Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20394 del 16/07/2021

Cassazione civile sez. lav., 16/07/2021, (ud. 11/03/2021, dep. 16/07/2021), n.20394

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14836/2015 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE n. 9, presso lo studio dell’avvocato CARLO RIENZI, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO

presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n.

12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8505/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 04/12/2014 R.G.N. 8206/2009;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

11/03/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. la Corte d’Appello di Roma, adita con appello principale dal Ministero dell’Interno e con impugnazione incidentale da C.C. in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva parzialmente accolto il ricorso della C., ha respinto tutte le domande formulate dalla dipendente, la quale aveva agito in giudizio per ottenere il riconoscimento, a fini giuridici ed economici, dell’anzianità di servizio maturata alle dipendenze dell’amministrazione provinciale di Roma dal 5 luglio 1976 al 24 gennaio 1983 e la condanna del Ministero al pagamento delle conseguenti differenze retributive;

2. la Corte territoriale ha premesso che la C. era transitata nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e con D.M. n. 10 maggio 1993 il Ministero le aveva riconosciuto un incremento della RIA – Retribuzione Individuale di Anzianità – che, però, non teneva conto del servizio prestato alle dipendenze dell’amministrazione provinciale;

3. il giudice d’appello ha ritenuto parzialmente fondata l’eccezione di prescrizione ed ha rilevato che con il D.M. 24 gennaio 1983, era stato precisato quale fosse lo status giuridico ed economico dell’appellante incidentale, la quale, pur potendo contestare già all’epoca il mancato riconoscimento dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza, aveva esercitato il suo preteso diritto in via stragiudiziale solo con la missiva dell’8 agosto 2000 e, pertanto, le differenze retributive, ove spettanti, potevano essere riconosciute, al più, con decorrenza dal quinquennio antecedente la data di compimento del primo atto interruttivo;

4. la Corte, peraltro, ha ritenuto assorbente l’infondatezza della pretesa ed ha rilevato, da un lato, la genericità della domanda con la quale il riconoscimento era stato domandato “a fini giuridici” e dall’altro, quanto ai riflessi economici, che il D.P.R. n. 335 del 1990, art. 25, ai fini del calcolo della RIA ha valorizzato solo il servizio effettivo continuativo prestato alle dipendenze della medesima amministrazione;

5. infine il giudice d’appello ha ritenuto inammissibile la domanda di risarcimento del danno perché proposta solo con il ricorso in riassunzione, depositato a seguito della riforma della sentenza del Tribunale di Roma n. 14801/2004 che aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario;

5. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso C.C. sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, ai quali il Ministero dell’Interno ha opposto difese con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2935,2946,2948 c.c., L. n. 930 del 1980, artt. 21 e 22, D.L. n. 384 del 1992, art. 7, comma 1, convertito dalla L. n. 438 del 1992, come autenticamente interpretato dalla L. n. 388 del 2000, art. 51, comma 3 e sostiene che non poteva essere accolta l’eccezione di prescrizione in quanto solo con il D.M. n. 533 del 2001, l’amministrazione aveva respinto l’istanza formulata l’8 agosto 2000;

1.1. precisa che l’anzianità di servizio configura un mero fatto giuridico che non ricade sotto il regime della prescrizione ed aggiunge che quanto alle pretese retributive il dies a quo deve essere individuato nella data in cui l’interessato attiva il proprio credito presentando la relativa istanza perché sino a quando quest’ultima non viene depositata non è configurabile un inadempimento dell’amministrazione;

1.2. ribadisce che il legislatore con la L. n. 930 del 1980, art. 22, aveva attribuito specifico valore all’anzianità di servizio maturata presso l’amministrazione di provenienza ai fini dell’inquadramento in ruolo e, pertanto, della richiamata anzianità occorreva poi tenere conto ad ogni altro effetto;

1.3. aggiunge che quanto al riconoscimento a fini giuridici ha errato la Corte territoriale nell’escludere l’interesse ad agire perché la ricorrente aveva domandato la ricostruzione dell’intera carriera, che incide anche sulla successiva progressione professionale;

2. la seconda censura denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 335 del 1990, art. 25, commi 4 e 5, come modificato dal D.L. n. 384 del 1992, della dichiarazione congiunta n. 2 del CCNL 5.4.1996 e dell’art. 49, comma 7, del CCNL 1998/2001 per il personale del comparto aziende ed amministrazioni autonome perché la Corte territoriale, nell’escludere che ai fini della quantificazione della RIA potesse rilevare il servizio prestato alle dipendenze di altre amministrazioni, ha violato le disposizioni contrattuali richiamate nella rubrica e non ha tenuto in alcun conto i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui la continuità può aversi anche in relazione all’attività prestata presso enti locali;

3. infine con il terzo motivo è denunciata la violazione degli artt. 50 e 353 c.p.c., perché l’atto di riassunzione può contenere anche una nuova domanda in aggiunta a quella originaria ed in tal caso il ricorso, oltre a svolgere la funzione propria della riassunzione, equivale all’atto introduttivo di un nuovo giudizio che, altrimenti, dovrebbe essere proposto separatamente con inutile dispendio di attività processuale;

4. il primo motivo è infondato nella parte in cui contesta il capo della sentenza impugnata con il quale la Corte territoriale ha ritenuto maturata la prescrizione quinquennale in relazione alle pretese retributive fatte valere per il periodo antecedente al quinquennio, calcolato a ritroso a far tempo dal primo atto interruttivo risalente all’8 agosto 2000;

4.1. la pronuncia è conforme all’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui l’anzianità di servizio non è uno status o un distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, perché rappresenta solo la dimensione temporale del rapporto di lavoro di cui integra il presupposto di fatto di specifici diritti, con la conseguenza che, se da un lato, l’anzianità non è suscettibile di autonoma prescrizione, dall’altro le pretese di carattere patrimoniale che sull’anzianità medesima si fondano possono essere fatte valere in giudizio solo nel rispetto del termine quinquennale di prescrizione al quale soggiace il diritto alla retribuzione (cfr. Cass. n. 2232/2020 e la giurisprudenza ivi richiamata);

4.2. il termine previsto dall’art. 2948 c.c. (a seguito della contrattualizzazione non è più applicabile all’impiego pubblico contrattualizzato del R.D.L. n. 295 del 1939, art. 2, nel testo modificato dalla L. n. 428 del 1985, art. 2, cfr. Cass. n. 10219/2020) decorre ex art. 2935 c.c., dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e, quindi, per le pretese retributive dal momento in cui l’obbligazione patrimoniale non è stata correttamente adempiuta dal datore con la corresponsione di quanto effettivamente dovuto, posto che un fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione può essere ravvisato solo in presenza di cause giuridiche che ostacolino l’esercizio del diritto mentre non rilevano né l’ignoranza da parte del titolare né il dubbio soggettivo sull’esistenza del diritto stesso né, infine, il ritardo indotto dalla necessità di accertamenti (Cass. n. 3584/2012; Cass. n. 10828/2015; Cass. n. 19193/2018);

4.3. il motivo e’, pertanto, infondato nella parte in cui pretende di valorizzare, ai fini dell’individuazione del dies a quo della prescrizione, il D.M. n. 533 del 2001, con il quale l’istanza di riconoscimento dell’anzianità è stata formalmente rigettata dall’amministrazione, atteso che la ricostruzione della carriera, con i conseguenti riflessi sul piano economico, poteva essere domandata sin dal momento in cui il riconoscimento dell’anzianità pregressa avrebbe consentito, secondo l’assunto della ricorrente, l’invocata applicazione del D.P.R. n. 335 del 1990, art. 25, comma 4;

4.4. il motivo e’, poi, inammissibile nella parte in cui si duole della ritenuta genericità della domanda con la quale il riconoscimento dell’anzianità era stato richiesto anche a fini giuridici, perché la ricorrente non individua né denuncia l’error in procedendo nel quale la Corte territoriale sarebbe incorsa e si limita ad argomentare sull’interesse ad agire, al quale non fa cenno la pronuncia gravata;

4.5. questa Corte ha precisato che l’errata interpretazione della domanda che abbia indotto una pronuncia di inammissibilità della stessa, si risolve nella violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato (Cass. 21421/2014) e, pertanto, deve essere denunciata nei modi indicati da Cass. S.U. n. 17931/2013 mediante specifica deduzione della nullità della pronuncia gravata, alla quale non fa cenno il motivo di ricorso, tra l’altro formulato senza il necessario rispetto dell’onere di specifica indicazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, perché la ricorrente non dimostra che la questione della riqualificazione professionale, connessa al riconoscimento dell’anzianità, fosse stata prospettata nel ricorso di primo grado e nell’atto di appello incidentale;

5. parimenti infondato è il secondo motivo con il quale si prospetta un’interpretazione del D.P.R. n. 335 del 1995, art. 25 (di recepimento dell’accordo del 10 febbraio 1990 concernente il personale del comparto delle aziende e delle Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo) che contrasta con il tenore letterale e con la ratio della disposizione invocata nella parte in cui prevede, al comma 4, che “A decorrere dal 1 ottobre 1990, al personale che nel triennio contrattuale abbia maturato 5 anni di effettivo servizio continuativo nella stessa amministrazione competono i seguenti importi annui, da inserire nella retribuzione individuale di anzianità” ed aggiunge, al comma successivo, che “I suddetti importi al compimento del decimo anno si raddoppiano, al compimento del quindicesimo anno si triplicano, al compimento del ventesimo anno si quadruplicano e si aggiunge a tale ultimo valore lo 0,50 per cento del tabellare iniziale riportato dell’art. 24, comma 1”;

5.1. questa Corte, nell’interpretare il D.P.R. n. 44 del 1990, art. 9, relativo al personale del comparto Ministeri, ha già affermato che “la retribuzione individuale di anzianità è istituto retributivo commisurato all’anzianità di servizio e preordinato a premiare l’esperienza professionale maturata nello specifico settore nel quale è effettuata la prestazione; ne consegue che la maggiorazione della RIA prevista dal D.P.R. n. 44 del 1990, art. 9, comma 5, in favore del personale statale che abbia maturato dieci o venti anni di servizio, spetta soltanto a coloro che possano vantare detta anzianità di servizio nello specifico settore lavorativo nel quale vige la maggiorazione stessa” (Cass. n. 756/2012 e negli stessi termini Cass. 11836/2009);

5.2. il principio, condiviso dal Collegio e qui ribadito, a maggior ragione vale per il D.P.R. n. 335 del 1995, art. 25, che fa specifico riferimento al servizio continuativo prestato “nella stessa amministrazione”, inciso, questo, sul quale ha fatto leva anche la più recente giurisprudenza amministrativa (C.d.S. n. 7610/2019) che, pronunciando in fattispecie analoga a quella oggetto di causa, ha condivisibilmente osservato come nell’impiego pubblico, in cui sin dagli anni 80 la strutturazione della contrattazione collettiva si basa sulla nozione di comparto, non si può “accedere ad una nozione unitaria di amministrazione dello Stato che si fondi sulla pretesa sovrapponibilità ontologica delle sue distinte articolazioni soggettive” e, pertanto, deve essere valorizzato a fini interpretativi il riferimento alla “stessa amministrazione”, coerente con la ratio della disposizione, che è evidentemente quella di riconoscere il beneficio economico in ragione non della sola anzianità di servizio, bensì della professionalità acquisita attraverso la prestazione di attività nel medesimo contesto lavorativo e organizzativo;

5.3. il CCNL 5.4.1996 per il personale del comparto aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo (che comprendeva anche il personale del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco) ha inserito nella struttura della retribuzione la R.I.A. solo “ove percepita” (art. 46) e, pertanto, non ne ha innovato la disciplina, che resta quella dettata dal richiamato art. 25, sicché non può essere ritenuta vincolante a fini interpretativi la dichiarazione congiunta n. 2 inserita in calce allo stesso contratto;

5.4. nell’impiego pubblico contrattualizzato il legislatore ha, eccezionalmente, attribuito alle parti collettive un potere di interpretazione autentica delle disposizioni contrattuali con il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 68 bis, inserito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 30 e poi trasfuso nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64 e con il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 53, il cui testo, modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 43, è riprodotto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 49;

5.5. peraltro l’esercizio di detto potere è subordinato a specifiche condizioni, prima fra tutte la compatibilità dell’esegesi fornita con gli strumenti di programmazione e bilancio, sicché in difetto delle stesse l’accordo interpretativo non si sostituisce alla disposizione originaria né acquista la particolare efficacia prevista dalle norme sopra richiamate;

5.6. dette condizioni non ricorrono nella fattispecie, sia perché la dichiarazione congiunta non contiene alcun riferimento al potere di interpretazione autentica, sia in quanto la compatibilità della stessa con le risorse complessive a disposizione delle parti collettive è smentita dall’art. 49, comma 7, del successivo CCNL per il quadriennio 1998/2001, con il quale si impegna l’Amministrazione, in presenza di decisioni giurisdizionali inerenti il riconoscimento della retribuzione individuale di anzianità, ad attivare la procedura prevista dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 66 (poi trasfuso nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 61);

5.7. la procedura alla quale l’art. 49, rinvia si riferisce, appunto, alle decisioni “che comportino oneri a carico del bilancio” non considerati al momento della sottoscrizione del contratto, il che smentisce, non conferma, l’assunto secondo cui le parti collettive avrebbero inteso attribuire la maggiorazione anche ai dipendenti che avevano prestato servizio presso amministrazioni diverse, perché, ove così fosse stato, l’accordo ed i successivi CCNL avrebbero dovuto avere la necessaria copertura finanziaria;

5.8. in via conclusiva gli argomenti prospettati dalla ricorrente, non coerenti con la finalità e con il tenore letterale della clausola contrattuale, non giustificano un ripensamento dell’orientamento già espresso, al quale va data continuità;

6. non sono fondate neppure le considerazioni espresse nella memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c., circa la necessità di interpretare del D.P.R. n. 335 del 1995, art. 25, alla luce della direttiva 77/187/CE in tema di trasferimento di azienda;

6.1. la Corte di Giustizia con la pronuncia del 6 aprile 2017 in causa C – 336/15, ha ribadito che lo scopo della direttiva è solo quello di assicurare il mantenimento dei diritti già acquisiti dai lavoratori trasferiti e che l’anzianità maturata presso il cedente non costituisce di per sé “un diritto di cui i lavoratori possano avvalersi nei confronti del cessionario, ciò nondimeno essa serve, se del caso, a determinare taluni diritti pecuniari dei lavoratori, che pertanto devono essere salvaguardati, in linea di principio dal cessionario allo stesso modo del cedente” (punti 21 e 22 nei quali la Corte richiama le sentenze 6.9.2011, Scattolon, C- 108/10 e 14.9.2000, Collino e Chiappero, C-343/98); 6.2. è coerente con il principio affermato dalla Corte di Lussemburgo l’orientamento formatosi sull’interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 31 e art. 2112 c.c., secondo cui le disposizioni normative e contrattuali finalizzate a garantire il mantenimento del trattamento economico e normativo acquisito, non implicano la totale parificazione del lavoratore trasferito ai dipendenti già in servizio presso il datore di lavoro di destinazione, in quanto la prosecuzione giuridica del rapporto se, da un lato, rende operante il divieto di reformatio in peius, dall’altro non fa venir meno la diversità fra le due fasi di svolgimento del rapporto medesimo, diversità che può essere valorizzata dal nuovo datore di lavoro, sempre che il trattamento differenziato non implichi la mortificazione di un diritto già acquisito dal lavoratore;

6.3. muovendo da detta premessa si è evidenziato che l’anzianità di servizio, che di per sé non costituisce un diritto che il lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino benefici economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità comporterebbe un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto dal lavoratore trasferito (Cass. n. 18220/2015; Cass. n. 25021/2014; Cass. n. 22745/2011; Cass. n. 10933/2011; Cass. S.U. n. 22800/2010; Cass. n. 17081/2007);

6.4. l’anzianità pregressa, invece, non può essere fatta valere da quest’ultimo per rivendicare ricostruzioni di carriera sulla base della diversa disciplina applicabile al cessionario (Cass. S.U. n. 22800/2010 e Cass. n. 25021/2014), né può essere opposta al nuovo datore per ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perché l’ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore alla data della cessione del contratto, non delle mere aspettative (cfr. fra le più recenti Cass. n. 4389/2020 e quanto agli scatti di anzianità Cass. n. 32070/2019);

7. infondato è anche il terzo motivo perché l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno, formulata solo in sede di riassunzione del giudizio di primo grado (conseguita alla riforma della sentenza con la quale il Tribunale aveva declinato la giurisdizione), è stata dichiarata dalla Corte d’appello nel rispetto del principio di diritto, già enunciato da questa Corte, secondo cui nelle controversie in materia di lavoro e previdenza la riassunzione del giudizio in primo grado, dopo che il giudice di appello ne abbia disposto la rimessione al primo giudice, in applicazione degli artt. 353 e 354 c.p.c., comporta la continuazione del giudizio precedentemente instaurato e non l’instaurazione di un nuovo giudizio, con conseguente inammissibilità della proposizione di domande nuove (Cass. n. 12719/2013);

7. il ricorso va, pertanto, rigettato con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo;

8. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 11 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2021

 

 

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