Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20429 del 11/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 11/10/2016, (ud. 07/06/2016, dep. 11/10/2016), n.20429

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4082-2015 proposto da:

G.M. C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO SALINAS, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE PALERMO P.I. (OMISSIS), in persona del

suo Direttore Generale e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE SANTO 2, presso lo

studio dell’avvocato FULVIO ROMEO, che la rappresenta e difende

unitamente agli avvocati GIORGIO LI VIGNI e FRANCESCA LUBRANO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1870/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 29/10/2014 R.G. N. 217/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2016 dal Consigliere Dott. TRICOMI IRENE;

udito l’Avvocato FRANCESCO PAOLO SALINAS;

udito l’Avvocato FULVIO ROMEO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n. 1870 del 2014, depositata il 29 ottobre 2014, accoglieva l’impugnazione proposta dall’Azienda sanitaria provinciale di Palermo, nei confronti di G.M. e, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Palermo n. 5049 del 2012, rigettava le domande formulate nei confronti dell’Azienda sanitaria da G.M..

2. Il Tribunale aveva accolto la domanda proposta da quest’ultimo – medico inquadrato a tempo indeterminato nel ruolo sanitario del S.S.N. dei Medici della medicina dei servizi di cui al D.A. n. 6410 del 13 ottobre 2005, in servizio presso l’Azienda sanitaria provinciale n. (OMISSIS) di Palermo – e aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare)irrogato al ricorrente perchè riconosciuto responsabile di condotte (specificatamente la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio) tali da ledere irreversibilmente il preesistente vincolo fiduciario.

3. La Corte d’Appello tra premesso che il giudice di primo grado aveva ritenuto violato il principio del ne bis in idem sostanziale rilevando che i medesimi fatti giustificativi dell’atto di recesso, già noti (sin dall’autunno 2004) alla parte datoriale nella loro complessità e gravità, non avevano impedito all’Azienda di assumere il G., con decorrenza dal 7 novembre 2006, con contratto a tempo determinato (recte: indeterminato).

La Corte d’Appello, nell’accogliere l’impugnazione dell’Azienda sanitaria, ha escluso l’identità fattuale e contenutistica fra i procedimenti disciplinari, con conseguente mancanza della violazione del principio del ne bis in idem, e ha ritenuto la legittimità dell’atto di recesso anche sotto il profilo della sussistenza della competenza dell’organo che Io aveva adottato.

4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre G.M. prospettando sei motivi di ricorso.

5. Resiste l’Azienda sanitaria provinciale di Palermo con controricorso assistito da memoria, depositata in prossimità dell’udienza pubblica.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Occorre premettere che al ricorrente, con nota della AUSL (poi ASL) n. 16223 del 2 dicembre 2004, mentre era in atto un rapporto in convenzione ex D.P.R. n. 270 del 2000, prima della stipula del contratto di lavoro a tempo indeterminato intervenuto nel 2006, venivano contestate, in sede disciplinare, le infrazioni già oggetto dell’ordinanza di rinvio a giudizio n. 5011/2003 RGIP, emessa il 2 novembre 2004, e in esito al suddetto procedimento disciplinare veniva applicata la sanzione della sospensione dal rapporto di lavoro in atto per mesi tre in particolare per gravi infrazioni anche finalizzate all’acquisizione di vantaggi personali, giusto il D.P.R. n. 270 del 2000, art. 16, comma 2, lett. d), (pag. 2 del ricorso, pag. 11 del controricorso). Nè è contestato che dopo l’assunzione a tempo indeterminato del 2006 intervenivano una serie di sospensioni cautelari (si v. pag. 3 del ricorso e pagg. 4 e 5 del controricorso).

Con nota del 27 gennaio 2009, quando tra le parti si era costituito un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in ragione della pronuncia della sentenza penale di condanna n. 178/08 a nove mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 318 c.p.c. (pena sospesa), come riqualificati i fatti, al G. veniva effettuata contestazione disciplinare.

La Corte d’Appello, con sentenza del 23 gennaio 2010 dichiarava non luogo a procedere per sopravvenuta prescrizione del reato ascrittogli.

La Corte di cassazione con decisione del 22 febbraio 2011, dichiarava inammissibile il relativo ricorso.

Veniva, quindi, riattivato il procedimento disciplinare in precedenza sospeso e veniva irrogata all’esito la sanzione del licenziamento in data 17 maggio 2011.

2. Riepilogati in sintesi i fatti di causa può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.

3. Con il primo motivo di ricorso è prospettata la violazione e falsa applicazione del principio del ne bis in idem. Error in iudicando per via della motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La Corte d’Appello non considerava che la sanzione della sospensione del servizio per tre mesi, concludeva il procedimento disciplinare iniziato a carico del G. nel 2004.

Pertanto, sugli stessi fatti si sarebbero svolti due procedimenti disciplinari il secondo concluso con l’irrogazione del licenziamento – non giustificandosi l’inizio di quest’ultimo in ragione dell’intervento di accertamenti penali definitivi.

Secondo il diritto vivente, assume il ricorrente, sussiste l’ipotesi preclusiva del ne bis in idem nella misura in cui gli addebiti risultano connotati dalla totale coincidenza dei soggetti, delle condotte, dell’oggetto materiale dell’addebito, nonchè delle condizioni di tempo e di luogo dell’accadimento. Tali principi sarebbero stati violati dalla Corte d’Appello atteso che le circostanze di causa ponevano in evidenza l’identità del fatto posto alla base dei due procedimenti disciplinari, evidenziando che gli addebiti risultavano connotati dalla totale coincidenza dei soggetti, della condotta, della completa identità dei fatti nella loro portata materiale, nonchè della condizione di tempo e luogo dell’accadimento.

Quanto affermato dal giudice di secondo grado, e cioè che al momento del primo procedimento il G. aveva solo un incarico di collaborazione, e che il secondo procedimento disciplinare era stato adottato solo quando l’accertamento dei fatti non poteva più essere sovvertito, non costituivano ragioni adeguate a giustificare la decisione, essendo irrilevanti ai fini dell’identità del fatto.

3.1. Il motivo non è fondato.

Come ricorda il ricorrente, questa Corte ha più volte affermato, con riguardo al procedimento disciplinare, che deve essere osservato il principio del ne bis in idem, atteso che il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato (Cass., n. 7523 del 2009), in linea con quanto affermato dalla Corte EDU, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri contro Italia, che ha sancito la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto, del principio del divieto di “ne bis in idem” (Cass., n. 22388 del 2014).

Tali principi, tuttavia non possono trovare applicazione nella fattispecie in esame, in cui la rilevanza disciplinare dei fatti oggetto dello stesso procedimento penale (come emergenti dalla richiesta di rinvio a giudizio con riguardo alla sanzione disciplinare della sospensione, come accertati con la sentenza di condanna definitiva con riguardo al licenziamento) interveniva rispetto a distinti rapporti di lavoro intercorsi tra il G. e l’AUSL/ASL, il primo in convenzione (incarico di collaborazione quale medico della Medicina dei servizi), il secondo a tempo indeterminato, quale dirigente, come evidenziato dalla Corte d’Appello, nell’escludere l’identità fattuale e contenutistica dei procedimenti disciplinari, e non specificamente censurato.

Tale dato è posto in rilievo in modo congruo e corretto nella motivazione della Corte d’Appello (pagg. 3 e 4 della sentenza), nella quale le fasi del procedimento penale, le sospensioni dal servizio e il rilievo attribuito alla definitività dell’accertamento, sono vagliati rispetto ai distinti rapporti di lavoro intercorsi con il G. e l’AUSL/ASL, ponendosi in evidenza come “alla data di adozione dell’iniziale provvedimento di sospensione (datato 11 marzo 2004), reso a seguito della sottoposizione del G. alla misura della custodia cautelare in carcere (ordinanza del G.I.P. del 13 febbraio 2004) questi era legato all’azienda da un incarico di collaborazione, quale medico della medicina dei servizi, figura professionale evidentemente diversa (…) da quella di dirigente a tempo indeterminato acquisita con decorrenza dal 1 agosto 2006”, e come, quando il G. “era risultato destinatario di un ulteriore provvedimento di sospensione dal servizio (delibera 15 febbraio 2007) egli era ormai assunto dall’Azienda, cosicchè quest’ultima agiva con la veste di formale titolare di un rapporto lavorativo sostanzialmente destinato a proseguire sino all’eventuale collocamento in quiescenza del lavoratore e non quale beneficiaria di un rapporto di collaborazione a termine”.

4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto il vizio di omesso esame dell’eccezione di inammissibilità dell’appello, ex art. 434 c.p.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c. e dell’art. 112 c.p.c., nonchè dell’art. 2909 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 4.

Prospetta il ricorrente che l’appellante si era limitato a reiterare le difese prospettate in primo grado e non aveva censurato la statuizione relativa alla violazione del principio del ne bis in idem.

4.1. Il motivo non è fondato.

La censura del ricorrente non considera la complessità della motivazione della sentenza di appello che, espressamente, richiama il theme decidendum sottoposto al proprio vaglio costituito dalla violazione del principio del ne bis in idem, nella rispettiva prospettazione delle parti: il G. eccepiva che i medesimi fatti contestati al lavoratore all’alba del procedimento che aveva condotto al licenziamento erano già stati oggetto di accertamento nei pregressi procedimenti disciplinari conclusisi con l’adozione di misure conservative del rapporto di lavoro; l’Azienda censurava la statuizione secondo la quale sarebbe stata interdetta al datore di lavoro la facoltà di addurre a fondamento della lesione del vincolo fiduciario fatti che erano noti al momento dell’assunzione e che semmai, avrebbero dovuto indurlo a rifiutare l’instaurazione del rapporto.

Il tema del ne bis in idem, quindi, veniva introdotto nel giudizio di appello da entrambe le parti, e segnatamente dall’appellante, nei diversi profili che lo stesso presentava, con riguardo alla fattispecie in esame, in ragione delle statuizioni della sentenza di primo grado.

L’odierno ricorrente, invece, non si confronta con il richiamato significativo passaggio motivazionale della sentenza di appello, e in modo generico assume la violazione della previsione dell’art. 434 c.p.c..

5. Con il terzo motivo di ricorso è prospettato l’omesso esame di un fatto decisivo, apparente ed insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5).

La censura verte sulla motivazione relativa all’eccezione riproposta in appello di nullità della contestazione del 27 gennaio 2009 per la genericità della stessa, e per la mancanza di specifici comportamenti e fatti materiali, ritenuti illeciti, addebitabili. In merito a detta eccezione la Corte d’Appello affermava che la stessa era irrilevante in quanto la materia del contendere doveva ritenersi circoscritta all’accertamento della sola legittimità dell’atto risolutivo del vincolo contrattuale, risultando assorbita da tale problematica ogni questione relativa alla validità dei pregressi procedimenti disciplinari conclusasi con sanzioni conservative.

Deduce il G. che in tal modo il giudice di secondo grado non considerava che un vizio della contestazione avrebbe potuto determinare la nullità del licenziamento.

5.1. Il motivo è inammissibile in quanto la doglianza fonda su un’eccezione riportata in ricorso come sopra, senza che la stessa sia resa intellegibile con il richiamo del contenuto della contestazione e delle argomentazioni che la sostenevano, operandosi un mero generico rinvio agli atti del giudizio, in violazione del principio di autosufficienza.

6. Con il quarto motivo di ricorso la sentenza di appello è censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cc, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Apparente motivazione, sua illogicità e sua non conformità alla giurisprudenza di legittimità, nell’assenza mutamento della stessa.

Il motivo censura la statuizione relativa violazione del ne bis in idem, sia alla ritenuta sussistenza della giusta causa e della proporzionalità della sanzione.

Ricorda il ricorrente di avere invocato la giurisprudenza secondo cui la sentenza penale di non doversi procedere perchè il reato è estinto per prescrizione non ha efficacia extrapenale, con la conseguenza che il giudice civile deve autonomamente valutare i fatti in contestazione. A tale principio non si sarebbe attenuta la Corte d’Appello che non avrebbe motivato su come i fatti accertati in sede penale avevano rilevanza in sede disciplinare.

La Corte d’Appello aveva valorizzato il parere espresso dal Comitato dei Garanti al fine di dimostrare la correttezza dell’operato dell’Azienda, senza considerare che lo stesso veniva adottato in forza di una sorta di automatismo, come conseguenza della sentenza penale. Inoltre l’utilizzazione del lavoratore pur nella conoscenza dei fatti, a seguito della scarcerazione, per tre anni, dimostrava che la fiducia nello stesso non si era incrinata.

6.1. Il motivo non è fondato.

La Corte d’Appello con articolata motivazione ha valutato la legittimità dell’atto di recesso esaminando, in particolare il motivo di appello relativo alla mancanza di autonomo apprezzamento della rilevanza disciplinare dei fatti accertati in sede penale.

La Corte d’Appello ha dato atto che, con il verbale del (OMISSIS), il Comitato dei Garanti, richiamato ed allegato alla lettera di licenziamento, (Aut. affermava che l’estinzione del reato per prescrizione e la conseguente dichiarazione di improcedibilità pronunciata dalla Corte d’Appello non impediva la valutazione dei fatti accertati in sede dibattimentale, specie, se aveva impedito l’assoluzione con formula liberatoria. Si affermava, inoltre: “E’ stato, infatti, accertato che il G., in qualità di funzionario medico del distretto di Bagheria, dotato di potestà certificativa, esercente quindi una pubblica funzione, rilasciava pur non visitando gli ammalati, prescrizioni mediche attestanti la necessità della prosecuzione delle cure radioterapiche per pazienti clienti delle cliniche dell’Aiello, certificazioni utilizzate per replicare richieste illecite di liquidazione all’ASL (OMISSIS)…. E’ stato accertato inoltre che per dette certificazioni il G. ha avuto effettuati lavori di rifacimento e ristrutturazione della sua abitazione di villeggiatura per un importo di L. 20.000.000 per i quali non ha fornito prova dei pagamenti… Considerata quindi compiutamente accertata la materialità dei fatti, analiticamente descritta e accertata nelle predette sentenze, deve ritenersi che il comportamento del Dott. G., penalmente rilevante è stato di gravità tale da integrare gli estremi per l’applicazione del CCNL n. 1994 del 2007, art. 36 e non consentire per giusta causa la prosecuzione del rapporto di lavoro e quindi il recesso per giusta causa”.

Il giudice di secondo grado, quindi, rilevava che in primo luogo l’Azienda aveva effettuato una propria valutazione dei fatti oggetto del processo penale, e quindi, a propria volta affermava che sussisteva la giusta causa di recesso, atteso che il disvalore morale della condotta del lavoratore emergeva in tutto il suo rilievo dalla lettura di alcuni passaggi delle motivazioni delle sentenze penali dalle quali si evinceva una ripetuta violazione di quelle regole di onestà e rigore che dovrebbero costantemente orientare il quotidiano lavoro di coloro che operano alle dipendenze di un ente deputato a gestire pubblico denaro in un settore di così rilevante impatto economico e sociale come quello sanitario.

Il Giudice di appello, quindi, ha sottoposto gli elementi risultanti dal giudizio penale, nonchè la valutazione degli stessi da parte dell’Azienda al proprio vaglio critico, valutandone la loro rilevanza al fine della negazione del vincolo di fiducia che connota il rapporto di lavoro. Ne consegue che la Corte d’Appello di Palermo si è conformata al pertinente orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in base al quale il giudice civile, può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile (v., ex multis, Cass. n. 2168 del 2013).

7. Con il quinto motivo di ricorso è prospettato il vizio di omessa e comunque apparente motivazione su un punto decisivo. Violazione e falsa applicazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La censura verte sulla statuizione relativa all’ eccezione, dedotta nella memoria di costituzione in appello, di nullità o comunque invalidità del licenziamento per inosservanza da parte dell’Azienda della comunicazione della sospensione del procedimento disciplinare iniziato il 27 gennaio 2009, necessaria al fine di verificare se in concreto fosse stata o meno rispettato il termine perentorio della conclusione del procedimento disciplinare. La Corte d’Appello riteneva detta eccezione inammissibile, in particolare perchè non formulata nel precedente grado di giudizio, nonchè irrilevante.

7.1. Il motivo non è fondato.

Ed infatti, il richiamo alla deduzione già svolta in primo grado, come prospettato nel motivo in esame, “sull’inopinato procedimento disciplinare che ci occupa calava un silenzio sordo nel senso che non veniva comunicato al ricorrente nè il suo esito, nè le eventuali determinazioni”, per la genericità di quest’ultima, non censura in modo adeguata la motivazione della Corte di appello che riteneva non proposta nel precedente grado di giudizio l’eccezione di nullità. Nè, oggi la censura è svolta con riferimento ai termini che sarebbero stati violati, ai fini di apprezzare la rilevanza della stessa.

Quanto alla rilevabilità d’ufficio di detta eccezione, la stessa deve esser esclusa in ragione dell’oggetto, ricordandosi, altresì, che le eccezioni in senso lato sono rilevabili d’ufficio o proponibili dalla parte interessata anche in appello, ove i fatti sui quali si fondano, sebbene non precedentemente allegati dalla stessa parte, emergano dagli atti di causa, e che tale circostanza nella specie non risulta argomentata, così come la dedotta sussistenza della rilevanza risulta generica in mancanza di un’adeguato relativo richiamo alla scansione temporale/procedi mentale.

8. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, (art. 360 c.p.c., n. 3). Il ricorrente deduce che la sanzione del licenziamento veniva irrogata dal Direttore generale dell’Azienda e non dal Direttore del Dipartimento gestione delle risorse umane, organo competente in merito. La Corte d’Appello aveva ravvisato nel Direttore generale l’organo di vertice dell’organizzazione gestionale della struttura sanitaria stessa e non un mero referente politico. Ad avviso del ricorrente, la gestione delle risorse umane non rientrava tra i compiti dello stesso, essendo attribuite ai dirigenti, come si rilevava dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, le cui disposizioni costituiscono principi fondamentali, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione.

8.1. Il motivo non è fondato.

Nella specie ha rilievo la specifica disciplina dettata dall’art. 55 del D.Lgs. n. 165 del 2001, in relazione all’art. 55-bis, del medesimo D.Lgs..

Questa Corte ha affermato (cfr., Cass., n. 27128 del 2013, n. 14628 del 2010, n. 2168 del 2004) che nel pubblico impiego contrattualizzato, trova applicazione anche con riferimento alla dirigenza sanitaria il principio di cui al D.Lgs. 165 del 2001, art. 55, secondo il quale tutte le fasi del procedimento disciplinare sono svolte esclusivamente dall’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, il quale è anche l’organo competente all’irrogazione delle sanzioni disciplinari, ad eccezione del rimprovero verbale e della censura.

Nella specie, come riportato dalla Corte d’Appello, l’adozione del provvedimento espulsivo veniva effettuata dall’UPD per la dirigenza medica e veterinaria (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 e art. 55 – bis, comma 4). Ed infatti, nel verbale del 5 aprile 2011 dell’UPD che precedeva la comunicazione del recesso, si leggeva, tra l’altro, “I gravi fatti accertati e commessi dal dr. G.M. e specificatamente la corruzione per atto d’ufficio determinano infatti la sostanziale perdita di fiducia nei confronti del dr. G. da parte dell’Azienda che giustifica il recesso ex art. 2119 c.p.c.”, dovendo quindi ricondursi all’UPD l’adozione del provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro per giusta causa, comunicato con nota del Direttore generale in data 17 maggio 2011, in conformità a quanto previsto dalla disciplina regolatrice della fattispecie.

9. Il ricorso deve essere rigettato.

10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto, per il ricorso principale, a norma dell’art. 13, comma 1 – bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro cento per esborsi, Euro quattromila per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto, per il ricorso principale, a norma dell’art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 7 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2016

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