;

per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso D.P.V. sulla base di tre motivi;

– ha resistito con controricorso D.P..

Diritto

RITENUTO

che:

– con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., artt. 1362,1453 e 1385 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte di merito erroneamente interpretato l’effettiva volontà della parte ricorrente di esercitare l’azione di risoluzione per inadempimento e non il diritto di recesso;

– il motivo è inammissibile;

– come chiaramente desumibile dalla lettera dell’art. 1385 c.c., comma 3, la caparra confirmatoria ex art. 1385 c.c., ha la funzione di liquidare convenzionalmente il danno da inadempimento in favore della parte non inadempiente che intenda esercitare il potere di recesso conferitole “ex lege”, sicchè, ove ciò avvenga, essa è legittimata a ritenere la caparra ricevuta ovvero ad esigere il doppio di quella versata; qualora, invece, detta parte preferisca agire per la risoluzione ovvero l’esecuzione del contratto, il diritto al risarcimento del danno va provato nell'”an” e nel “quantum” (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 8417 del 27.04.2016).

– esiste, pertanto, un’incompatibilità strutturale, sotto il profilo risarcitorio, tra la facoltà di recesso ex art. 1385 c.c. e la domanda di risoluzione per inadempimento, nonostante i due strumenti di tutela citati siano accomunati dal presupposto dell’inadempimento contrattuale;

la disciplina dettata dell’art. 1385 c.c., comma 2, in tema di recesso per inadempimento nell’ipotesi in cui sia stata prestata una caparra confirmatoria, non deroga affatto alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando l’inadempimento della controparte sia colpevole e di non scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altro contraente. Pertanto nell’indagine sull’inadempienza contrattuale da compiersi al fine di stabilire se e a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l’interesse dell’altro al mantenimento del negozio (Cassazione civile sez. II, 08/08/2019, n. 21209);

la Corte d’appello, sulla base dell’interpretazione degli atti processuali, ha ritenuto che il D.P. avesse esercitato non il diritto di recesso ex art. 1385 c.c., ma l’azione di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c., tanto che, anche in appello aveva altresì contestato l’entità del risarcimento liquidato dal giudice di primo grado.

il motivo risulta diretto a ribaltare l’interpretazione della domanda e delle eccezioni, che rientra nel compito del giudice di merito, il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, è insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del sindacato della motivazione, nell’ipotesi in cui essa non soddisfi il requisito del “minimo costituzionale” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).

sotto tale profilo, il collegio evidenzia come, mediante la formulazione del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente persegua unicamente la finalità di ottenere un riesame nel merito dei fatti di causa, incompatibile con la natura del giudizio di cassazione;

con specifico riguardo a tale ultima censura, dal provvedimento impugnato si evince chiaramente come non solo il giudice del gravame ha puntualmente esaminato la doglianza finalizzata al riconoscimento del diritto di ritenzione, ma ne ha, altresì, specificamente motivato il rigetto in termini di insussistenza dei presupposti necessari al riconoscimento di tale facoltà;

non è non è altresì configurabile la violazione di inosservanza del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ai sensi di cui all’art. 112 c.p.c., in relazione ad una diversa qualificazione giuridica dei fatti e dell’azione esercitata in causa. Rientra, infatti, nei poteri del giudice ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli richiamati dalle parti (Cassazione civile, sez. I, 20/06/2017, n. 15190; Cassazione civile, sez. II, 27/01/2016, n. 1545); con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la corte di merito non avrebbe dovuto tener conto, ai fini dell’interpretazione della domanda riconvenzionale, che sarebbe stata dichiarata inammissibile, dovendo, di contro, privilegiare la sua volontà di trattenere la caparra confirmatoria;

– il motivo è inammissibile;

– in disparte l’ambigua tecnica redazionale adottata, il motivo difetta di specificità in quanto non indica gli atti ed i documenti sit cui il ricorso si fonda, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6; quanto al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio motivazionale è integrato dall’omesso esame di un fatto storico decisivo per il giudizio e non dall’interpretazione di un atto processuale;

– con il terzo motivo di ricorso, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente si duole della quantificazione del danno da indennità di occupazione effettuata da parte del giudice di primo grado;

– il motivo è inammissibile in quanto il ricorrente impugna, peraltro deducendo vizi di merito, la sentenza di primo grado e non la sentenza di appello, che ad essa si sostituisce;

– il ricorso va, pertanto, dichiarato il ricorso il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo;

ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater (applicabile ratione temporis, essendo stato il ricorso proposto dopo il 30 gennaio 2013) per il raddoppio del versamento del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 17 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2020

 

 

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