Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20406 del 25/08/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 25/08/2017, (ud. 28/04/2017, dep.25/08/2017),  n. 20406

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27851/2011 proposto da:

T.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA FRANCO MICHELINI TOCCI 50, presso lo studio dell’avvocato MARCO

VISCONTI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIUSEPPE PEA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO, C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

IV NOVEMBRE 144, presso lo studio degli avvocati LUCIANA ROMEO,

LUCIA PUGLISI, che lo rappresentano e difendono, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 417/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 29/07/2011 R.G.N. 302/2008;

il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Che T.G. chiese al tribunale di Venezia la condanna dell’I.n.a.i.l alla corresponsione in proprio favore della rendita ai superstiti a seguito del decesso per infortunio sul lavoro del proprio coniuge B.G. (collaboratore dell’impresa familiare di cui la T. era titolare) avvenuto a seguito di caduta da un’altezza di circa sei metri, il 19 settembre 2005, mentre lo stesso si apprestava a sistemare alcune parti di un magazzino;

che, posto che l’I.n.a.i.l. agì in riconvenzionale in via di rivalsa ex artt. 10 e 11 del t.u. n. 1125/1965 relativamente all’esborso corrispondente all’importo della rendita, il tribunale accertò la fondatezza di entrambe le domande e dichairò compensati gli opposti crediti;

che, proposto appello dalla sola T., la Corte d’appello di Venezia con la sentenza n. 417/2011 ha riformato la sentenza di primo grado solo riguardo alla pronuncia di compensazione, confermando l’accertamento del primo giudice e la reciproca condanna delle parti;

che avverso tale sentenza T.G. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, rispettivamente riferiti a: violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 3, per l’insussistenza nel caso di specie di un rapporto di lavoro subordinato dell’infortunato con la ditta Dimas di cui la T. era titolare, posto che si trattava di collaborazione interna ad impresa familiare; violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 11, derivante dall’insussistenza del rapporto di lavoro che è presupposto della responsabilità civile richiesta dall’azione di rivalsa; vizio di motivazione incidente sulla identificazione della normativa in concreto applicata alla fattispecie; violazione o falsa applicazione degli artt. 436,329 e 346 c.p.c., derivante dalla circostanza che la Corte territoriale aveva accolto la domanda di rivalsa proposta in riconvenzionale dall’I.n.a.i.l in assenza di appello incidentale;

che l’I.n.a.i.l. ha opposto difese con controricorso; che il P.G. in data 27 marzo 2017 ha richiesto il rigetto del ricorso;

che è stata depositata memoria da T.G..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che i primi tre motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto fondati sul comune presupposto della inapplicabilità all’impresa familiare – ipotesi incontestamente ravvisata nel caso di specie – dei principi che regolano gli obblighi di prevenzione e sicurezza nel rapporto di lavoro subordinato, sono infondati;

che, infatti, questa Corte di legittimità ha avuto modo di precisare che l’impresa familiare, introdotta nel codice civile, all’art. 230 bis, dalla L. n. 151 del 1979, art. 89, appartiene solo al suo titolare che assume la qualifica di imprenditore e con essa i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro (vd. Cass. 7223/2004; 9897/2003); che i familiari che partecipano all’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c., in quanto prestano opera manuale oppure opera assimilabile sono soggetti assicurati obbligatoriamente in forza della sentenza della Corte Costituzionale n. 476 del 10 dicembre 1987; che, dunque, a seguito di tale sentenza della Corte costituzionale, la tutela assicurativa contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è stata estesa anche ai familiari collaboratori nell’impresa familiare che prestano attività al di fuori di un reale rapporto subordinato o societario e, quindi, proprio in quanto tale erano esclusi dal novero del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 4;

che, tuttavia, dalla peculiarità del rapporto giuridico in esame non deriva l’assenza di responsabilità del titolare dell’impresa familiare in caso di infortunio laddove si provi che lo stesso sia venuto meno agli obblighi di sicurezza previsti dalla normativa specifica di carattere precauzionale;

che in tal senso, in particolare, si è espressa questa Corte di cassazione laddove ha enunciato il principio secondo cui (Cass. 4, 21 agosto 2007, n. 34995, Nacci; 8094/1994; 2261/1978), il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 2, nel testo novellato dal D.Lgs. n. 262 del 1996, innovando rispetto alla formulazione originaria della norma, pone l’accento, ai fini dell’individuazione della figura del datore di lavoro, non tanto sulla titolarità del rapporto di lavoro, quanto sulla responsabilità dell’impresa, sull’esistenza di poteri decisionali;

che, quindi, occorre porre l’attenzione precipuamente sulla situazione di fatto: alla titolarità dei poteri di organizzazione e gestione corrisponde simmetricamente il dovere di predisporre le necessarie misure di sicurezza e tale ordine concettuale si rinviene implicitamente, nello stesso richiamato art. 2, per ciò che riguarda la definizione della figura del lavoratore, caratterizzata, nel suo nucleo essenziale, dalla condizione di dipendenza, di subordinazione rispetto ad altri che assume su di sè la gestione della prestazione;

che, peraltro, contrariamente all’assunto della ricorrente le espresse previsioni del D.Lgs. n. 81 del 2008, non hanno avuto l’effetto di costituire per la prima volta i suddetti obblighi a carico del titolare dell’impresa familiare, giacchè questa Corte ha, invece, avuto modo di precisare che in tema di prevenzione infortuni ed igiene del lavoro, sussiste continuità normativa tra le fattispecie penali in materia di luoghi di lavoro (prima previste dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 32,comma 1, lett. b), dal D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 13, comma 10, e dal D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, artt. 20 e 21) e quelle, più gravemente punite, oggi contemplate per il datore di lavoro dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 68, comma 1, lett. b), (recante “Attuazione della L. 3 agosto 2007, n. 123, art. 1, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”), (vd. Cass. Sez. 3^ pen. n.41367/2008; 35946/2010);

che, data la correttezza della ricostruzione dell’impianto normativo fatta propria dalla sentenza impugnata è evidente che è del tutto assente il vizio di motivazione adombrato dalla ricorrente;

che, infine, è infondato anche il quarto motivo dal momento che l’In.a.i.l., ai sensi dell’art. 100 c.p.c., non avrebbe dovuto nè potuto proporre alcun appello incidentale avverso la sentenza di primo grado che aveva ritenuto fondate sia la domanda di costituzione della rendita ai superstiti proposta dalla T. che l’azione di rivalsa proposta dall’Inali facendo operare una sorta di compensazione;

che pertanto il ricorso va respinto;

che le spese vengono regolate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore del controricorrente, che liquida in Euro 3500,00 per compensi, oltre ad Euro 100,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15 % e spese accessorie.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 agosto 2017

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