Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20387 del 28/09/2020

Cassazione civile sez. II, 28/09/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 28/09/2020), n.20387

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19402/2019 proposto da:

A.Y., elettivamente domiciliato in Trieste via Cesare

Battisti n. 4, presso lo studio dell’avv.to ANDREA DIROMA, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di TRIESTE, depositato il

12/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/06/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il Tribunale di Trieste, con decreto pubblicato il 12 giugno 2019, respingeva il ricorso proposto da A.Y., cittadino del (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva, a sua volta, rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione internazionale, mentre concedeva la protezione umanitaria;

2. Il Tribunale rigettava la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato atteso che il racconto del richiedente non era credibile e che non erano state colmate le lacune probatorie che lo caratterizzavano. Non vi erano, dunque, elementi concreti da cui inferire un pericolo di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale, opinione politica e neppure era comprovato un pericolo di grave danno rilevante ai fini della protezione sussidiaria. La zona di provenienza del ricorrente, peraltro solo presunta visto che era sprovvisto di documenti all’ingresso in Italia, presentava un sensibile miglioramento della situazione con diminuzione dell’attività militare e calo degli sfollati. Ciò risultava da un report dell’agosto 2017 e da altre fonti citate.

Quanto alla protezione umanitaria di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, non venivano in evidenzia situazioni specifiche proprie del ricorrente legittimanti la concessione del suddetto beneficio residuale, soprattutto in punto di vulnerabilità effettiva. Peraltro, oltre all’inattendibilità del racconto doveva evidenziarsi la non rilevanza delle buone prospettive di integrazione in Italia.

3. A.Y. ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di sei motivi di ricorso.

4. Il Ministero dell’interno si è costituito tardivamente al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: erronea o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 8.

La censura si fonda sulla mancata acquisizione da parte del Tribunale della documentazione prodotta in sede amministrativa dinanzi la commissione territoriale, peraltro, il Tribunale non avrebbe tenuto conto di alcune fonti citate invece dalla commissione territoriale e nonostante l’espressa richiesta del difensore di ordinarne il deposito. Da tali fonti emergeva la sussistenza di una situazione di pericolo per il conflitto in atto nella zona di provenienza del richiedente.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: erronea o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 9.

La censura è sostanzialmente ripetitiva di quella di cui al primo motivo, in quanto il Tribunale non avrebbe attivato i suoi poteri officiosi per verificare la ricostruzione della vicenda personale del richiedente in rapporto alla situazione oggettiva della zona di provenienza. Peraltro, vi erano elementi sufficienti a ritenere credibile il racconto quali: il certificato di domicilio, il certificato medico, la denuncia dell’omicidio del padre con l’articolo di giornale, il certificato di morte del padre, la richiesta di protezione all’autorità, la denuncia dell’omicidio dello zio. Rispetto a tale documentazione il Tribunale non avrebbe espresso alcuna valutazione mentre la mancata acquisizione delle COI, come previsto dalla norma citata, avrebbe impedito di esaminare elementi essenziali per confortare la congruità e la genuinità del pericolo denunciato.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: erronea o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

La censura si incentra sulla violazione da parte del Tribunale dei criteri sulla base dei quali deve essere valutata la credibilità delle dichiarazioni del ricorrente, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: erronea o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14.

Anche in questo caso la censura si incentra sulla erroneità della valutazione di inattendibilità del racconto del richiedente e sulla ritenuta insussistenza dei presupposti per la concessione della protezione di cui all’art. 14, sopra citato senza neanche tener conto della documentazione depositata, a riprova del timore fondato di persecuzione, tenuto conto anche del criterio dell’onere della prova condiviso. Il Tribunale avrebbe violato i criteri di valutazione del racconto fondati oltre che sulle prove, anche sul beneficio del dubbio e sulla buona fede presunta.

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: violazione ex art. 360, nn. 3 e 5, in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 14, lett. c), (rectius n. 251 del 2007).

La censura è relativa alla ritenuta insussistenza di una situazione generalizzata di conflitto armato nella zona di provenienza del richiedente sulla base di una lettura erronea di un rapporto EASO del 2017 e senza adeguata motivazione.

Nella regione del Pakistan di provenienza del ricorrente, invece, sussisterebbero i suddetti presupposti di violenza indiscriminata.

6. Il sesto motivo di ricorso è così rubricato: violazione ex art. 360, nn. 3 e 5, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5.

Il Tribunale di Trieste ha ritenuto irrilevante il percorso scolastico e lavorativo documentato, al fine di dimostrare un’adeguata integrazione sociale, negando la protezione umanitaria solo per la non veridicità del racconto per mancanza di prova, senza nessun cenno alla situazione oggettiva del Pakistan correlata alla situazione soggettiva del richiedente.

7. I sei motivi di ricorso che, stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili, anche ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, come interpretato da questa Corte a Sezioni Unite con la pronuncia n. 7155 del 2017.

In tema di protezione internazionale, affinchè la mancata acquisizione del fascicolo amministrativo formato dalla commissione territoriale assuma rilievo ai fini della decisione, occorre che sia specificato il contenuto dei documenti non consultati, a causa del mancato assolvimento dell’obbligo previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 8, nonchè la loro decisività ai fini della valutazione della domanda di protezione.

Il ricorrente, ai fini della doglianza circa la mancata acquisizione della documentazione esaminata in sede amministrativa, indica solo due reports del 2015 e del 2016 sula situazione dei diritti umani in Pakistan. Il Tribunale, tuttavia, ha citato una fonte di conoscenza più recente quale L’EASO Country of origin information report dell’agosto 2017 dove si fa espressamente riferimento alla regione Khyber Pakhtunkhwa come zona cuscinetto idonea ad ospitare le persone in fuga. Risulta evidente, pertanto, la non decisività delle fonti citate dal ricorrente e l’infondatezza della censura circa la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi.

Quanto alla valutazione in ordine alla credibilità del racconto del richiedente, essa costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).

La critica formulata nei motivi costituisce, dunque, una mera contrapposizione alla valutazione che il Tribunale di Trieste ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata mediante allegazione di fatti decisivi emersi nel corso del giudizio che sarebbero stati ignorati dal giudice di merito.

Il Tribunale ha anche motivato sia in relazione alla situazione soggettiva del ricorrente sia in ordine alla situazione complessiva del Pakistan, sicchè è del tutto evidente che non vi è stata alcuna violazione di legge o omessa motivazione nell’accezione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5. Ne consegue che la censura si risolve in una richiesta di nuova valutazione dei medesimi fatti.

Il ricorrente, inoltre, deduce genericamente la violazione di norme di legge, avuto riguardo alla sua vicenda personale ed alla situazione generale del Pakistan, attraverso il richiamo alle disposizioni disattese e tramite una ricostruzione della fattispecie concreta quanto all’insicurezza del Paese di origine ed alla compromissione di diritti fondamentali, difforme da quella accertata nei giudizi di merito.

Come si è detto il Tribunale ha esaminato, richiamando varie fonti di conoscenza, la situazione generale del paese di origine ed in particolare della regione di provenienza del ricorrente, precisando che, in base alle fonti, deve escludersi una situazione di violenza indiscriminata in conflitto armato.

Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato con riferimento all’indagine sulle condizioni generali del Pakistan, benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile dai giudici di merito (Cass. n. 14283/2019). Invece l’esercizio di poteri officiosi circa l’esposizione a rischio del richiedente in virtù della sua condizione soggettiva, in relazione alle fattispecie previste dal citato art. 14, lett. a) e b), si impone solo se le allegazioni di costui al riguardo siano specifiche e credibili, il che non è nella specie, per quanto già detto.

Inoltre, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018).

In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso con idonea motivazione, alla stregua di quanto considerato nei paragrafi che precedono l’esistenza di una situazione di sua particolare vulnerabilità. All’accertamento compiuto dai giudici di merito viene inammissibilmente contrapposta una diversa interpretazione delle risultanze di causa.

La pronuncia impugnata, dunque, risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

8. In conclusione il ricorso è inammissibile. Nulla sulle spese non avendo svolto attività difensiva il Ministero intimato.

9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2020

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