Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20420 del 05/10/2011

Cassazione civile sez. lav., 05/10/2011, (ud. 12/07/2011, dep. 05/10/2011), n.20420

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 8175/2010 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS) in persona del Presidente del

Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo

studio dell’avvocato FIORILLO Luigi, che la rappresenta e difende,

giusta procura speciale ad litem a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.P. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA L. MANTAGAZZA 24, presso il Dott. MARCO GARDIN, rappresentato e

difeso dall’avvocato PIRRELLI Antonio, giusta procura speciale in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1208/2009 della CORTE D’APPELLO di BARI del

10.3.09, depositata il 17/03/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/07/2011 dal Consigliere Relatore Dott. SAVERIO TOFFOLI;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. PIETRO

GAETA.

Fatto

MOTIVI

La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. a seguito di relazione ex art. 380-bis.

Il Tribunale di Bari rigettava la domanda proposta da C.P. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta alla declaratoria di illegittimità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 2.10.2000 al 31.1.2001, in forza di un contratto sottoscritto il 22.9.2000 ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l.

26.11.1994.

Il Tribunale riteneva infatti verificatasi una risoluzione tacita del rapporto. A seguito di appello del lavoratore, la Corte d’Appello di Bari, accoglieva l’impugnazione, dichiarando la nullità del termine finale apposto al contratto in questione, riconoscendo il diritto del lavoratore alla riammissione in servizio e condannando le Poste al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dal 5.6.2003, oltre accessori per il ritardo, detratto l’aliunde perceptum.

La società ha proposto ricorso con tre motivi. L’intimata resiste con controricorso e ha poi depositato memoria illustrativa.

Il ricorso appare qualificabile come manifestamente infondato.

Il primo motivo, deduce violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 8 c.c.n.l. 26.11.1994, dell’art. 1362 c.c., e segg.;

nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso.

Censura la sentenza perchè, non attenendosi alla domanda introduttiva, ha riformato la sentenza di primo grado sulla base di riferimenti in fatto e diritto totalmente errati. Lamenta infatti che la questione relativa alla limitata efficacia temporale dell’accordo del 25.9.1997 è entrata a far parte del contraddittorio solo nel giudizio di appello.

Il motivo presenta profili di inammissibilità per la formulazione dei conclusivi quesiti di diritto nei quali è carente la puntualizzazione della questione rispetto alle sue specificità. Esso è comunque manifestamente infondato, in quanto, come risulta dallo stesso tenore del trascritto ricorso introduttivo, il ricorrente aveva dedotto la nullità della clausola di contratto a termine del c.c.n.l. del 1998 facente riferimento alle “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti occupazionali in corso in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa della attivazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”, stante, tra l’altro la mancanza di delimitazione cronologiche ben precise. Causale dell’impugnativa era quindi la inidoneità a giustificare il contratto della norma contrattuale invocata dal datore di lavoro e già per questa ragione quindi rientrava nella materia del contendere la verifica della validità e dell’efficacia della medesima.

Il secondo motivo, deducendo violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 8 c.c.n.l. 26.11.1994, nonchè, in connessione con l’art. 1362 c.c., e segg., degli accordi sindacali 16.1.1998, 27.4.1998, 2.7.1998, 24.5.1999 e 18.1.2001, censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto illegittimamente apposto il termine ai contratti di lavoro e in particolare nella parte in cui ha ritenuto di individuare nella data del 30.4.1998 il preteso termine ultimo di validità ed efficacia temporale dell’accordo integrativo del 25.9.1997, sostenendo con vari argomenti che, in sostanza, se si analizza tanto l’accordo del 25.9.1997 quanto la disciplina collettiva posteriore alla sua stipula, facendo corretta applicazione dei criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c., e segg., è evidente che tali accordi hanno sempre avuto mera natura ricognitiva di una situazione contingente e non fissano alcun termine temporale.

La censura è integrata dal terzo motivo sotto il profilo del vizio di motivazione.

Tali motivi devono essere disattesi, in base all’indirizzo in materia, ormai consolidato, dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al c.c.n.l. del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001).

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063, v. anche Cass. 20.4.2006 n. 9245, Cass. 7.3.2005 n. 4862, Cass. 26.7.2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra le altre, Cass. 4.8.2008 n. 21062, Cass. 23.8.2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23.8.2006 n. 18383, Cass. 14.4.2005 n. 7745, Cass. 14.2.2004 n. 2866).

In particolare, quindi, nella specie, come questa Corte ha più volte affermato e come va enunciato anche in questa sede, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1.10.2007 n. 20608, Cass. 27.3.2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Tale interpretazione degli accordi attuativi (ed in specie dell’ultimo citato) è fondata sul significato letterale delle espressioni usate che è così evidente e univoco (“in conseguenza di ciò e per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30.4.98”) che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453), mentre, diversamente opinando – ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga – si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, fossero in sostanza “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Peraltro al riguardo irrilevante è l’accordo del 18 gennaio 2001, invocato dalla società, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga; ed infatti, ammesso che le parti stipulanti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), considerata la indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, deve comunque escludersi che le parti stesse avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel d.lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

Giustificatamente, quindi, in relazione all’epoca di stipulazione del contratto di lavoro, la Corte di merito ha ritenuto nella specie l’invalidità del relativo termine.

Il ricorso deve quindi essere rigettato. Le spese del giudizio vengono regolate facendo applicazione del criterio legale della soccombenza (art. 91 c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio, liquidate in Euro venti per esborsi ed Euro duemila per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. secondo legge.

Così deciso in Roma, il 12 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2011

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