Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20443 del 06/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 06/10/2011, (ud. 12/04/2011, dep. 06/10/2011), n.20443

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21473/2006 proposto da:

T.B.R., elettivamente domiciliata in ROMA VIA MARIO

FANI 37, presso lo studio dell’avvocato CAUDULLO RAFFAELE, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BERTOZZI ALDO, giusta

delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 156/2005 della COMM.TRIB.REG. di MILANO,

depositata il 20/01/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/04/2011 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito per il ricorrente l’Avvocato CAUDULLO, che si riporta;

udito per il resistente l’Avvocato SPINA, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In relazione al contratto di affitto di azienda (concernente la vendita al dettaglio di articoli di profumeria) stipulato in data 13.12.1996 tra la concedente T.B. e l’affittuaria VIMA s.r.l., l’Ufficio di Milano (OMISSIS) della Agenzia delle Entrate emetteva avviso di rettifica della dichiarazione IVA per l’anno 1997 avente ad oggetto il recupero ad imposta della somma di lire 190.155.000 liquidata sull’ammontare delle giacenze di magazzino, ritenendo di ravvisare accanto a contratto di affitto di azienda un distinto atto negoziale avente ad oggetto la cessione dei beni ricompresi nel magazzino, operazione quest’ultima che doveva ritenersi perfezionata ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 1, dopo un anno dalla consegna.

Il ricorso proposto dalla contribuente era rigettato con sentenza CTP di Milano n. 149/32/2003, e l’appello era respinto con sentenza della sez. 20 della CTR di Milano in data 20.1.2006 n. 156.

I Giudici di merito aderivano aliatesi dell’Ufficio finanziario secondo cui per effetto del contratto di affitto di azienda si era realizzata una consegna di beni mobili (merci in giacenza) dal concedente – che rivestiva la qualità di imprenditore – all’affittuario, senza tuttavia produrre immediati effetti traslativi, essendosi quindi perfezionata la operazione imponibile di cessione dei beni dopo il decorso dell’anno dalla consegna come previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 1. Lo scorporo tra l’azienda e le merci in giacenza trovava fondamento, secondo i Giudici di merito, nell’art. 2561 c.c., comma 4, che, ponendo l’obbligo di regolazione in denaro della differente consistenza di inventario rilevata all’inizio ed al termine del contratto, induceva a ritenere che tali merci “esulino dal’ambito del canone di affitto, assumendo quindi valenza di entità patrimoniale da trattarsi specificamente in altro modo”.

Avverso la sentenza di appello propone ricorso per cassazione T.B. deducendo due motivi Resiste la Agenzia delle Entrate con controricorso.

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Le argomentazioni poste a fondamento della sentenza impugnata sono le seguenti:

– la contribuente al tempo della stipula del contratto di affitto di azienda esercitava attività commerciale per professione abituale (essendo titolare della impresa relativa alla azienda ceduta in affitto), ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4. – all’atto della stipula del contratto di affitto la concedente ha ceduto alla società affittuaria l’insieme delle merci giacenti in magazzino: tale cessione rientra nel paradigma normativo di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 1, in quanto dall’art. 2561 c.c., si desume la alterità delle merci in giacenza rispetto al pagamento del canone per lo sfruttamento della azienda.

p.2. La ricorrente impugna la sentenza di appello denunciando i seguenti vizi di legittimità:

1-) violazione e falsa applicazione dell’art. 2083 c.c., e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, avendo i Giudici di appello accertato la sussistenza del presupposto soggettivo di imposta erroneamente attribuendo al locatore la qualità soggettiva di imprenditore “all’atto della stipula del contratto di affitto”, in contrasto con la costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 943/1996. n. 21583/2005, n. 27015/2005) che ha affermato come, in caso di cessione od affitto dell’unica azienda, il cedente/locatore perde tale qualità che viene assunta dal cessionario/affittuario;

2-) violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 2 e 6, e dell’art. 2561 c.c., avendo i Giudici di appello erroneamente sussunto il contratto di affitto dell’unica azienda posseduta dalla ricorrente tra le operazioni imponibili ai fini IVA, sebbene il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 2, lett. b), dichiarasse espressamente esenti dalla imposta le cessioni di aziende (e dunque tanto più i contratti di affitto di azienda), e l’art. 3, comma 2, n. 1) del medesimo decreto considerasse prestazioni di servizio soltanto le concessioni di beni (e non anche di aziende) in locazione od in affitto effettuate verso corrispettivo.

p.3. La Agenzia delle Entrate chiede il rigetto del ricorso, relativamente al primo motivo, in quanto la contribuente non avrebbe perduto la qualità di imprenditore con il contratto di affitto di azienda, ma avrebbe soltanto temporaneamente sospeso la partita IVA. Relativamente al secondo motivo di ricorso, l’Avvocatura dello Stato – incorrendo in palese equivoco nella lettura del contenuto motivazionale della sentenza – riferisce ai Giudici di appello le argomentazioni giuridiche svolte invece dall’appellante, finendo – peraltro incomprensibilmente – per aderirvi.

p.4. Il ricorso trova accoglimento.

p.4.1 Il primo motivo con il quale la ricorrente deduce l’erronea applicazione delle norme indicate in rubrica è fondato.

La nozione tributaristica dell’esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, giacchè, tanto il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 55, in materia di imposte sui redditi, quanto il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 4, in materia di IVA, intendono come tale l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate dall’art. 2195 cod. civ., nonchè delle attività indicate dall’art. 2135 c.c., (ai soli fini delle imposte sui redditi, se eccedenti i limiti stabiliti con decreto ministeriale ai sensi dell’art. 32, comma 2, del medesimo TU n. 917 del 1986), anche se non organizzate in forma di impresa, prescindendo quindi dal requisito organizzativo, che costituisce invece elemento qualificante ed indispensabile per la configurazione dell’impresa commerciale agli effetti civilistici, esigendo soltanto che l’attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale, ancorchè non esclusiva (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 20.12.2006 n. 27211).

I requisiti della professionalità e dell’abitualità, esigono il carattere continuativo e stabile dell’attività imprenditoriale e non sono pertanto ravvisatali in riferimento ad atti isolati di produzione e commercio, quali vengano ritenuti secondo l’incensurabile accertamento di fatto compiuto dai giudici di merito (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 22.9.2003 n. 13999, id. 20.12.2006 n. 27208, id. 23.7.2008 n. 20253).

L’accertamento del carattere imprenditoriale, o comunque abituale e professionale, dell’attività, deve poi valutarsi in relazione alle concrete modalità ed al contenuto oggetti vo e soggettivo di essa;

l’onere della prova di tale carattere è posto a carico dell’Ufficio finanziario, e può essere adempiuto anche mediante presunzioni, che il giudice è tenuto a vagliare, per verificarne la sussistenza e la validità, con un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 9.4.2008 n. 9206).

I Giudici di appello hanno affermato che ricorreva nella specie il requisito soggettivo della fattispecie integrante il presupposto di imposta, in quanto al momento della stipula del contratto di affitto di azienda la T. era titolare della impresa.

Tale affermazione contrasta con la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui la dismissione della qualità di imprenditore della persona fisica consegue alla cessione in proprietà od in godimento della “unica” azienda di cui è titolare il soggetto cedente/locatore (sussistendo una univoca relazione tra tali atti negoziali e la cessazione dell’attività commerciale della persona fisica). In tema di imposta sui redditi di impresa, ma con argomento estensibile anche in riferimento all’esercizio di impresa contemplato dalla disciplina normativa in materia di IVA (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 1), è stato, infatti, affermato che “l’imprenditore che conceda in affitto la sua unica azienda perde la qualifica di imprenditore, e non può pertanto più avvalersi dei criteri di deducibilità previsti per il reddito d’impresa rispetto ad un reddito costituito dai canoni d’affitto dell’azienda, i quali, in difetto di qualsiasi atto di residuata gestione, non possono considerarsi come conseguiti nell’esercizio dell’originaria impresa, cessata con il subentro del terzo” (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 29.3.2006 n. 7292; id. 1^ sez. 30.9.2010 n. 20506. Vedi Corte Cass. 5^ sez. 7.11.2005 n. 21583 secondo cui “l’affitto e la concessione in usufrutto dell’unica azienda da parie dell’imprenditore “non si considerano fatte nell’esercizio dell’impresa “…”).

E’ ben vero – come afferma la resistente – che la qualità di imprenditore non viene meno in relazione a quelle operazioni compiute, successivamente alla stipula del contratto di cessione o di affitto di azienda, dal soggetto alienante/concedente con beni distolti dal complesso aziendale, quali ad esempio le giacenze di magazzino qualora tali beni non siano stati ricompresi, per volontà delle parti, nella cessione d’azienda (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 8.5.2006 n. 10529 secondo cui non perde la qualità di imprenditore e resta soggetto ad IVA colui che dopo la cessione della unica azienda “prosegua l’attività di impresa anche se al solo fine di procedere alla liquidazione delle rimanenze di magazzino”). Tuttavia, non essendo stata oggetto di allegazione e di prova da parte dell’Ufficio finanziario tale specifica circostanza nei giudizi di merito, la obiezione formulata dalla resistente è priva di rilevanza, trovando in conseguenza applicazione al caso concreto il principio di diritto sopra affermato dalla giurisprudenza di legittimità: deve ritenersi, pertanto, errata in diritto la pronuncia della CTR laddove ha riconosciuto la qualità di imprenditore – id est di esercente in modo abituale un’attività commerciale ex art. 2195 c.c. in capo alla contribuente all’atto della stipula del contratto di affitto dell’unica azienda da quella posseduta.

Ne consegue che non potendo configurarsi il contratto di affitto dell'”unica” azienda posseduta dal locatore, come operazione posta in essere nell’ambito dell’esercizio di una attività commerciale svolta in forma di impresa o comunque svolta con carattere di professionalità e stabilità dal soggetto concedente (rimanendo esclusi tali clementi qualificativi del presupposto di imposta proprio dalla unicità della azienda oggetto dell’atto negoziale che impedisce di inquadrare detta operazione nell’ambito di più vasta attività commerciale volta a collocare sul mercato aziende da affittare o compravendere), viene meno il requisito soggettivo che la norma impositiva richiede per assoggettare ad IVA le cessioni di beni e le prestazioni di servizi.

La conclusione raggiunta in ordine alla esclusione del presupposto soggettivo di imposta introduce all’esame del secondo motivo con il quale la ricorrente intende dimostrare il vizio di sussunzione della fattispecie negoziale nello schema legale del presupposto impositivo.

4.2 Con il secondo motivo la ricorrente denuncia vizio in judicando della sentenza, avendo i Giudici territoriali erroneamente sussunto la fattispecie negoziale nello schema normativo di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 1, ed individuato nell’ambito del contratto di affitto di azienda (non assoggettabile ad IVA) un autonomo atto di cessione dei beni costituenti le rimanenze di magazzino (assoggettabile ad IVA).

Dalla lettura della sentenza impugnata sembra, infatti, che i Giudici di appello, abbiano voluto scindere dal contratto di affitto di azienda l’atto di cessione delle rimanenze di magazzino, rinvenendo la autonomia negoziale delle due operazioni nella disciplina dei beni inventariati dettata dall’art. 2561 c.c., applicabile anche all’affitto di azienda in virtù dell’espresso richiamo operato dall’art. 2562 c.c..

Tale “modus operandi” – pacifico essendo che le rimanenze di magazzino hanno costituito oggetto del medesimo contratto di affitto di azienda – non può ritenersi coerente con la nozione di azienda generalmente condivisa in dottrina ed in giurisprudenza, nè può ritenersi conforme alla disciplina del tipo negoziale (contratto di affitto).

Quanto al primo aspetto deve rilevarsi che carattere precipuo dell’azienda, secondo la nozione civilistica dell’istituto, è “l’organizzazione dei beni finalizzata all’esercizio dell’impresa”, intesa come opera unificatrice dell’imprenditore diretta alla realizzazione di un rapporto di complementarietà strumentale tra beni destinati alla produzione (art. 2555 c.c.). Pertanto viene a configurarsi una cessione di azienda tutte le volte in cui la relativa convenzione negoziale abbia avuto ad oggetto il trasferimento di “beni organizzati in un contesto produttivo (anche solo potenziale) dall’imprenditore per l’attività d’impresa”, senza che risulti di ostacolo alla configurabilità della cessione nè la eventuale mancanza attuale del cosiddetto “avviamento”, nè la destinazione dei beni aziendali ad altro settore produttivo da parte dall’acquirente, purchè la nuova produzione si realizzi, pur sempre, attraverso tale complesso di beni già organizzati dal precedente imprenditore (cfr. Corte Cass. 1^ Sez. 28.4.1998 n. 4319; id. 5^ Sez. 25.1.2002 n. 897 – che dall’accertamento della strumentante ed interdipendenza dei beni diretti all’esercizio della impresa, qualifica il negozio come cessione di azienda, con conseguente applicazione della imposta di registro in luogo di assoggettamento ad IVA; id. 30.5.2005 n. 11457; id. 4.5.2007 n. 10273; id. 19.11.2007 n. 23857).

La “organizzazione dei beni aziendali” è dunque il risultato che consegue all’esercizio della autonomia privata del soggetto che imprime il nesso di strumentalità ai singoli beni destinandoli all’esercizio della impresa, con la conseguenza che anche le giacenze o scorte di magazzino (iscritte nello stato patrimoniale alla voce dell’attivo circolante – materie prime, semilavorati, prodotti finiti e merci -: cfr. art. 2424 c.c.) costituiscono – salvo diversa volontà negoziale delle parti contraenti ed ove non considerate isolatamente rispetto alla loro destinazione funzionale – “beni a servizio della impresa” e dunque, a tutti gli effetti, beni appartenenti al complesso aziendale, rimanendo pertanto assoggettati alla disciplina pattizia e sussidiaria del codice civile in materia di trasferimento e di affitto del complesso aziendale considerato unitariamente in relazione a tutte le sue componenti.

La indagine relativa alla qualificazione giuridica dei beni compresi nelle rimanenze di magazzino, come beni appartenenti al complesso aziendale, deve quindi essere svolta, ai fini della individuazione del regime fiscale applicabile, ricercando la “causa reale del negozio e gli interessi effettivamente perseguiti dai contraente, essendo al riguardo irrilevante la mera circostanza che i beni facenti parte della azienda siano oggetto di plurimi e diacronici atti negoziali, dovendo in tal caso il Giudice valutare congiuntamente i vari negozi stipulati tra le parti e verificare se gli stessi siano complessivamente diretti a realizzare od a mantenere la destinazione unitaria dei beni a servizio di un’attività di impresa (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 16.4.2010 n. 9162. Vedi in particolare Corte Cass. 5^ sez. 12.5.2008 n. 11769 che ravvisa un unico contratto di cessione di azienda nel collegamento funzionale di due distinti negozi di trasferimento aventi ad oggetto, rispettivamente, cessione della azienda e cessione delle rimanenze e materie prime).

Tanto premesso e venendo trattare più approfonditamente del contratto di affitto di azienda, occorre rilevare come la separazione della “situazione statica di appartenenza” dei beni costituti in azienda dalla “situazione dinamica della gestione” di impresa (id est tra il titolare del diritto di proprietà ed il titolare del diritto reale o personale di godimento del complesso aziendale) consente al proprietario di mantenere od accrescere il valore patrimoniale della azienda sottraendosi ai rischi ed alle responsabilità che ricadono sull’imprenditore: in funzione di tale interesse riconducibile alla causa dei contratti di godimento dell’azienda, trova logica giustificazione l’obbligo gravante sull’usufruttuario/affittuario di gestire l’azienda “senza modificarne la destinazione ed in modo da conservare l’efficienza della organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scortè” (art. 2561 richiamato dall’art. 2562 c.c.). Ne consegue, da un lato, che l’abuso del potere di disposizione sui beni aziendali da parte del titolare del diritto di godimento (imprenditore) comporta la risoluzione del contratto per grave inadempimento (art. 2561 c.c., comma 3, che rinvia all’art. 1015 c.c.), dall’altro che lo stesso usufruttuario od affittuario è tenuto ad usare ed anche a disporre di tali beni (impianti, attrezzature, scorte) ove ciò si renda necessario per il corretto adempimento dell’obbligo di gestione aziendale.

Non assume rilievo ai fini della presente decisione stabilire i diversi poteri del concessionario di azienda in relazione alla differente tipologia dei beni destinati a servizio della impresa (con riferimento alle categorie delle voci dell’attivo di bilancio può attuarsi una sommaria e generica distinzione tra beni ricompresi nel “capitale fisso” e beni ricompresi nel “capitale circolante”), ma preme invece sottolineare che proprio in considerazione dell’obbligo di proficua gestione della azienda la legge impone al concessionario di restituire al proprietario al termine della durata contrattuale i beni aziendali in condizioni non deteriori rispetto a quelle in cui li aveva ricevuti (cfr. artt. 1001 e 995 c.c.; art. 1590 c.c.), regolando espressamente la restituzione di quei beni originariamente presenti nel complesso aziendale e, successivamente, nel corso della gestione aziendale, immessi nel ciclo produttivo o commerciale della impresa: prescrive infatti l’art. 2561 c.c., comma 4, che “la differenza tra la consistenza di inventario all’inizio ed al termine dell’usufrutto (affitto) è regolata in denaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto (affitto)”.

La norma del codice civile, pertanto, al contrario di quanto sostenuto dai Giudici territoriali, non individua una autonoma fattispecie negoziale (avente ad oggetto la cessione dei beni – giacenze di magazzino) distinta dal contratto avente ad oggetto la concessione in godimento della azienda, ma è volta a regolare, in considerazione del carattere “circolante” di tali beni, soltanto uno degli aspetti della medesima obbligazione restitutona gravante sul concessionario (per l’affittuario cfr. art. 1590 c.c.) derivante dal contratto di affitto di azienda. I beni organizzati in funzione dell’esercizio della impresa, ivi incluse le rimanenze, considerati unitariamente come complesso aziendale non sono, infatti, trasferiti in proprietà all’affittuario, ma permangono in capo al locatore che concede all’affittuario soltanto il diritto personale di sfruttamento del bene produttivo (azienda) in conformità alla destinazione economico-funzionale impressa detti beni dal concedente, essendo tenuto l’affittuario al termine di efficacia contrattuale a restituire l’azienda al proprietario. Tale obbligo, attesa la diversa natura o funzione dei beni del complesso aziendale, non può che essere adempiuto in modo differente, a seconda che tali beni siano destinati a durare nel tempo (inconsumabili) o siano destinati ad essere impiegati nel ciclo produttivo o commerciale della azienda (consumabili): appare dunque logico, in quest’ultimo caso, che l’obbligazione di restituzione dell’azienda gravante sull’affittuario venga assolta in forma generica mediante corresponsione del “tantundem”.

Errata è quindi l’applicazione alla fattispecie, come rilevata in concreto ai Giudici di merito, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 1, che fa riferimento alle cessioni di beni “i cui effetti traslativi o costitutivi si producono posteriormente” e che considera effettuate, ai fini IVA, tal operazioni “nel momento in cui si producono tali effetti e, comunque, se riguardano beni mobili, dopo il decorso di un anno dalla consegna o spedizione”, tanto più che la tesi della Amministrazione finanziaria – recepita dalla sentenza impugnata – è carente anche sotto il profilo logico non fornendo alcuna giustificazione in ordine all’ipotizzato differimento degli effetti traslativi della proprietà sulle rimanenze di magazzino al tempo della restituzione della azienda anzichè all’atto della consegna di beni aziendali successiva alla stipula del contratto.

In conseguenza il ricorso trova accoglimento e la sentenza impugnata deve essere cassata. Non occorrendo procedere ad ulteriori accertamenti in fatto la causa va decisa ne merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con l’accoglimento del ricorso introduttivo proposto dalla contribuente.

La Agenzia delle Entrate, soccombente, va condannata alla rifusione delle spese di lite del presente giudizio, che si liquidano in dispositivo, dichiarandosi interamente compensate tra le parti le spese dei gradi di merito.

P.Q.M.

LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE – accoglie il ricorso, per l’effetto cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito accoglie il ricorso introduttivo;

– condanna la Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 6.000,00 per onorari ed in Euro 100, per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali ed accessori di legge; compensa interamente tra le parti e spese relative ai gradi di merito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2011

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