Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20427 del 29/07/2019

Cassazione civile sez. VI, 29/07/2019, (ud. 28/03/2019, dep. 29/07/2019), n.20427

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Mario – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24571-2017 proposto da:

P.M., S.S., R.P., C.V.,

SA.RA., SP.CA., SA.MI., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio

dell’avvocato CARLO CARBONE, rappresentati e difesi dall’avvocato

DONATELLA MONTANARI;

– ricorrenti –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (OMISSIS), in persona del

Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, MINISTERO

DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, MINISTERO DELLA

SALUTE, MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, MINISTERO

DELL’INTERNO, in persona dei Ministri pro tempore, elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1370/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 01/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 28/03/2019 dal Consigliere Relatore Dott. CIRILLO

FRANCESCO MARIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. I dottori S.S., C.V., Sp.Ca., P.M., Sa.Mi., Sa.Ra. e R.P. convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’università, il Ministero dell’economia e finanze e il Ministero della salute, chiedendo che fosse dichiarato il loro diritto a percepire un’adeguata remunerazione in relazione ai periodi di specializzazione da loro seguiti in anni accademici successivi al 1991-1992 e precedenti l’anno accademico 2006-2007.

A sostegno della domanda esposero di avere diritto a percepire l’aggiornamento degli emolumenti di cui al D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6. Aggiunsero che il legislatore nazionale aveva stabilito, con il D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368 – di recepimento, tra l’altro, della direttiva 93/16/CE – un incremento del compenso in favore dei medici specializzandi, incremento che aveva avuto effettiva attuazione, però, solo con la L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 300, con decorrenza dall’anno accademico 2006-2007. Conclusero, pertanto, nel senso che tale aggiornamento doveva essere loro riconosciuto, essendosi svolto il periodo di specializzazione in epoca antecedente l’anno accademico 2006-2007. Si costituirono in giudizio tutte le amministrazioni convenute, eccependo il difetto di legittimazione passiva, la prescrizione del diritto e chiedendo nel merito il rigetto della domanda.

Il Tribunale rigettò la domanda e compensò le spese.

2. Impugnata la pronuncia dagli attori soccombenti, la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 1 marzo 2017, ha rigettato il gravame ed ha compensato anche le spese del giudizio di secondo grado.

La Corte territoriale ha osservato che il recepimento delle direttive dell’Unione Europea in materia di medici specializzandi era da ritenere compiuto già con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, per cui era infondata la tesi degli appellanti secondo cui solo a partire dall’anno accademico 2006-2007 vi era stata un’effettiva attuazione della direttiva 93/16/CE.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma propongono ricorso il Dott. S.S. e gli altri medici indicati in epigrafe, con unico atto affidato a due motivi.

Resistono le amministrazioni di cui in epigrafe con un unico controricorso.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375,376 e 380-bis c.p.c., e non sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6, del D.Lgs. n. 368 del 1999, artt. 37, 39, 41 e 46, nonchè degli artt. 10 e 249 del Trattato istitutivo della Comunità Europea, oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

2. Il motivo non è fondato.

2.1. Con la sentenza 28 giugno 2018, n. 17051 (e numerose altre confotini, tra cui l’ordinanza 27 febbraio 2019, n. 5698) questa Corte ha affrontato un caso identico a quello in esame, pervenendo a conclusioni alle quali la pronuncia odierna intende dare piena e convinta continuità. Tali conclusioni, peraltro, sono in linea con un orientamento già assunto dalla Sezione Lavoro di questa Corte (v., tra le altre, le sentenze 16 gennaio 2014, n. 794, 4 giugno 2014, n. 15362, e, più di recente, la sentenza 23 febbraio 2018, n. 4449) e dalla Sesta Sezione Civile.

2.2. Giova ricordare alcuni fondamentali passaggi normativi.

Con il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6, il legislatore italiano, dando attuazione, sia pure tardivamente, al disposto della direttiva n. 82/76/CEE del Consiglio, stabilì in favore dei medici ammessi alle scuole di specializzazione una borsa di studio determinata per l’anno 1991 nella somma di lire 21.500.000. Tale somma era destinata ad un incremento annuale, a decorrere dal 1 gennaio 1992, sulla base del tasso programmato di inflazione, incremento fissato ogni triennio con decreto interministeriale. Il meccanismo di adeguamento venne peraltro bloccato successivamente, con effetto retroattivo, dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, passata indenne al vaglio della Corte costituzionale (sentenza n. 432 del 1997), e da altre leggi successive (v. sul punto, ampiamente, la citata sentenza n. 4449 del 2018).

In seguito, dando attuazione alla direttiva n. 93/16/CE, il legislatore nazionale intervenne sulla materia con il D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368, che raccolse in un testo unico le precedenti direttive n. 75/362 e n. 75/363 CEE, con le relative successive modificazioni. Tale decreto – in seguito ampiamente modificato dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1,comma 300 – riorganizzò l’ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, istituendo e disciplinando un vero e proprio contratto di formazione (inizialmente denominato “contratto di formazione-lavoro” e poi “contratto di formazione-specialistica”, del citato D.Lgs. art. 37), da stipulare e rinnovare annualmente tra Università (e Regioni) e medici specializzandi, con un meccanismo di retribuzione articolato in una quota fissa ed in una quota variabile, in concreto periodicamente determinate da successivi decreti ministeriali (citato D.Lgs., art. 39). Questo contratto, peraltro, come la Sezione Lavoro di questa Corte ha ribadito in plurime occasioni, non dà luogo ad un rapporto inquadrabile nell’ambito del lavoro subordinato, nè è riconducibile alle ipotesi di parasubordinazione, non essendo ravvisabile una relazione sinallagmatica di scambio tra l’attività degli specializzandi e gli emolumenti previsti dalla legge, restando conseguentemente inapplicabili l’art. 36 Cost. ed il principio di adeguatezza della retribuzione ivi contenuto (v. in tal senso, da ultimo, l’ordinanza 27 luglio 2017, n. 18670, sulla scia di un consolidato orientamento, richiamata dall’ordinanza 14 marzo 2018, n. 6355).

In realtà, però, il nuovo meccanismo retributivo di cui al D.Lgs. n. 368 del 1999 divenne operativo solo a decorrere dall’anno accademico 2006-2007 (citato D.Lgs. n. 368 del 1999, art. 46, comma 2, Dnel testo risultante dalle modifiche introdotte prima dal D.Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517, art. 8, e poi dal già citata L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 300); mentre le disposizioni del D.Lgs. n. 257 del 1991 rimasero applicabili fino all’anno accademico 2005-2006. Il trattamento economico spettante ai medici specializzandi in base al contratto di formazione specialistica fu poi in concreto fissato con i d.P.C.m. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007.

2.3. Compiuta questa breve premessa normativa, il cuore della questione sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire 1) se la direttiva n. 93/16/CE abbia avuto o meno una portata innovativa rispetto a quanto stabilito dalle precedenti direttive n. 75/362/CEE, n. 75/363/CEE e n. 82/76/CEE; 2) se il concetto di retribuzione adeguata sia mutato nel passaggio dalle precedenti alla più recente direttiva; 3) se e quando lo Stato italiano abbia adempiuto all’obbligo di garantire ai medici specializzandi una retribuzione adeguata.

Le pronunce di questa Corte in precedenza richiamate hanno già risposto a tali domande nei termini che la decisione odierna intende ulteriormente confetniare.

Ed invero la direttiva n. 93/16/CE, come risulta dalla sua stessa fotinulazione (si veda, in proposito, il primo Considerando), non ha una portata innovativa, prefiggendosi soltanto l’obiettivo, “per motivi di razionalità e per maggiore chiarezza”, di procedere alla codificazione delle tre suindicate direttive “riunendole in un testo unico”; il che risulta ancor più evidente per il fatto che la direttiva in questione lascia “impregiudicati gli obblighi degli Stati membri relativi ai termini per il recepimento delle direttive” di cui all’allegato III, parte B (così l’ultimo dei Considerando).

E’ opportuno ricordare, del resto, che il termine “adeguata rimunerazione” compare per la prima volta nell’Allegato alla direttiva n. 82/76/CEE e si ritrova, senza alcuna modificazione, nell’Allegato I alla direttiva n. 93/16/CE, per cui è dalla scadenza del tettnine di adempimento della direttiva del 1982 che l’esigenza di tale adeguatezza divenne regola di obbligatorio recepimento nel diritto interno. Tuttavia – e questo è il punto fondamentale che gli odierni ricorrenti non hanno colto – lo Stato italiano aveva adempiuto al proprio obbligo di fissazione di una adeguata rimunerazione già con il D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6; la normativa dell’Unione Europea, infatti, non contiene, nè potrebbe essere diversamente, alcuna definizione di quale sia la rimunerazione adeguata, la cui soglia deve essere fissata dagli Stati membri nell’esercizio della propria discrezionalità, la quale trova un inevitabile limite anche nelle esigenze di contenimento della spesa pubblica.

Come ha efficacemente spiegato la sentenza n. 4449 del 2018 della Sezione Lavoro, il legislatore, “nel disporre il differimento dell’applicazione delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 368 del 1999, artt. da 37 a 42 e la sostanziale conferma del contenuto del D.Lgs. n. 257 del 1991, ha esercitato legittimamente la sua potestà legislativa (Cass. 15362/2014), non essendo vincolato a disciplinare il rapporto dei medici specializzandi secondo un particolare schema giuridico nè ad attribuire una remunerazione di ammontare preindicato (cfr. punti nn. 23 e 24 di questa sentenza). Nè vale argomentare che lo stesso legislatore italiano, intervenendo in materia, ha modificato la legislazione del 1991 con l’introduzione di una nuova notniativa nel 1999 incentrata sullo schema della formazione-lavoro; anche ammettendo che il nuovo sistema sia più congeniale a disciplinare la specifica condizione dei medici specializzandi, non può desumersi dalla sola successione di leggi diverse che la precedente disciplina non fosse idonea in ordine al recepimento delle direttive ed a dare effettiva tutela al diritto ivi affermato dell’adeguata retribuzione”. In altri termini, in conformità all’ordinanza n. 6355 del 2018, va affermato che il “nuovo ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia introdotto con il D.Lgs. n. 368 del 1999 (a decorrere dall’anno accademico 2006/2007, in base alla L. n. 266 del 2005), e il relativo meccanismo di retribuzione, non possono pertanto ritenersi il primo atto di effettivo recepimento ed adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalle direttive comunitarie, in particolare per quanto riguarda la misura della remunerazione spettante ai medici specializzandi, ma costituiscono il frutto di una successiva scelta discrezionale del legislatore nazionale, non vincolata o condizionata dai suddetti obblighi”.

Ragione per cui l’inadempimento dell’Italia agli obblighi comunitari, sotto il profilo in esame, è cessato con l’emanazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, come del resto la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha già da tempo affermato (v. le sentenze 25 febbraio 1999 – causa C-131/97, Carbonari, e 3 ottobre 2000 – causa C-371/97, Gozza); e il D.Lgs. n. 368 del 1999 è intervenuto in un ambito di piena discrezionalità per il legislatore nazionale.

2.4. Alla luce di quanto detto fin qui, pare evidente che non c’è alcuno spazio per invocare ipotetiche violazioni del diritto dell’Unione Europea e che la causa promossa dagli odierni ricorrenti, come correttamente ha osservato l’Avvocatura di Stato, è finalizzata in realtà ad ottenere l’applicazione retroattiva del D.Lgs. n. 368 del 1999. Ne consegue che ogni questione non può che riguardare “esclusivamente l’ordinamento interno” (ordinanza n. 6355 del 2018). Ma, a prescindere dal fatto che nessuna doglianza risulta essere stata avanzata sotto tale profilo in sede di merito, osserva il Collegio che il differimento dell’entrata in vigore della normativa di cui al D.Lgs. n. 368 del 1999 -che è una normativa più favorevole – rientrava nella discrezionalità del legislatore, sicchè il farla scattare dal 2007 non solo non ha potuto determinare alcuna situazione di tardivo recepimento del diritto comunitario, ma nemmeno ha violato l’art. 3 Cost. sul versante della ragionevolezza, in quanto una normativa di favore e migliorativa rispetto ad una vigente può essere fatta entrare in vigore dal legislatore nazionale nel momento in cui, secondo la discrezionalità che gli appartiene, egli lo reputi opportuno.

Non si pone, perciò, alcuna questione di rinvio pregiudiziale e nemmeno alcuna questione di costituzionalità di diritto interno.

3. Il secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto una presunta omissione di pronuncia in ordine al difetto di legittimazione dei Ministeri chiamati in giudizio, rimane assorbito, siccome privo di rilevanza.

4. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

In considerazione della obiettiva complessità delle questioni affrontate e delle oscillazioni della giurisprudenza, la Corte ritiene equo compensare fra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Sussistono tuttavia le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile – 3, il 28 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2019

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