Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20428 del 16/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 16/07/2021, (ud. 06/07/2021, dep. 16/07/2021), n.20428

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11153/2015 R.G. proposto da:

BARI SUN SRL, rappresentata e difesa dall’avv. Angela Liliana

Lagreca, elettivamente domiciliata in Roma, via Francesco Siacci, n.

4, presso lo studio dell’avv. Monica Peronace;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SUD SPA (già Equitalia E.TR. SPA), rappresentata e difesa

dall’avv. Emmanuele Virgintino, elettivamente domiciliata in Roma,

via Federico Confalonieri, n. 1, presso lo studio dell’avv. Carlo

Cipriani;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Puglia, sezione n. 05, n. 2128/05/14, pronunciata il 17/06/2013,

depositata il 27/10/2014;

Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 06 luglio

2021 dal Consigliere Guida Riccardo.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Commissione tributaria regionale (“C.T.R.”) della Lazio ha accolto, con la sentenza menzionata in epigrafe, l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate nei confronti della Bari Sun S.r.l. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale (“C.T.P.”) di Bari che, nel contraddittorio dell’ufficio e del concessionario della riscossione, aveva annullato, per un vizio di notifica, la cartella di pagamento che recuperava a tassazione, per il 2007, un credito d’imposta per investimenti (L. n. 282 del 2002 ex art. 62), indebitamente compensato (nel 2007), oltre il secondo anno successivo a quello di presentazione dell’istanza, risalente al 2004;

2. la C.T.R., dopo avere riconosciuto la regolarità della notifica della cartella e l’irrilevanza dell’assenza della firma del medesimo atto, per quanto ancora rileva, ha disatteso i motivi d’impugnazione dedotti nel ricorso introduttivo della società, sulla base di tali considerazione: (i) in replica alla censura relativa al mancato invio della comunicazione d’irregolarità, l’Amministrazione finanziaria (“A.F.”) aveva prodotto l’atto propedeutico” alla cartella, regolarmente ricevuto dalla contribuente; (ii) quanto all’asserita impossibilità di verifica del computo degli interessi, questi ultimi erano indicati con chiarezza nella cartella e del resto in caso di dubbio la società avrebbe potuto chiedere i necessari chiarimenti all’ufficio; (iii) la pretesa tributaria era fondata nel merito, visto che la cartella faceva riferimento al credito d’imposta maturato dalla contribuente ai sensi della L. n. 289 del 1992, art. 62, comma 1, lett. c), che doveva essere utilizzato entro il secondo anno successivo a quello nel quale era stata presentata l’istanza del 2004, ossia nel 2005 e nel 2006, e non anche nel 2007, annualità in cui la società aveva proceduto all’irregolare compensazione;

3. la contribuente ricorre, con quattro motivi, per la cassazione della sentenza di appello; l’Agenzia delle entrate e il concessionario della riscossione resistono con distinti controricorsi.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo di ricorso (“Violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10 comma 1, e dell’art. 329 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – Inammissibilità della sentenza per aver ritenuto ammissibile l’appello dell’Agenzia delle entrate”), la contribuente censura la sentenza impugnata che ha implicitamente ravvisato la sussistenza dell’interesse dell’Agenzia delle entrate ad appellare la sentenza della C.T.P., senza considerare che l’A.F. non era soccombente in primo grado, visto che la cartella era stata annullata per un vizio proprio, cioè a causa dell’accertata inesistenza della notificazione;

1.1. il motivo è infondato;

si evince dalla narrativa della sentenza impugnata (vedi pag. 4) che, nelle controdeduzioni depositate in appello, la società aveva eccepito l’inammissibilità del primo motivo di gravame dell’Agenzia delle entrate, in relazione all’inesistenza della notificazione della cartella, sul rilievo che, rispetto a tale questione, soltanto il concessionario della riscossione era legittimato a impugnare la sentenza di primo grado. In questa sede di legittimità, poi, la contribuente ascrive alla C.T.R. di non avere dichiarato il difetto di interesse (ex art. 100 c.p.c.) dell’A.F. a impugnare la sentenza di primo grado. A giudizio di questa Corte, invece, l’implicito rigetto della questione processuale, da parte della C.T.R., è conforme a diritto. Infatti, l’impugnazione della cartella per un vizio di notifica e per l’insussistenza del credito tributario era stata ritualmente proposta sia nei confronti del concessionario della riscossione, sia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, titolare della pretesa tributaria, quali litisconsorti processuali. Tali essendo le parti del giudizio di primo grado, non si può fondatamente dubitare che l’Agenzia delle entrate, in quanto soccombente, avesse interesse a proporre appello avverso la sentenza di primo grado che, nell’annullare la cartella, sia pure per un vizio di notifica, aveva conseguentemente disconosciuto il credito erariale. Del tutto coerente con questi principi processuali, pertanto, è la decisione della C.T.R. che, là dove ha risolto il merito della lite fiscale, ha implicitamente riconosciuto l’interesse dell’Agenzia delle entrate ad impugnare la sentenza di primo grado che, giova ripeterlo, ne aveva dichiarato la soccombenza;

2. con il secondo motivo (“Violazione e falsa applicazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, commi 1 e 3, e della L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Assoluta mancanza di motivazione della cartella”), la contribuente censura la sentenza impugnata per avere erroneamente negato la nullità della cartella per difetto assoluto di motivazione, senza considerare che, soltanto nell’atto di costituzione in giudizio, in primo grado, l’ufficio aveva spiegato le ragioni del diniego del credito d’imposta;

2.1. il motivo è infondato;

contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, la C.T.R., con un accertamento di fatto non attinto da specifica doglianza, ha stabilito che l’ufficio, prima di procedere all’iscrizione a ruolo della pretesa fiscale da cui è scaturita l’impugnata cartella, aveva regolarmente comunicato alla contribuente la violazione risultante dal controllo formale della dichiarazione per il 2007;

3. con il terzo motivo (“Violazione e falsa applicazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”), la contribuente censura la sentenza impugnata per non avere rilevato che, ai fini del recupero del credito d’imposta, l’ufficio non poteva ricorrere alla procedura di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, dovendo a tal fine procedere, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421, alla notifica di un avviso di recupero motivato;

3.1. il motivo è inammissibile;

una simile doglianza, non menzionata dalla sentenza d’appello, non risulta essere stata formulata, nei termini sopra enunciati, nei gradi di merito. Come si evince dall’autosufficiente motivo di ricorso, infatti, la contribuente, avanti alle Commissioni tributarie, si era limitata a negare che il credito fiscale, portato in compensazione nel 2007, potesse essere recuperato con la procedura dell’art. 36-bis, senza tuttavia fare alcun riferimento alla necessità che la contestazione le fosse mossa con apposito avviso di recupero motivato, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421. Al riguardo, è il caso di ribadire la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il contribuente, per evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (Cass. 25/02/2021, n. 5155, in continuità con Cass. n. 17831 del 2016, n. 23766 e n. 1435 del 2013, n. 17253 del 2009; nello stesso senso, Cass. 16/06/2017, n. 15029; 31/01/2006, n. 2140);

4. con il quarto motivo (“Violazione e falsa applicazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, commi 1 e 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e omesso esame circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, circa la mancata indicazione delle modalità di determinazione degli interessi”), la contribuente, da un lato, censura la sentenza impugnata che ha omesso di rilevare che la cartella era nulla per la (vedi pag. 14 del ricorso per cassazione) “mancata motivazione degli interessi e della relativa determinazione”; dall’altro, con riferimento al parametro dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ascrive alla C.T.R. di non avere esaminato la cartella e di avere stabilito sic et simpliciter che essa recava la determinazione del calcolo degli interessi;

4.1. il motivo è inammissibile;

il giudizio di cassazione è a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità e esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; nella specie, il complesso motivo del ricorso, sussunto, contemporaneamente, nei diversi paradigmi della violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), e dell’omesso esame di un fatto (e non di un “punto”, com’e’ scritto nella rubrica del motivo) decisivo per il giudizio (ibidem n. 5), contiene – in sostanza – una critica del tutto generica. In particolare, posto che la cartella (riprodotta nel testo del ricorso per cassazione) menziona l’entità degli interessi di mora (Euro 4.524,37) che, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 30, sono stati applicati a partire dalla data della sua notifica e fino alla data del pagamento, al tasso determinato con apposito decreto del Ministero delle finanze, a dimostrazione della genericità della critica, è il caso di rilevare che la società nemmeno indica quale sarebbe stata, secondo i suoi calcoli, l’esatto importo dovuto a titolo di interessi di mora;

5. le spese del giudizio di legittimità sono regolate in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il primo e il secondo motivo di ricorso, dichiara inammissibili il terzo e il quarto motivo, condanna la contribuente a corrispondere le spese del giudizio di legittimità all’Agenzia delle entrate, liquidandole in Euro 5.600,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito, nonché al concessionario della riscossione, liquidandole in Euro 5.600,00, a titolo di compenso, Euro 200,00, per esborsi, oltre al 15% sul compenso, a titolo di rimborso forferario delle spese generali, e oltre agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2021

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