Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20378 del 01/08/2018


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 20378 Anno 2018
Presidente: AMENDOLA ADELAIDE
Relatore: POSITANO GABRIELE

ORDINANZA
sul ricorso 25267-2()16 proposto da:
S

\ R1 ,0 , clellivameme dolnicnial() 111 ROMA, 11, \ZZA

.\1)R1.V.N.\ 0.5, presso lo studio dell’avvocato :\IARIO ORSI NI,
rappresentato c difeso dall’avvocato hER1)1NANDO VM11,1()
AB13.1:11:,:,

– ricorrente contro

P11:.S11)1”,N1A 1)V1 , CON S1(1

) D 11 :\11′.\1S- 1R 1 ;
– intítilata –

avverso la senten/a o 5961/2()16 del TRIBl’.\1.1′. di RMIA,
depositata il 23/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di cOnsigho non
partecipata del 22/02/201S dal Consigliere Dott. GABRIF1.1-: POSITAINO.

Data pubblicazione: 01/08/2018

Rilevato che:
con atto di citazione notificato il 23 aprile 2013 Carlo
Saraceni deduceva di essere intestatario di bollette relative al
consumo di acqua potabile e che la Direttiva 98-83-CEE del 3
novembre 1998 aveva tra l’altro stabilito il limite di 10 mg/I

destinate al consumo umano e che lo Stato italiano aveva
chiesto alla Commissione Europea una prima deroga al
suddetto limite con innalzamento di tale parametro sino ae 50
mg/I, ma tale richiesta era stata rigettata. Per tale motivo
evocava in giudizio davanti al Giudice di Pace di Civita
Castellana la Presidenza del Consiglio dei Ministri chiedendo la
condanna al risarcimento dei danni per violazione della
predetta Direttiva che determinava in euro 900, pari alla spesa
forfettaria sostenuta da una famiglia media per l’acquisto di
bottiglie di acqua minerale e, comunque, a titolo di danno non
patrimoniale determinato dallo stato di ansia e

stress.

Si

costituiva la Presidenza del Consiglio dei Ministri chiedendo che
la causa fosse decisa secondo diritto, trattandosi di rapporto
giuridico relativo a contratto concluso secondo le modalità di
cui all’articolo 1342 c.c, eccepiva l’incompetenza del Giudice di
Pace, individuando il Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche
presso la Corte d’Appello di Roma, eccepiva il difetto di
legittimazione passiva e contestava, nel merito, la fondatezza
della domanda. Il Giudice di Pace, con sentenza del 5 luglio
2013, decidendo secondo equità, condannava la Presidenza del
Consiglio dei Ministri al risarcimento delle spese necessarie per
il consumo di acque minerali, che liquidava in via equitativa in
euro 500, oltre spese di giudizio;
avverso tale decisione presentava appello la Presidenza del
Consiglio dei Ministri, riproponendo le eccezioni e le domande
Ric. 2016 n 25267 sez. M3 – ud. 22-02-2018
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riguardo alla presenza di arsenico contenuto nelle acque

svolte in primo grado, tranne quella di incompetenza e
chiedendo il rigetto della pretesa. Si costituiva la controparte e
formulava eccezioni in rito e di merito;
il Tribunale di Roma con sentenza del 23 marzo 2016
riteneva ammissibile l’appello ai sensi dell’articolo 342 c.p.c,

trattandosi di violazione di norme comunitarie e, comunque,
per la violazione dei principi regolatori della disciplina delle
obbligazioni risarcitorie. Nel merito accoglieva l’appello
rilevando che l’autorizzazione alla deroga operava per il
triennio 2010/12, in quanto nella decisione della Commissione
dell’ottobre 2010 era già contenuto il riconoscimento del diritto
alla deroga fino a 20 mg, poi definitivamente sancito a marzo
2011, per l’intero triennio 2010/12;
escludeva la sussistenza del nesso di causa tra il dedotto
inadempimento alla Direttiva e il danno lamentato, in quanto
non era allegato, né dimostrato che l'(eventuale) acquisto
dell’acqua potabile (comunque non provato) dipendeva dal
mancato recepimento della Direttiva, e anzi solo a ottobre
2010 (con la prima decisione della Commissione) si era rilevata
l’eventuale disarmonia tra i valori imposti e quelli previsti dalla
normativa nazionale, e comunque, non era dimostrato che di
fatto fosse stato violato il limite di 20 mg, alla fine autorizzato
dalla Commissione per il comune in oggetto;
avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Carlo
Saraceni affidandosi a quattro motivi. L’amministrazione non
svolge attività difensiva in questa sede. Parte ricorrente
deposita memoria ex art. 380 bis c.p.c. e ulteriore memoria
con la quale richiede che la causa venga trattata dalla Sezione
ordinaria, in pubblica udienza.

R1c. 2016 n. 25267 sez. M3 – ud. 22-02-2018
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nonché ai sensi dell’articolo 339, terzo comma, c.p.c.

Considerato che:
con il primo motivo deduce la violazione degli articoli 342,
339 e 113 c.p.c, nonché la Direttiva del Consiglio dell’Unione
Europea 98-83-CEE. In particolare, l’articolo 339, terzo comma
c.p.c. consente la proposizione dell’appello avverso la sentenza

comunitarie. Nel caso di specie l’appellante avrebbe dovuto
individuarle. Al contrario il Tribunale di Roma ha esaminato
l’impugnazione senza individuare le norme comunitarie che il
Giudice di Pace avrebbe violato con la decisione. Sotto altro
profilo il giudice di appello non ha enucleato il principio violato
attraverso la decisione equitativa del Giudice di Pace. Anche
sotto tale profilo il Tribunale si sostituisce al primo giudice ed
esprimere un giudizio di diritto che sostituisce quello di equità
del Giudice di Pace;
con il secondo motivo deduce la violazione della citata
Direttiva e della decisione della Commissione Europea del 28
ottobre 2000, nonché gli artt. 13, 15 e 16 del d.lgs. n. 31 del
2001, l’allegato I. Del d.lgs. n. 31 del 2001 e l’articolo 2697
c.c. contestando la ricostruzione operata dal Tribunale;
con il terzo motivo deduce la violazione di articoli 339 e
113 c.p.c, nonché degli articoli 1226, 2043 e 2697 c.c, nonché
degli articoli 115 e 116 c.p.c. e la Direttiva del Consiglio
dell’Unione Europea 98-83-CEE con riferimento alla parte della
decisione che esclude la sussistenza del nesso causale tra il
danno subito dall’attore e il mancato adeguamento dell’Italia i
limiti fissati dalla Direttiva evidenziando, come già fatto con il
primo motivo, che l’amministrazione appellante non ha
individuato il “motivo limitato” tra quelli consentiti dalle norme
citate. Sotto altro profilo non possono essere oggetto di appello

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del Giudice di Pace solo nei limitati casi di violazione di norme

avverso le decisioni adottate secondo equità dal Giudice di
Pace le valutazioni che riguardano le prove;
con il quarto motivo chiede di formulare, in via
subordinata, un quesito interpretativo alla Corte di Giustizia ai
sensi dell’articolo 267 del TFUE al fine di verificare se il diritto

acqua salubre e pulita osta all’adozione da parte dello Stato
membro di decreti amministrativi con i quali venga prorogato
l’utilizzo di un parametro superiore, in deroga a quello
contenuto nella Direttiva;
il primo motivo, che presenta profili di inammissibilità, è
infondato;
il Tribunale, infatti, ha rilevato che l’appello rispettava in
tutto le condizioni di cui all’art. 342 cod. proc. civ., né il ricorso
illustra, su questo punto, le ragioni per le quali esso avrebbe
dovuto essere ritenuto inammissibile;
quanto ai limiti dell’appello avverso le sentenze pronunciate
secondo equità, si osserva che il Tribunale ha rilevato che la
causa doveva considerarsi decisa secondo equità (c.d. giudizio
necessario di equità) in considerazione dei limiti della domanda
risarcitoria (contenuta nella somma richiesta di euro 900,
esplicitamente indicata), senza che assumesse rilievo il fatto
che l’attore era titolare di un’utenza idrica, posto che ciò non
bastava a rendere obbligatoria la decisione secondo diritto.
Sulla base di detta premessa, il Tribunale ha correttamente
osservato che l’unica impugnazione ammessa era l’appello a
motivi limitati (art. 339, terzo comma, cod. proc. civ.) e che
l’appello era da ritenere ammissibile, avendo la Presidenza del
Consiglio dei Ministri invocato la violazione di una direttiva
comunitaria e della normativa interna di recepimento, oltre che
per il fatto che il Giudice di pace aveva liquidato il danno, a
Ric. 2016 n. 25267 sez. M3 – ud. 22-02-2018
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fondamentale di ogni cittadino dell’unione di poter usufruire di

dire della parte appellante, senza alcun accertamento sull’an
debeatur;
a fronte di tale impostazione, la censura in esame lamenta
la violazione delle regole in tema di appello a motivi vincolati,
ma la doglianza non supera, in effetti, la ratio decidendi della

che l’odierno ricorrente aveva invocato in primo grado una
violazione della normativa comunitaria, ha spiegato che
l’Avvocatura dello Stato aveva invece escluso, nell’atto di
appello, che tale violazione vi fosse ed ha in questo ravvisato la
ragione giustificatrice dell’ammissibilità dell’appello;
né può sostenersi – come vorrebbe la parte ricorrente che tale violazione rappresenti «l’oggetto della controversia»,
quasi come se il ricorrente dovesse indicare qualcosa in più,
rispetto alla presunta violazione della direttiva, perché
quest’assunto si tradurrebbe nella creazione di una sorta di
limite esterno (ulteriore) che la lettera e lo spirito dell’art. 339,
terzo comma, c.p.c, certamente non prevedono;
in altri termini, quindi, l’appello è da ritenere certamente
ammissibile quando la lesione della norma costituzionale o
comunitaria costituisce la causa petendi della domanda;
il secondo motivo, che presenta profili di inammissibilità, è
comunque infondato;
la sentenza impugnata ha ricostruito i termini della vicenda
ed ha posto in luce che il Governo italiano aveva attivato,
secondo quanto previsto dall’art. 9 dell’invocata direttiva, due
periodi triennali di proroga, l’uno dal 2004 al 2006 e l’altro dal
2007 al 2009. Perdurando la situazione di superamento del
tasso soglia di 10 microgrammi per litro, fissato dalla direttiva
citata, il Governo italiano aveva chiesto alla Commissione ,

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sentenza impugnata; il Tribunale, infatti, dopo aver premesso

europea un terzo periodo di proroga, invocando l’applicazione
del tasso soglia di 50 microgrammi per litro;
la sentenza ha aggiunto che la Commissione Europea aveva
emesso due pronunce: la decisione n. 7605 del 28 ottobre
2010, con cui non aveva concesso deroghe per valori superiori

decisione n. 2014 del 22 marzo 2011, con cui aveva
autorizzato la deroga temporanea, fino al 31 dicembre 2012,
per valori di arsenico non superiori a 20 microgrammi per litro
(salvo che per i bambini e le imprese alimentari);
da tali premesse il Tribunale ha tratto la conclusione per cui
la lettura coordinata delle due decisioni portava ad affermare
che fino alla data del 31 dicembre 2012 era stato autorizzato il
superamento della soglia dei 10 microgrammi ma entro i 20
microgrammi, mentre il raggiungimento della soglia di 50
microgrammi non era stato mai consentito. Poiché l’attore non
aveva provato che nell’anno 2010 fosse stata superata la soglia
ora indicata, ne conseguiva che la domanda doveva essere
respinta;
la ricostruzione operata dal Tribunale è corretta. Ed invero
l’art. 9 della direttiva suindicata, sostanzialmente recepito
nell’art. 13 del d.lgs. n. 31 del 2001, consente agli Stati
membri di stabilire deroghe ai valori di parametro ivi fissati,
per un periodo non superiore ai tre anni, previa richiesta alla
Commissione. Le deroghe sono al massimo due, salva la
possibilità, in casi eccezionali, di chiederne una terza, sempre
per un triennio;
risulta dall’Allegato I, parte B, al d.lgs. n. 31 del 2001, che
la soglia tollerata di arsenico nell’acqua potabile deve essere
contenuta entro 10 microgrammi per litro. La Commissione
Europea, nella decisione del 28 ottobre 2010, in risposta alla
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a 20 microgrammi per litro (cioè, non i 50 richiesti), e la

deroga chiesta dall’Italia, ha dato conto che la presenza
dell’arsenico nell’acqua potabile poteva essere consentita, per
un periodo temporaneo, fino alla soglia di 20 microgrammi per
litro, mentre le più elevate soglie di 30, 40 e 50 microgrammi
non potevano essere autorizzate, perché tali da determinare un

aver negato la richiesta proroga fino a 50 microgrammi (art. 1,
comma 2), l’ha autorizzata fino alla soglia intermedia di 20
microgrammi (come si legge nel Considerando). La successiva
decisione del 22 marzo 2011 ha confermato la precedente,
consentendo la deroga fino al 31 dicembre 2012 per valori di
arsenico fino a 20 microgrammi per litro, fatta eccezione dei
bambini da zero a tre anni e delle imprese alimentari, e
ribadendo il divieto assoluto di potabilità per i valori superiori a
20 microgrammi;
il che equivale a dire che, per il periodo oggetto della
presente causa, cioè l’anno 2010, ogni richiesta risarcitoria
avrebbe dovuto dimostrare il superamento del suindicato tasso
soglia stabilito in via derogatoria temporanea; né è sindacabile
in questa sede il mancato superamento dell’onere della prova,
su questo punto, da parte del ricorrente;
a fronte di tale ricostruzione, il motivo in esame è generico
e dimostra di non cogliere la ratio decidendi della sentenza in
esame. Esso da un lato invoca senza fondamento la lesione dei
principi sull’onere della prova, posto che è evidente che è il
danneggiato a dover provare il fatto costitutivo della pretesa
risarcitoria (cioè il superamento della soglia); dall’altro si
attarda a contestare presunte errate interpretazioni delle
direttive senza considerare che il Tribunale ha dato una propria
ricostruzione dei fatti che non viene, in effetti, realmente
contestata;
RIc. 2016 n. 25267 sez. M3 – ud. 22-02-2018
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rischio di insorgenza del cancro. Quella decisione, quindi, dopo

la terza doglianza, ripetitiva di quella di cui al primo
motivo, è priva di fondamento;
anche volendo tralasciare la scarsa chiarezza di alcuni
passaggi, è decisivo il fatto che la contestazione dei limiti entro
i quali può essere fatta oggetto di appello una sentenza del

valutazione delle prove; in altri termini, è errato sostenere che
il Tribunale, una volta ritenuto ammissibile l’appello, non
potesse sindacare la valutazione delle prove compiuta dal
Giudice di pace (tale sembra essere la censura per come è
sintetizzata in ricorso), perché tale affermazione non trova
alcun supporto normativo. Ed anzi, la Corte costituzionale,
occupandosi della legittimità costituzionale dell’art. 339, terzo
comma, c.p.c, ha evidenziato che l’appello avverse le sentenze
del Giudice di pace pronunciate secondo equità, «pur limitato
al controllo di vizi specifici, è comunque caratterizzato dalla sua
essenza di mezzo a critica libera derivante dall’effetto
devolutivo pieno della materia esaminata in primo grado»
(ordinanza n. 304 del 2012);
è poi da aggiungere, ad abundantiam, che non è contestata
la motivazione della sentenza nella parte in cui afferma che
l’interessato non aveva in alcun modo documentato l’effettivo
esborso per l’acquisto dell’acqua minerale in luogo di quella
fornita dal Comune;
il rigetto dei primi tre motivi comporta l’assorbimento del
quarto, col quale si chiede di rimettere una questione
pregiudiziale di interpretazione alla Corte di giustizia
dell’Unione europea, posto che è chiara l’irrilevanza della
sollecitata rimessione;

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giudice di pace non può riguardare anche il merito della

il ricorso, pertanto, è rigettato. Nulla per le spese non
avendo l’amministrazione espletato attività processuale in
questa sede;
sussistono inoltre le condizioni di cui all’art. 13, comma 1quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento,

contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio
2002, n. 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta
Sezione Civile – 3, il 22 febbraio 2018.
Il Presidente

O

iAit

da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di

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