Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20381 del 26/09/2014


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Civile Sent. Sez. 1 Num. 20381 Anno 2014
Presidente: CECCHERINI ALDO
Relatore: CECCHERINI ALDO

SENTENZA

sul ricorso 34-2013 proposto da:
TELECOM ITALIA S.P.A. (c.f. 00471850016), in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA P.L. DA PALESTRINA 47,
presso l’avvocato LATTANZI FILIPPO, che la
rappresenta e difende unitamente agli avvocati
2014
1371

ROBALDO ENZO, PIETRO FERRARIS, giusta procura in
calce al ricorso;
– ricorrente contro

I-

Data pubblicazione: 26/09/2014

REGIONE LOMBARDIA (P.I. 80050050154), in persona del
Presidente della Giunta regionale pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VITTORIO
VENETO 108, presso l’avvocato GIULIANO MARIA POMPA,
rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO CEDERLE,

controricorrente

avverso la sentenza n. 1524/2012 della CORTE
D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/05/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 03/07/2014 dal Presidente Dott. ALDO
CECCHERINI;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato ROBALDO ENZO che
ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito, per la controricorrente, l’Avvocato POMPA
GIULIANO M., con delega, che ha chiesto il rigetto
del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. LUCIO CAPASSO che ha concluso per

giusta procura a margine del controricorso;

raccoglimento del primo motivo, assorbimento del
secondo motivo, parzialmente assorbito il terzo
motivo, inammissibile o comunque infondato nel resto.

2

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 4 maggio 2012 la Corte di appello di
Milano confermava la sentenza in data 30 aprile 2010 con
cui il Tribunale della stessa città aveva respinto
l’opposizione proposta dalla s.p.a. Telecom Italia avverso

l’ordinanza ingiunzione emessa dalla Regione Lombardia per
il pagamento di una somma a titolo di «canone per
l’occupazione e uso di beni del demanio e del patrimonio
indisponibile dello Stato» e precisamente per
l’attraversamento del c.d. reticolo idrico demaniale con
infrastrutture della rete di telecomunicazione. In
particolare, la Corte di appello osservava che: l) l’art.
93 del Codice delle comunicazioni elettroniche (d. lgs. n.
259/2003) stabilisce al primo comma che «le Pubbliche
Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni non
possono imporre per l’impianto di reti o per l’esercizio
dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni
che non siano stabiliti per legge»; nell’ambito dei canoni
od oneri stabiliti per legge devono ricomprendersi i canoni
di concessione del demanio idrico (art. 822 c.c.), la cui
determinazione ed introito sono delegati alle regioni dagli
artt. 86, comma l, e 89, coma 1, del d. lgs. n. 112/1998 e
sono stati disciplinati dalla Regione Lombardia con la
legge regionale n. 1/2000, poi sostituita dalla legge
regionale n. 26/2003; ne consegue che nella specie il
canone di occupazione è prestazione imposta per legge ed è,
3

e

pertanto, fatta salva dalle norme del Codice delle
telecomunicazioni; 2) l’imposizione di un canone per
l’attraversamento del reticolo idrico non si pone in
contrasto con i principi sanciti dagli artt. 88 e 93 del d.
lgs. n. 259/2003, ed in particolare con la finalità di

uniformare le condizioni di fornitura delle reti e dei
servizi di comunicazione elettronica, poiché la Regione
Lombardia nell’omogeneo contesto del suo territorio pratica
verso tutti i soggetti le stesse tariffe; 3) la disciplina
dettata dal d. lgs. n. 259/2003 non deroga alla disciplina
del demanio idrico e, pertanto, l’imposizione di un canone
non postula che lo stesso sia previsto da una legge
successiva, condizione non contemplata dall’art. 93 del
£

citato d. lgs., che richiede soltanto che la prestazione

,

sia prevista dalla legge; 4) l’imposizione di un canone non
è in contrasto con l’art. 23 Cost. sia perché il canone in
questione è previsto dalla legge sia perché non si tratta
di un’imposizione tributaria, e neppure è in contrasto con
la direttiva comunitaria 2002/20/CE, ricorrendo i requisiti
di trasparenza, obiettiva giustificazione, proporzionalità
e non discriminazione; 5) non è rilevante l’eccezione di
incostituzionalità della legge regionale n. 10/2009 (che
prevede la decadenza della concessione in caso di mancato
pagamento di due annualità del canone), in quanto la stessa
non è applicabile nella specie

ratione temporis;

6) è

inconferente il richiamo della sentenza n. 450/2006 della
4

Corte costituzionale relativa alla imposizione di una tassa
per spese di istruttoria; 7) non si può prospettare una
lesione dei principi a tutela della concorrenza in quanto
tutte le Regioni devono introitare i canoni di occupazione;
8) il canone è dovuto indipendentemente dall’effettiva

La s.p.a. Telecom Italia propone ricorso per cassazione,
deducendo tre motivi illustrati anche con memoria. La
Regione Lombardia resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.

Con il primo articolato motivo la ricorrente deduce,

oltre al vizio di motivazione, la violazione dell’art. 10
del d. lgs. n. 198/2002; degli artt. 5, 25, 35, 50, 58, 88
e 93 del d. lgs. n. 259/2003; dell’art. 2 del d. lgs. n. ,./1 \
112/1998; degli artt. 1, 3 e 10 della legge n. 241/1990;
dell’art. 97 Cost.; degli artt. 11 e 13 nonché del 15 °
considerando della direttiva comunitaria 2002/20/CE; degli

artt. 822 e 823 c.c.; degli artt. 90 e 92 della legge della
Regione Lombardia n. 10/2003. La ricorrente a sostegno
delle censure svolge le argomentazioni che così possono
sinteticamente riassumersi: a) dagli artt. 35, 88, 93 del
d. lgs. n. 259/2003 discende che solo una legge statale
successiva in tema di telecomunicazioni può prevedere oneri
o canoni ulteriori; b) l’art. 823 c.c. non impone che i
modi attraverso i quali beni demaniali possono formare
oggetto di diritti di terzi comprendano necessariamente il
5

occupazione dell’area concessa.

pagamento di un canone; c) il d. lgs. 112/1998 non
disciplina la materia delle telecomunicazioni; d) la legge
regionale della Lombardia n. 10/2009 e qualsiasi altra
legge regionale in tema di canoni di concessione demaniale
dovrebbero ritenersi costituzionalmente illegittime se

in quanto in contrasto con i principi fondamentali, la cui
determinazione è riservata dall’art. 117 Costi allo Stato,
che nella specie ha provveduto con il d. lgs. n. 259/2003;
e) il r.d. 523/1904 ed il r.d. 2669/1933 richiamati
dall’art. 89 del d.lgs. 112/1998 non menzionano o
disciplinano canoni idraulici o di polizia idraulica; f)
l’applicazione di un canone concessorio per
,

l’attraversamento del demanio idrico rappresenterebbe una

– duplicazione di altri oneri (indennizzo per ripristino,
COSAP e TOSAP); g) la direttiva comunitaria 2002/20/CE
lascia piena libertà agli Stati membri per la disciplina
delle modalità di utilizzazione dei beni pubblici, non
prevedendo affatto l’imposizione di canoni, la cui
esclusione è, invece, ricavabile dalla legislazione
nazionale.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta l’erroneità
del capo della sentenza che ha considerato assolto l’onere
della prova a carico della Regione con la produzione del
provvedimento concessorio senza la prova di una effettiva
occupazione.

ritenute applicabili alla materia delle telecomunicazioni

Con il terzo motivo si lamenta la mancata riunione dei
numerosi giudizi aventi ad oggetto controversie connesse

soggettivamente ed oggettivamente. Con lo stesso motivo si
censura la condanna della s.p.a. Telecom al pagamento delle
spese processuali liquidate in E 2.000,00 per ciascuno dei

giudizi e perciò in un importo notevolmente superiore a
quello recato dall’ordinanza opposta.
2.

Il primo motivo è fondato.

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Con il Codice delle comunicazioni elettroniche (d. lgs.
n.

259/2003) l’Italia ha recepito, come dimostra la loro

menzione nel preambolo, le direttive quadro sulle
comunicazioni elettroniche, emanate nelle date del 7 marzo
2002 e del 16 settembre 2002 dal Parlamento europeo e dal
Consiglio (direttiva 2002/19/CE, relativa all’accesso alle
reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate,

e alliinterconnessione delle medesime; direttiva
7

2002/20/CE, relativa alle autorizzazioni per le reti e i
servizi di comunicazione elettronica; direttiva 2002/21/CE,
che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i
servizi di comunicazione elettronica; direttiva 2002/22/CE,
relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti

in materia di reti e di servizi di comunicazione
elettronica; direttiva 2002/77/CE, relativa alla
concorrenza nei mercati delle reti e dei servizi di
comunicazione elettronica).
La finalità perseguita con tali direttive, come risulta
anche dai principi e criteri direttivi fissati dalla legge
delega [art. 41, comma 2, lett. al ) e a8), della legge 1 0
agosto 2002, n. 166], è quella, per quanto qui interessa,
di garantire: al) agli imprenditori l’accesso al mercato
con criteri di obiettività, trasparenza, non
discriminazione e proporzionalità; a8) agli utenti finali
la fornitura del servizio universale, senza distorsioni
della concorrenza.
In tale contesto l’art. 93 del Codice, con la rubrica
«divieto d’imporre altri oneri», così testualmente recita:
«l. Le Pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province
ed i Comuni non possono imporre per l’impianto di reti o
per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica,
oneri o canoni che non siano stabiliti per legge. 2. Gli
operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica
hanno l’obbligo di tenere indenne la Pubblica
8

Amministrazione (n.d.e.:

il

riferimento alla Pubblica

Amministrazione, non rilevante in questa sede, è stato

inserito dal d. lgs.

n. 70/2012),

l’Ente locale, ovvero

l’Ente proprietario o gestore, dalle spese necessarie per
le opere di sistemazione delle aree pubbliche

specificamente coinvolte dagli interventi di installazione
e manutenzione e di ripristinare a regola d’arte le aree
medesime nei tempi stabiliti dall’Ente locale. Nessun altro
onere finanziario, reale o contributo può essere imposto,
in conseguenza dell’esecuzione delle opere di cui al Codice
o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica,
fatta salva l’applicazione della tassa (n.d.e.:

c.d. TOSAP)

per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo
Il del decreto legislativo 15 novembre 1993, n.
507, oppure del canone (n.d.e.:

c.d.

COSAP)

per

l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui
all’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997,
n. 446, e successive modificazioni, calcolato secondo
quanto previsto dal comma 2, lettere e) ed f), del medesimo
articolo, ovvero dell’eventuale contributo una tantum per
spese di costruzione delle gallerie di cui all’articolo 47,
comma 4, del predetto decreto legislativo 15 novembre 1993,
n. 507».
Tale disposizione è stata ritenuta dalla Corte
costituzionale, con riferimento all’art. 117 Cost. ed alla
competenza riservata allo Stato, «espressione di un

9

principio fondamentale, in quanto persegue la finalità di
garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e
non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto
di porre a carico degli stessi oneri o canoni. In mancanza
di un tale principio, infatti, ciascuna Regione potrebbe

liberamente prevedere obblighi pecuniari a carico dei
soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio,
appunto, di una ingiustificata discriminazione rispetto ad
operatori di altre Regioni, per i quali, in ipotesi, tali
obblighi potrebbero non essere imposti. t evidente che la
finalità della norma è anche quella di tutela della
concorrenza,

sub

specie

di garanzia di parità di

trattamento e di misure volte a non ostacolare l’ingresso
di nuovi soggetti nel settore. Ad analogo criterio si
ispira la disposizione che sancisce, in capo agli
operatori, l’obbligo di tenere indenni gli enti locali o
gli enti proprietari delle spese necessarie per le opere di
sistemazione delle aree pubbliche» (Corte cost. 27 luglio
2005, n. 336, i cui principi sono stati ribaditi da Corte
cost. 28 dicembre 2006, n. 450 e da Corte cost. 22 luglio
2010, n. 272).
Si deve, poi, escludere che «il citato art. 93 si
limiterebbe a sancire una riserva di legge per così dire
“generica”; ciò che, pertanto, non precluderebbe un
intervento delle Regioni, purché esso sia disposto con atto
legislativo. Sul punto è sufficiente osservare che la
10

citata disposizione ha inteso riferirsi,

con tutta

evidenza, alla sola legge statale. t quanto si desume, in
primo luogo, dalla circostanza che il richiamo alla legge,
contenuto in una norma dello Stato, deve essere
interpretato – in assenza di ulteriori specificazioni –

come rinvio ad una fonte legislativa comunque di
provenienza statale». Inoltre, se così non fosse sarebbe
contraddetta «la stessa

ratio legis,

come individuata da

questa Corte nella già citata sentenza n. 336 del 2005, e
cioè evitare che ogni Regione possa “liberamente prevedere
obblighi

pecuniari

a carico dei soggetti operanti sul

proprio territorio, con il rischio, appunto, di una
ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di
altre Regioni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi
potrebbero non essere imposti”» (Corte cost. luglio 2010,
n. 272).
Da quanto sinora detto consegue che il punto decisivo
della questione sottoposta all’esame di questa Corte
consiste nella possibilità o meno di individuare le norme
statali che consentono l’imposizione di oneri negli artt.
822 e 823 c.c. e negli artt. 86 e 89 del d. lgs. n.
112/1998 (c.d. decreto Bassanini) che delegano alle Regioni
la gestione del demanio idrico, le relative concessioni, la
determinazione dei canoni e l’introito dei relativi
proventi.

11

Tale possibilità deve essere, tuttavia, esclusa. Le
disposizioni in esame non sono, infatti, compatibili con i
principi sopra richiamati e, in particolare, con la
liberalizzazione del mercato secondo principi di non
discriminazione e proporzionalità e con il principio di

universalità del servizio. La determinazione dei canoni di
concessione del demanio idrico da parte delle singole
Regioni consentirebbe, anzitutto, contrariamente a quanto
escluso in radice dal d. lgs. n. 259/2003 e dai suoi
principi ispiratori, condizioni diverse per i singoli
operatori a secondo delle determinazioni delle Regioni che
governano il territorio sul quale essi operano; inoltre,
l’imposizione di canoni di concessione, in assenza di un
riferimento agli utenti raggiunti rinvenibile nelle
disposizioni statali invocate dalla Regione, violerebbe il
principio di universalità poiché, da un lato, imporrebbe
oneri non proporzionati secondo criteri di incentivazione
dello sviluppo della comunicazione elettronica e, d’altro
canto, come rovescio della stessa medaglia, contribuirebbe
a disincentivare il raggiungimento di potenziali utenti
isolati, mentre obiettivo del Codice è il raggiungimento
«di tutti gli utenti finali ad un livello qualitativo
stabilito, a prescindere dall’ubicazione geografica dei
medesimi» (art. 53).
L’incompatibilità di fondo della normativa che la
controricorrente Regione invoca come deroga alla esclusione
12

di ulteriori oneri, prevista dall’art. 93 citato, è
confermata dal fatto che il Codice delle comunicazioni
elettroniche si pone come normativa speciale rispetto alla
materia da esso regolata. In tal senso depongono
chiaramente sia la scelta della legge di delegare al

Governo «l’istituzione di un quadro normativo comune per le
reti ed i servizi di comunicazione elettronica» [art. 41,
primo comma lett. a), legge n. 166/2002], sia la scelta di
racchiudere in un “codice” le disposizioni legislative e
regolamentari in materia di telecomunicazioni [art. 41,
secondo comma, lett. a), legge n. 166/2002]. Non può
sfuggire, infatti, che il termine “codice” sottintende un
testo normativo in grado di disciplinare compiutamente la
materia, un «corpo organico e sistematico comprensivo di
tutte le norme pertinenti a un ramo del diritto»
(enciclopedia Treccani on line).
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Il secondo motivo resta assorbito dall’accoglimento

del primo. Lo stesso deve dirsi per il terzo motivo laddove
lamenta l’entità della liquidazione delle spese; tale
motivo è, invecek:IWUESIBITR laddove lamenta la mancata
riunione delle cause. I provvedimenti di riunione e
separazione di cause costituiscono, infatti, esercizio del
potere discrezionale del giudice, hanno natura ordinatoria
e si fondano su valutazioni di mera opportunità, con la
conseguenza che essi non sono sindacabili in sede di
legittimità e non comportano, per gli effetti che ne
discendono sullo svolgimento dei processi, alcuna nullità
(e plurimis Cass. 15 maggio 2007, n. 11187).
4.

La sentenza impugnata deve essere cassata e, poiché

non sono necessari ulteriori accertamenti e valutazioni di
fatto, questa Corte, decidendo nel merito, dichiara non
dovuta la somma ingiunta.
Soccorrono giusti motivi, in considerazione della novità
della questione, per compensare le spese dell’intero
giudizio.
P . Q. M .
accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti il
secondo motivo e parzialmente il terzo che

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16

1-Ssibl1e nel resto; cassa la sentenza impugnata e,
decidendo nel merito, dichiara non dovuta la somma
ingiunta; compensa le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 3 luglio

2014.

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