Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20439 del 06/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 06/10/2011, (ud. 14/07/2011, dep. 06/10/2011), n.20439

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

J.M., J.G., J.A., in

qualità di eredi di L.M.P., elettivamente domiciliati in

ROMA VIA CICERONE 28, presso lo studio dell’avvocato RAMPELLI

ELISABETTA, che li rappresenta e difende, giusta delega a margine;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI PADOVA in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA DEL VIMINALE 43, presso lo studio

dell’avvocato LORENZONI FABIO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MONTOBBIO ALESSANDRA, giusta delega in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 35/2007 della COMM. TRIB. REG. di VENEZIA,

depositata il 22/10/2007;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/07/2011 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il ricorrente l’Avvocato SARACINO, delega Avvocato

RAMPELLI, che si riporta;

sentito il P.M. in persona del SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE DOTT.

LETTIERI Nicola, che aderisce alla relazione.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. G., A. e J.M. propongono ricorso per cassazione (successivamente illustrato da memoria) nei confronti del Comune di Padova (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione del rifiuto di rimborso lei per gli anni 1993/1999 in relazione ad immobile assoggettato a vincolo ex L. n. 1089 del 1939, la C.T.R. Veneto riformava la sentenza di primo grado (che aveva accolto il ricorso del contribuente) rilevando che dalla documentazione in atti risultava che l’immobile oggetto del vincolo non era più esistente nel periodo di cui al rimborso richiesto e che sull’area di tale immobile insisteva un’edificazione moderna priva di interesse architettonico.

I primi tre motivi (coi quali si deduce violazione della L. n. 1089 del 1939 e falsa applicazione della L. n. 42 del 2004 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) e il quarto motivo (col quale si deduce “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – contraddittorietà della motivazione) sono inammissibili.

In particolare, con riguardo alle censure ex art. 360 c.p.c., n. 3, deve rilevarsi che i relativi quesiti di diritto risultano inadeguati a svolgere la funzione che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, è loro propria, ossìa quella di far comprendere alla Corte, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, quale sia l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare, essendo nella specie i quesiti assolutamente generici inidonei non solo a far comprendere la ratio decidendi della decisione impugnata, ma anche ad esprimere la rilevanza della risposta al quesito ai fini della decisione del motivo, oltre che privi di tutte le indicazioni necessarie a consentire alla Corte una risposta utile ai fini della definizione della controversia e suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sub iudice. Quanto alle censure ex art. 360 c.p.c., n. 5, deve evidenziarsi la mancanza dell’indicazione prevista dalla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., a norma del quale è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume viziata, essendo peraltro da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dal citato art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (v. cass. n. 8897 del 2008).

E’ poi appena il caso di sottolineare che l’indicazione suddetta deve sempre avere ad oggetto (non più un una questione o un “punto”, secondo la versione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 anteriore alla modifica introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006 ma) un fatto preciso, inteso sia in senso storico che normativo, ossia un fatto “principale”, ex art. 2697 c.c. (cioè un “fatto” costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo, e che nella specie manca non solo l’illustrazione di cui alla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., ma, ancor prima, l’individuazione di uno o più “fatti” specifici (intesi come sopra e non come generico sinonimo di punto, circostanza, questione) rispetto ai quali la motivazione risulti viziata nonchè l’evidenziazione del carattere decisivo dei medesimi fatti.

E’ poi appena il caso di evidenziare che il vizio di motivazione denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 può riguardare solo l’accertamento in fatto, non la motivazione in diritto della sentenza. Il quinto motivo (col quale si deduce “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5” con riguardo alla condanna del contribuente al pagamento delle spese di secondo grado – mancanza di motivazione sul punto) è inammissibile per mancanza del quesito di diritto nonchè della indicazione prevista dalla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c. Il motivo è peraltro manifestamente infondato, posto che dalla sentenza impugnata risulta che gli attuali ricorrenti sono rimasti totalmente soccombenti e che pertanto il giudice aveva l’obbligo di condannarli alle spese alla stregua della regola generale posta dal primo comma dell’art. 91 c.p.c., sorgendo l’obbligo di motivazione solo nel caso in cui, derogando alla regola della soccombenza, il giudice avesse ritenuto di compensare, in tutto o in parte, tali spese.

Il sesto motivo (col quale si deduce mancata pronuncia in ordine all’appello incidentale proposto dai contribuenti) è inammissibile, posto che nè dalla sentenza impugnata nè dalla sua intestazione risulta in alcun modo che gli attuali ricorrenti avessero proposto appello incidentale e che in ricorso non è stato riportato il testo di tale appello (come sarebbe stato necessario in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione). Peraltro, sulla base delle sintetiche indicazioni circa il contenuto dell’appello incidentale esposte nella prima parte del ricorso per cassazione ed alla stregua delle motivazioni dell’accoglimento dell’appello principale, deve escludersi che nella specie sia configurabile una omessa pronuncia, dovendo ritenersi sussistente una chiara ipotesi di assorbimento. In giurisprudenza la più frequente ipotesi di assorbimento è infatti costituita proprio dal c.d.

assorbimento della impugnazione incidentale a seguito della decisione sulla impugnazione principale, nel senso che, dopo la pronuncia sulla impugnazione ritenuta assorbente, potrebbe non esservi più necessità o possibilità di provvedere sulle questioni proposte nell’impugnazione incidentale, come nella specie in cui, avendo i giudici della C.T.R. accolto l’appello del Comune e pertanto escluso il rimborso richiesto, non vi era più ragione di pronunciarsi sull’appello incidentale con cui ci si doleva che i primi giudici, decidendo sul rimborso, avevano omesso di indicare l’anno 2000, nonchè di riconoscere interessi e svalutazione monetaria ed avessero infine compensato le spese.

Il settimo motivo (col quale si deduce omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in ordine ai criteri di liquidazione delle spese in assenza di nota spese) è inammissibile, posto che nella specie non ci si duole di un vizio di motivazione concernente l’accertamento in fatto, ma si pone una questione in diritto (se il giudice, in assenza di nota spese, debba indicare le ragioni che lo hanno indotto alla condanna ed estrinsecare il criterio utilizzato per la liquidazione), laddove il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 può riguardare, come sopra rilevato, solo la motivazione in fatto e non quella in diritto. Il motivo risulta peraltro in ogni caso manifestamente infondato, posto che, stante la doverosità della statuizione sulle spese da parte del giudice e l’indicazione dei soggetti a carico dei quali porre le suddette spese posta nel codice di rito (le cui disposizioni in proposito devono ritenersi integrare la scarna disciplina dettata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15), l’eventuale mancanza di una apposita richiesta della condanna in proposito è irrilevante, e comunque il mancato deposito della nota spese può avere il solo effetto di limitare la condanna alle sole spese risultanti dagli atti di causa, avendo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità affermato che la previsione dell’art. 75 disp. att. c.p.c., concernente l’obbligo del difensore di presentare la nota delle spese, non esclude il potere-dovere del giudice di provvedere alla liquidazione delle spese giudiziali sulla base degli atti di causa ai sensi dell’art. 91 c.p.c., il cui disposto conferisce natura accessoria e consequenziale alla condanna della parte soccombente al rimborso, con la conseguenza che il giudice, anche in mancanza di esplicita richiesta della parte vincitrice, deve provvedervi d’ufficio (v. tra le altre cass. n. 1440 del 2000), essendo inoltre da rilevare che i ricorrenti non hanno, in ricorso, neppure dedotto – tantomeno in maniera autosufficiente – che nella specie la liquidazione era stata superiore alle spese desumibili dagli atti processuali.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 500,00 di cui Euro 400,00 per onorari oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 14 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2011

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