Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20385 del 05/10/2011

Cassazione civile sez. lav., 05/10/2011, (ud. 05/07/2011, dep. 05/10/2011), n.20385

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5100/2010 proposto da:

C.E.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SESTO

RUFO 23 (STUDIO MOSCARINI), presso lo studio dell’avvocato BRUNO

TAVERNITI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARROCCO Giuseppe,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CASA DI CURA “VILLA DEL SOLE” S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

LUNGOTEVERE MARZIO 3, presso lo studio dell’avvocato IZZO RAFFAELE,

rappresentata e difesa dagli avvocati CASTIGLIONE Francesco, STANGA

DOMENICO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6485/2009 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 01/12/2009 R.G.N. 4141/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/201 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato MARROCCO GIUSEPPE;

adito l’Avvocato PITRUZZELLA FRANCESCA per delega CASTIGLIONE

FRANCESCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza n. 6485/09, deposita il 1 dicembre 2009, accoglieva l’appello proposto dalla Casa di cura Villa de Sole spa nei confronti di C.E.M., in ordine alla sentenza emessa dal giudice de lavoro di S. Maria Capua Vetere il 15 febbraio 2008, e per l’effetto rigettava la domanda proposta con il ricorso introduttivo del giudizio.

2. La C. aveva adito il Tribunale di S. Maria Capua Vetere impugnando il licenziamento irrogatole in data 22 agosto 2005 dalla suddetta Clinica, per giusta causa, chiedendo che lo stesso fosse dichiarato nullo e/o inefficace, e/o illegittimo, con l’ordine alla suddetta società di reintegrarla in servizio, e con la condanna della medesima al risarcimento dei danni pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del licenziamento alla reintegra, oltre accessori di legge.

Il Tribunale accoglieva la domanda, dichiarava l’illegittimità del licenziamento irrogato alla C., ordinava alla società la reintegra della lavoratrice nel medesimo posto di lavoro, e la condannava al risarcimento dei danni, pari alle retribuzioni di fatto maturate dalla data del licenziamento alla reintegra, oltre accessori di legge, nonchè al pagamento delle spese di giudizio.

3. Nella premessa della sentenza, la Corte d’Appello espone che la C. aveva lavorato alle dipendenze della Casa di cura in qualità di responsabile di laboratorio di analisi dal 1 maggio 1997, era stata Presidente del C.d.A. della suddetta società fino al 23 giugno 2000, e aveva avuto varie vicissitudini giudiziarie con gli altri soci della società, in conseguenza delle quali, in data 7 marzo 2002, le era stato irrogato un licenziamento disciplinare tempestivamente impugnato e dichiarato illegittimo con sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere n. 17000/2005.

A pochi mesi della reintegra nel posto di lavoro, la ricorrente aveva ricevuto, in data 29 luglio e in data 5 agosto 2005, due nuove contestazioni disciplinari, in relazione alle quali aveva presentato le sue giustificazioni, ma in data 22 agosto 2005 le era stata comunicata l’irrogazione del licenziamento per giusta causa, oggetto del presente giudizio.

3. Avverso la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Napoli, ricorre per cassazione C.E.M., prospettando quattro motivi di ricorso.

4. Resiste con controricorso la Casa di cura Villa del Sole spa.

5. La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di impugnazione verte sulla dedotta violazione dell’onere della prova, in quanto ad avviso della ricorrente spetta al datore di lavoro dimostrare l’elemento materiale del fatto e l’elemento psicologico della condotta imputabile a lavoratore, tenuto conto, altresì, che in base all’art. 41, lett. c), del CCNL 2004/2005, l’adozione dei provvedimenti disciplinari richiede grave negligenza in servizio o irregolarità nell’espletamento dei compiti assegnati, così delineando una forma di responsabilità diretta e non già oggettiva per il comportamento del personale a cui si sovrintende.

La Corte d’Appello, con riferimento alla prima contestazione disciplinare, avente ad oggetto la circostanza che la provetta contenente il prelievo ematico di una ricoverata era stato rinvenuta nel cestino dei rifiuti del laboratorio d’analisi, riteneva dovesse essere addebitata alla C. la condotta di non aver adeguatamente esercitato il suo potere di controllo sulle procedure tipiche del laboratorio di analisi che dirigeva. In ciò, la ricorrente ravvisa la violazione delle regole del riparto dell’onere della prova, non essendo stato applicato il principio secondo il quale incombe sul datore di lavoro la prova della evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendete ed a lui imputabile, ancor più laddove si consideri che la stessa Corte d’Appello aveva ritenuto che la Casa di cura, costituitasi tardivamente, era decaduta dalla facoltà di contestare i fatti allegati nel ricorso introduttivo, e di fornire prove e produrre documentazione a sostegno delle proprie argomentazioni.

La censura si sostanzia, quindi, nella prospettazione della violazione degli artt. 38 e 41 del CCNL per il personale del settore sanitario del 23 aprile 2004, della L. n. 604 del 1966, art. 3 e della L. n. 300 del 1970, art. 7, in relazione all’art. 2697 del cod. civ..

1.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

In tema di licenziamento del lavoratore per giusta causa, questa Corte ha avuto modo, a più riprese, di evidenziare che incombe sul datore di lavoro l’onere della prova della realizzazione da parte del lavoratore di un comportamento che integri una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto ed, in particolare, di quello fiduciario, con riferimento non al fatto astrattamente considerato bensì agli aspetti concreti di esso, afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nell’organizzazione dell’impresa, nonchè alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all’intensità dell’elemento volitivo (Cass., sentenza n. 35 del 2011).

La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione del suddetto principio.

Va osservato, infatti, che proprio in ragione della ritenuta intervenuta decadenza della Casa di cura dalla facoltà di fornire le prove e produrre la documentazione, per la intervenuta costituzione tardiva, il giudice di secondo grado ha limitato la sua valutazione ai fatti come emergenti: dalle contestazioni degli addebiti, dalle risposte rese dalla C. a tali contestazioni (documenti prodotti dalla stessa ricorrente) e dalle affermazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio.

Dunque, la Corte d’Appello non ha invertito l’onere della prova, ribadendo, anzi, che incombe sulla società datrice di lavoro fornire la prova della giusta causa di licenziamento ed escludendo dal materiale probatorio la documentazione tardiva.

2, Il secondo motivo di impugnazione attiene al ritenuto vizio di motivazione – inesistente, insufficiente e contraddittoria – della pronuncia in esame, con riguardo a quanto affermato dalla Corte d’Appello nell’esaminare il primo addebito disciplinare del 29 luglio 2005 (avente ad oggetto la circostanza che la provetta contenete il prelievo ematico di una ricoverata era stato rinvenuta nel cestino dei rifiuti del laboratorio d’analisi).

Deduce parte ricorrente che la Corte d’Appello imputa alla medesima di non aver sottoposto le provette ad adeguata conservazione e che, quindi, i risultati ottenuti dalle analisi potevano essere alterati.

Tuttavia, nessuna di queste circostanze aveva costituito oggetto di adeguata prova, nè il giudice di appello aveva indicato gli elementi di fatto dai quali, sia pure in via presuntiva, avrebbe dedotto l’inadeguatezza della conservazione delle provette e la possibile alterazione dei risultati delle analisi, peraltro, questi ultimi, senza manipolazione e ritardo, erano stati regolarmente consegnati all’interessata, che non aveva formulato contestazioni in merito.

3. Con il terzo motivo di impugnazione, è prospettato vizio di motivazione della sentenza in ordine alle argomentazioni della stessa relative al secondo addebito disciplinare del 9 marzo 2005.

Quest’ultimo aveva riguardato la circostanza che in data 25 luglio 2005, il risultato delle analisi di una assistita presentava il markers neoplastico CEA con un valore di 131, successivamente veniva richiesta la ripetizione dell’analisi, dato il valore eccessivo del markers, in data 29 luglio 2005 l’analisi di riscontro presentava un valore di markers CEA pari a 1,04.

La Corte d’Appello, nell’esaminare tale punto della controversia, avrebbe omesso di motivare in ordine alle difese prospettate dalla ricorrente vertenti sui seguenti profili:

da un lato, la circostanza che il valore della prima analisi era palesemente erroneo, tanto che subito si erano rifatte le stesse, dall’altro quella che la C. non aveva la password per l’accesso diretto al computer del laboratorio di analisi. Costituiva, altresì, fatto controverso, specificamente contestato dalla C., che il contenuto delle analisi fosse stato portato effettivamente a conoscenza dell’interessata con conseguenze pregiudizievoli.

3.1. Il secondo ed il terzo motivo d’impugnazione devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono fondati e devono essere accolti, come di seguito statuito.

Questa Corte ha più volte ribadito che per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (ex multis, di recente, sentenza n. 35 del 2011).

Ancora., va ricordato che le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Spetta, pertanto, al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. sentenza n. 10847 del 2007).

Ritiene il Collegio che la Corte di merito non abbia correttamente applicato i sopra enunciati principi, in quanto ha palesato il proprio convincimento circa l’entita ontologica dei fatti contestati e la loro idoneità ad integrare una giusta causa di licenziamento, con una motivazione incompleta e pertanto non adeguata.

Il giudice d’appello, afferma che il primo addebito disciplinare (rinvenimento provetta nel cestino dei rifiuti) consiste nel non aver adeguatamente esercitato il suo potere di controllo sulle procedure tipiche del laboratorio di analisi che dirigeva e tale condotta deve ritenersi provata laddove, proprio in considerazione della limitata entità del laboratorio, il controllo poteva e doveva esercitarsi in misura maggiormente attenta.

In particolare, la Corte d’Appello chiarisce che il fatto era addebitato alla C., in considerazione della qualità di responsabile del laboratorio di analisi e cioè di chi ha il compito di organizzare il lavoro degli addetti al laboratorio e di supervisionarlo, facendo in modo che il servizio reso all’utenza sia ineccepibile.

Posto ciò, la sentenza della Corte d’Appello, sia nell’affermare assertivamente che “il ritrovamento delle provette nel cestino dei rifiuti presuppone che le stesse non siano state oggetto di adeguata conservazione e che quindi i risultati ottenuti dalle analisi effettuate possano essere alterati”, sia, conseguentemente, nel far discendere da tale ragionamento presuntivo, quale premessa logica necessaria della sussistenza della giusta causa di licenziamento, che il servizio del laboratorio di analisi non sarebbe stato ineccepibile, compie salti logici ed incorre nel vizio di motivazione, in quanto il ragionamento presuntivo sotto il profilo dell’attendibilità e del controllo dei fatti posti a fondamento del processo logico non è esaustivo.

Per analoghe considerazioni, la sentenza incorre ne vizio di motivazione anche con riguardo ad alcune argomentazioni relative al secondo addebito disciplinare.

Ed infatti, la Corte d’Appello afferma che qualora la C. non avesse omesso il controllo delle analisi, avrebbe evitato che un valore così elevato fosse portato a conoscenza della cliente ricoverata con le presumibili conseguenze di ordine psicologico derivanti dalla letture delle stesse. Il rilievo attribuito, ai fini della legittimità della contestazione disciplinare, a tale circostanza, non è assistito da congrua motivazione, in quanto quest’ultima manca di riferimenti circostanziali, anche in via presuntiva, con riguardo alla sottoposizione del risultato dell’analisi in questione all’interessata.

4. Con il quarto motivo d’impugnazione è dedotto vizio di motivazione con riguardo alla valutazione, da parte della sentenza in esame, della recidiva riguardante i precedenti addebiti, oggetto di separato giudizio, e la prova della gravità dell’inadempimento e della sua impossibilità di consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. La Corte d’Appello infatti avrebbe acquisito dai precedenti giurisprudenziali, riguardanti i pregressi addebiti disciplinari, solo alcune circostanze di fatto, interpretandole in senso favorevole alle ragioni della casa di Cura, omettendo di indicare altre circostanze di fatto altrettanto significative. La sentenza sarebbe altresì contraddittoria nell’affermare che nessuna dei testi escussi aveva riferito di disservizi significativi del laboratorio di analisi, raccontando episodi circostanziati, sembrando, invece, gli stessi, riferire una diceria, un luogo comune.

4.1. Il motivo non è fondato e pertanto deve essere rigettato.

Ed infatti, la Corte d’Appello ha ritenuto che proprio la superficialità dei comportamenti oggetto dei due addebiti in questione era incompatibile con la funzione rivestita dalla C. e con il grado di affidamento che il datore doveva riporre nella direzione di un servizio così essenziale per una clinica quale il laboratorio di analisi. Dunque le ulteriori considerazioni relative non hanno lo scopo di sorreggere la decisione già basata su altre decisive ragioni. Tali considerazioni, quindi sono improduttive di effetti giuridici e, come tali, non sono suscettibili di censura in sede di legittimità (Cass., sentenza n. 10420 del 2005).

5. Il ricorso deve essere accolto con riguardo al secondo e al terzo motivo d’impugnazione, mentre deve essere rigettato in ordine al primo e al quarto motivo d’impugnazione. La sentenza della Corte d’Appello di Napoli deve essere cassata con riguardo ai motivi accolti e rinviata, anche per le spese del presente giudizio, alla medesima Corte d’Appello in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso e rigetta il primo ed il quarto motivo di ricorso. Cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 5 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2011

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